lunedì 30 giugno 2014

Il "modo all'italiana": dal film di consumo al cinema postmoderno

Il teorico francese Laurent Jullier identifica gli indici stilistici del cinema della surmodernità nel riciclaggio delle immagini, nelle frequenti allusioni e strizzatine d'occhio al pubblico (che viene coinvolto in una sorta di gioco metalinguistico) e nella sollecitazione di sensazioni forti per mezzo dell'adozione delle cosiddette figure dell'immersione, il cui scopo è quello di sprofondare lo spettatore in un bagno di emozioni e di suoni dotato di una forte componente onirica. Autoreferenzialità e abbandono edonistico sarebbero dunque i due poli intorno ai quali si definisce la natura del film postmoderno, il quale coniuga l'intertestualità, la rivisitazione, l'attraversamento culturale, l'ambiguità, la polisemia e la connotazione, con uno spiccato orientamento in direzione della sensazione e del piacere. L'ostinata presentazione di immagini di sintesi, la cui funzione è quella di creare una realtà virtuale improntata all'immersione, e la ricerca dell'appagamento sensoriale ad ogni costo, a discapito degli aspetti significativi, valoriali e simbolici contenuti nell'opera cinematografica, giustificano la presa di posizione di Jullier che parla, a questo proposito, di discorso di defezione o di non-discorso. Il film deve stimolare non più a livello intellettuale, ma a livello corporeo, fisico. Il trasporto verso la struttura virtuale del sistema mediatico e quindi la predilezione per il cinema fatto di effetti speciali coinvolgenti, di trovate tecnologiche in grado di stupire e affascinare lo spettatore, può essere interpretato come una risposta alla relativizzazione operata dalla cultura moderna e all'eccesso di parcellizzazione e di frantumazione proprio della società postmoderna. Nel momento in cui il B-movie accede allo statuto di film d'autore, in seguito a un potenziamento coreografico reso possibile dalle innovazioni tecniche e dalla crescente mole di investimenti economici, si sviluppa un genere nuovo di opera cinematografica commerciale, che promuove nel pubblico il piacere della spettacolarità. Il film postmoderno è subordinato e dipendente dalla tecnologia che ha contribuito a produrlo, poiché gran parte della sua efficacia dipende dalla qualità dei macchinari utilizzati per la proiezione e la riproduzione (il pieno godimento degli effetti speciali è condizionato dalla presenza di schermi grandi e a elevata risoluzione, nonché di ottimi impianti di diffusione del suono). Alcuni aspetti della surmodernità si riflettono nella produzione cinematografica: la serialità, il revival, il rifacimento, la citazione, diventano strumenti di gestione delle aspettative del pubblico. La scarsa rilevanza della trama, dei contenuti, che si cristallizzano in schemi ripetuti, è funzionale al soddisfacimento di uno spettatore sempre meno impegnato razionalmente, pronto a reagire e a entusiasmarsi di fronte alle variazioni di ritmo, di intensità e di colore delle immagini e dei suoni, attento più che altro alla patina superficiale e scenografica. La comunicazione nel cinema postmoderno ha come oggetto privilegiato la percezione e il pathos, più che la produzione di senso: il fruitore subisce il messaggio in una condizione di cinica indecisione, senza preoccuparsi di rendersi conto del suo significato, incantato dall'appariscenza patetica del fotogramma. Il cinema di Hollywood non fa altro che pescare a piene mani dai repertori collaudati dei film di successo (come si trattasse di una specie di magazzino dal quale poter attingere comodamente miti e temi utili al confezionamento di nuovi prodotti): la sua priorità è quella di promuovere i programmi di marketing che l'industria gli costruisce intorno e, nello stesso tempo, quella di pubblicizzare se stesso, attraverso allettanti e ininterrotte anticipazioni. Seguendo l'esempio della produzione seriale televisiva, al pubblico viene offerto uno spunto, un prototipo da sviluppare e da riprodurre, come avviene nelle fiction per la TV: così il film perde la sua unicità e compiutezza, la narrazione passa in secondo piano e si riduce a un canovaccio standard che consente pochissime variazioni. Tra le cause principali che hanno determinato una modificazione così profonda nella prassi creativa e nelle modalità di ricezione bisogna senza dubbio includere la proliferazione dei canali e della programmazione televisiva, che ha prodotto un universo della visione frammentato e caotico, fatto di zapping, polisemia e libera associazione delle idee. All'estetica dell'opera d'arte subentra gradualmente l'estetica del trash: il cinema postmoderno propone i frammenti, i detriti della cultura contemporanea, mescolandoli come in un frullato, come nelle opere di Robert Rauschenberg, brulicanti di oggetti e materiali disparati. Il riciclaggio, la contaminazione e l'omogeneizzazione delle immagini, presenti simultaneamente e tutte percepibili liberamente nell'immediato, distruggono le gerarchie di valori e sganciano la comunicazione da ogni valenza etica e morale. La cultura spezzata è fredda e impassibile: forse è la più adatta a rappresentare il mondo della surmodernità.
Per quanto i più autorevoli interpreti e studiosi della storia del cinema, nelle loro cronologie, definiscano postmoderna quella produzione che, a partire dagli anni Ottanta, risulta ormai irrimediabilmente legata alla dimensione spettacolare e in cui il processo di dissoluzione del soggetto e della sequenza narrativa raggiunge uno stadio avanzato, è innegabile che la cinematografia della surmodernità rappresenta un'evoluzione del film medio o di consumo, esplicitamente finalizzato all'intrattenimento, di derivazione hollywoodiana, che si sviluppa in maniera massiccia proprio durante gli anni Sessanta e che costituisce una notevole fetta delle realizzazioni di Cinecittà. Nel nostro Paese, con l'esaurirsi dell'intensa stagione del Neorealismo, non sembra ricostruirsi un movimento contraddistinto da poetiche condivise e da tensioni collettive. Unica tra le grandi cinematografie postbelliche, quella italiana non riesce a raccogliersi intorno a un denominatore comune: non viene a crearsi un nucleo di cineasti in grado di dar vita a un dibattito costruttivo e quindi a opere capaci di elevarsi al di sopra del cinema medio o miseramente commerciale. Rispetto ad altri contesti (la Francia della nouvelle vague o gli Stati Uniti del New American Cinema, ad esempio), scossi da vere e proprie ondate intellettuali, in Italia gli unici propugnatori di tendenze sono i produttori e gli unici intenti unificanti sono quelli che rincorrono il successo al botteghino. Vero è che, se è difficile rintracciare una corrente d'insieme, non sono poche le personalità di rilievo internazionale che vengono alla luce a partire dal dopoguerra: accostare le opere di registi come Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Marco Ferreri o Pier Paolo Pasolini (solo per citare alcuni nomi, l'elenco completo sarebbe molto più lungo) a mediocri film di consumo vorrebbe dire svilirle. Ma al di là delle illustri eccezioni, se si tenta un bilancio critico della cinematografia degli anni Sessanta italiani, il fenomeno che balza immediatamente agli occhi è la fioritura di filoni, generi e macrogeneri, tutti legati in qualche modo alle esigenze del mercato: dalla commedia all'italiana, al makaroni western, al film sexy, ai pepla (ovvero le pellicole di ambientazione romano-mitologica). Non comporta un grande sforzo avvicinare il cinema italiano del periodo, sottoposto a una sommaria industrializzazione, al cosiddetto cinema postmoderno: in entrambi sono evidenti la serializzazione dei prodotti e il livellamento delle loro caratteristiche culturali e ideologiche, sacrificate alle necessità spettacolari; in entrambi opera il meccanismo secondo il quale la struttura del film di gradimento popolare viene trasformata in prototipo, in ricetta rigida, attraverso un sapiente dosaggio di ingredienti narrativi e coreografici. L'urgenza consumistica lascia al regista il semplice ruolo di variabile dipendente, mentre la continuità del successo è garantita dal ripetersi degli schemi: gli sceneggiatori confezionano storie vendibili e stuzzicanti nel rispetto degli equilibri brevettati; la presenza di attori-divi, che il pubblico è in grado di riconoscere e ai quali sono assegnati ruoli standard, riduce lo sforzo interpretativo perché consente l'immediata identificazione iconica del personaggio. Al regista non resta che realizzare il disegno, adeguarsi a formule vincolanti. Il "modo all'italiana", uno tra i più interessanti macrofenomeni cinematografici dell'epoca, almeno dal punto di vista socio-antropologico, con la sua scarsa propensione alla riflessione e alla problematicità, con la sua spiccata attitudine ricreativa, con la sua cura per l'elemento scenico, con il suo conformarsi alla serialità, anticipa problematiche centrali nel cinema che è stato definito postmoderno. Per questo motivo non sorprende scoprire, ad esempio, che uno tra i più acclamati registi contemporanei, sottile interprete della surmodernità, come Quentin Tarantino, è un grande estimatore del western all'italiana e dei film di Sergio Leone: ne forniscono la prova le frequenti citazioni e la manifesta influenza esercitata, sia da un punto di vista estetico che tematico, dal filone spaghetti-western sull'autore americano. D'altronde il paradigma etico piccolo-borghese, fatto di rassegnato cinismo e di compiaciuta arte d'arrangiarsi, prevalente nel cinema italiano dei sixties, coincide per molti versi con la mentalità vacillante e la nomade identità degli autori postmoderni. La perdita del centro, la crisi negativa, la sensazione di delusione e di vuoto creata, nello specifico caso italiano, dalla dissoluzione del mito della Resistenza e dal cozzare delle speranze postbelliche con una realtà effettuale in cui le illusioni tendono a incrinarsi, si ripercuotono sull'immaginario creativo imponendo formule indurite: si ricercano certezze dove queste possono essere ricreate artificialmente. Almeno nei film, la società del dopoguerra desidera la pacificazione, vuole illudersi inseguendo inconsistenti punti di riferimento: con il proliferare di commediole sexy et similia l'industria cinematografica risponde alla diffusa richiesta di prodotti consolatori. Azzardando qualche generalizzazione, la crisi dei valori e delle certezze determinata dalla radicalizzazione della modernità produce effetti simili: lo spirito che anima il film postmoderno ha origine in un contesto sociale di esteso disincanto, che, per reazione, fa in modo che il cinema ricorra a una prassi confortante, costituita da schematizzazioni e da moduli ridondanti. Le trame esili e scontate, ricalcate sulla fiction televisiva, lo sfoggio di sbalorditivi effetti speciali, l'esasperazione kitsch e a tratti comica delle più forti emozioni umane (dalla sessualità alla violenza), le canoniche dosi di suspense che preludono a esiti prevedibili, non sono altro che un complesso di pratiche finalizzate alla creazione di un mondo virtuale in cui tutto è semplice, comprensibile, forse anche banale. Come tutte le forme di cultura di massa, anche il film di consumo è un tentativo di riduzione della complessità.