domenica 22 dicembre 2013

Requiem (provvisorio) per l'avanguardia

Non è semplice comprendere perché il concetto di avanguardia appaia oggi, agli occhi di molti, superato e anacronistico, mentre dal punto di vista storico, sociale e antropologico sembrano invece ripresentarsi condizioni e fenomeni che ricordano, per molti versi, gli inizi del Novecento. L'arte è, in ogni epoca e in ogni luogo, strettamente interconnessa con la società che la produce: l'arte d'avanguardia ha instaurato un rapporto di reciproco condizionamento con l'era della modernità (non a caso l'espressione modernismo è spesso usata come sinonimo di avanguardia storica e artistica) intrattenendo profondi legami con il sociale. Il termine avanguardia, infatti, prima ancora di essere utilizzato per designare una determinata corrente artistica o letteraria, compare nel lessico politico per indicare le frange radicali e rivoluzionarie. Quali sono, dunque, gli aspetti specifici dell'avanguardia e in che modo essi possono essere collegati con le caratteristiche del contesto storico in cui essa si sviluppa?
Senza ombra di dubbio il primo elemento distintivo che emerge con forza è l'attivismo, il gusto per l'azione, per il movimento, per la mobilitazione di energie: il dinamismo è un ingrediente fondamentale della modernità e la contemporanea evoluzione della società non ha fatto che confermare questa tendenza. La rapidità dei mutamenti, il progresso incessante, l'accavallarsi degli eventi contribuiscono a rendere l'individuo, immerso nel flusso delle trasformazioni, sempre più reattivo, pronto al cambiamento, disposto ad adattarsi, così come a modificare l'ambiente circostante.
Altro imprescindibile connotato dell'avanguardia è l'antagonismo, che si manifesta in due forme principali: da un lato l'antagonismo nei confronti della tradizione, dall'altro l'antagonismo nei confronti del pubblico. La prerogativa dell'ostilità e la ricerca dello scontro sembravano scomparse con l'avvento della postmodernità; la volontà di straniarsi dalla norma aveva ceduto il posto, con il trascorrere dei decenni durante il secolo scorso, al disincantato abbandono nella bieca mediocrità, a un cinico e a volte compiaciuto accomodarsi fra gli agi del già noto, del consueto. Probabilmente proprio il venir meno, nella fase tarda della modernità, di ogni forma di antagonismo è alla base della contemporanea percezione distorta dell'attualità di un'arte d'avanguardia, che trova il suo principale fondamento nella banalizzazione dello sperimentalismo, nella vacua ricerca della novità e dell'originalità a ogni costo, dello shock, della trovata bizzarra e stupefacente. L'avanguardia non era aliena da ogni convenzione: anche la sua sregolata ingegnosità era sottoposta a una disciplina, rientrava in qualche modo in un più ampio apparato normativo. La frattura con la tradizione, nella rincorsa affannosa della discontinuità con l'esperito, è sbiadita lasciando gradualmente subentrare un gusto basato sul riciclaggio e sulla ripetizione. Secondo la logica dell'alternanza, dopo un estenuante ciclo di ansiosa sperimentazione, giunge la spossatezza, la consapevolezza dell'impossibilità del continuo superamento dei limiti del conosciuto; ma sarebbe ingenuo pensare che la ruota si sia fermata e che non stia continuando a girare. La generazione di artisti cresciuta negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso si è affidata alla convinzione che tutto fosse stato già fatto e ha sfruttato questo pretesto per costruire nuove forme di comunicazione incentrate sullo spostamento di dati già elaborati, decisamente meno impegnative dal punto di vista dell'estro e dell'inventiva. L'espandersi delle possibilità comunicative, la comparsa di nuovi mezzi per il trasferimento dei dati, la disponibilità di una crescente quantità di informazioni hanno contribuito allo svilupparsi del gusto per la citazione e la contaminazione. La tradizione è diventata un aggregato complesso di materiali, una fonte inesauribile di spunti, non più soltanto accademici, da cui attingere per la produzione artistica. Eppure oggi la nostalgia non è più un rimedio sufficiente per affrontare la profonda crisi sistemica in atto.
Un discorso analogo può essere fatto per l'altro tipo di antagonismo, anch'esso ampiamente condiviso dai movimenti d'avanguardia: l'ostilità nei confronti del pubblico. Un atteggiamento simile traeva origine dalla scarsa fiducia nella massa dei fruitori, spesso non reputati all'altezza di comprendere l'essenza e il significato profondo dell'arte d'avanguardia. Lo spirito settario e il carattere eminentemente aristocratico di molti intellettuali ribelli e anticonformisti potrebbero sfuggire a uno sguardo superficiale: la protesta del singolo e la rivolta individualistica presupponevano l'opposizione alla società in senso lato, che si delineava come un rivale da osteggiare. Si creavano invece vincoli di solidarietà nell'ambito più ristretto e circoscritto dei "diversi": l'avanguardia è stata necessariamente un fenomeno elitario. Così il modernismo, con il suo spirito sovversivo e il suo disprezzo per le ideologie, appariva a certa critica storico-sociologica di matrice marxista nient'altro che una degenerazione patologica della cultura borghese. Un'ipotesi non del tutto infondata, se si analizzano le convergenze tra la corrente decadentista, ad esempio, e il pensiero reazionario. L'artista-dandy o l'artista-bohémien erano prototipi di anticonformismo e di sovvertimento dei convenzionali codici di comportamento attraverso l'eccentricità, l'esibizionismo, la provocazione e la sfida. La volontà di destare scandalo era sintomatica del rifiuto da parte dell'artista d'avanguardia di degradarsi in seno alla massa: egli si sentiva superiore e non voleva confondersi con la folla. Derivava da una tale presa di posizione l'oscurità di tante opere moderniste: volontariamente incomprensibili, esse non potevano che diventare, nella maggioranza dei casi, impopolari. Collegato a questi problemi è il tema dell'alienazione: l'avanguardia voleva essere negazione della cultura ufficiale, quindi della cultura democratica e borghese; eppure essa poteva sussistere ed esprimersi esclusivamente all'interno della società liberale, frutto del capitalismo, che ammetteva la sua esistenza come eccezione. Ne derivava un paradosso: l'arte d'avanguardia rendeva involontariamente omaggio alla società democratica e borghese, accettando i suoi meccanismi e arrendendosi a essa, nonostante si proclamasse antidemocratica e antiborghese. I dilemmi dell'artista moderno, i suoi sogni di rivoluzione di fronte al disprezzo di ogni valore qualitativo e al naufragare della civiltà nel futile eccesso quantitativo, il suo isolarsi in uno stato di incontaminata esclusione, le sue utopie insieme retrospettive e anticipatorie erano semplicemente un tentativo di reazione di fronte all'affermarsi della cultura di massa, considerata una forma di pseudo-cultura. Tutto ciò tenderà poi a scomparire con il sopraggiungere della rinnovata sensibilità postmoderna, decisamente più arrendevole nei confronti degli sviluppi uniformanti della civiltà di fine millennio. Spersonalizzazione e standardizzazione non appariranno più come mostri: pur nella valutazione attenta dei fenomeni culturali popolari e di massa, gli artisti postmoderni riusciranno a evitare un incondizionato atteggiamento di condanna. In altre parole, l'artista surmoderno sarà perfettamente integrato nella società dell'immagine, che trasformerà il creativo in una pop star idolatrata dalla folla: niente di più lontano dalla concezione romantica del genio ribelle e incompreso. Il trend mitizzante è stato (ed è tuttora) incoraggiato soprattutto dal mercato dell'arte, che ha prosperato in epoca postmoderna, creando dal nulla, attraverso criteri estetici eterodiretti, il valore economico di "capolavori" sapientemente costruiti sulla base di meccanismi autoconvalidanti, del tutto indipendenti dalla qualità delle opere. Tuttavia oggi si possono riscontrare i primi segnali di inversione di tendenza: uno fra tutti, il rinnovato interesse per le figure di outsider, marginali, esclusi che certa critica (Massimiliano Gioni in testa, considerate le scelte per la sua Biennale) sembra voler recuperare, insieme a una rinvigorita consapevolezza del valore sociale dell'arte. D'altro canto, se attivismo e antagonismo non sono certo scomparsi insieme alle avanguardie storiche, non lo è neppure il prevalere dell'istinto, degli impulsi, di una sorta di volontà incosciente e automatica di reazione alla concezione classica e umanistica della razionalità come freno e inibizione. Il nichilismo e il desiderio di distruzione rientrano perfettamente nell'ottica di un dinamico contrasto: non-azione come rivolta ed evasione, rifiuto di costruire come resistenza alla banalizzazione.
Alain Touraine ha descritto la modernità come rivoluzione illuminata portata avanti dall'uomo contro la tradizione, come strumento critico; questa istanza di rinnovamento, più che la fiducia nel progresso e nella razionalità scientifica, ha caratterizzato l'avanguardia modernista. Quindi avanguardia e modernità poggiavano sulla base solida di un modello di società, con i suoi valori e con una propria identità. Cosa è accaduto quando questo modello è crollato? In un certo senso si può far coincidere l'avvento della postmodernità con la crisi dell'identità sociale moderna: l'individuo non si riconosce più in quello che è, ma in quello che consuma; abbandonato ogni valore, il soggetto si rinchiude in se stesso, con il solo obiettivo di perseguire i propri bisogni. Quella che emerge alla fine del secolo scorso è una civiltà senza storia, senza prospettive, senza progetti. Il deteriorarsi, a causa della loro esasperazione o del proprio affievolirsi, dei principi cardine dell'epoca moderna (dinamicità, progresso e trasformazione incessante), ha fatto sì che l'identità a essi correlata vacillasse. Si è così aperta la stagione della crisi, che ora è nel pieno della sua tragica evidenza, ma che sicuramente è preludio di nuovi progetti, nuovi valori, nuove prospettive.