martedì 28 luglio 2015

I futuri del mondo e il giardino del disordine

All the World's Futures, la mostra di Okwui Enwezor per la 56esima Biennale di Venezia, trasforma i Giardini e gli spazi dell'Arsenale in una metaforica rappresentazione del reale o, per usare le parole del curatore, dell'attuale "stato delle cose, vale a dire la pervasiva struttura di disordine che caratterizza la geopolitica, l'ambiente e l'economia a livello globale". L'intenzione è quella di mettere in scena un evento polifonico e multiforme, in grado di evolversi durante i sette mesi della manifestazione, dando voce alle diverse visioni del mondo elaborate da artisti provenienti da ogni angolo del pianeta. Sono infatti ben 53 i paesi di origine, molti dei quali appartengono alle aree che il sistema dell'arte (fondamentalmente radicato nel mondo occidentale) considera periferiche e alle quali si rivolge spesso esclusivamente alla ricerca di fascinazioni esotiche. Il risultato è una mostra fortemente connotata in senso politico, a partire dal programma di letture dal vivo del Capitale di Marx, l'opera che funge da chiave interpretativa generale dell'esposizione, evocando il dramma contemporaneo dell'economia predatoria e della rapacità della finanza. Eppure la visione apocalittica della realtà di Enwezor, che si riflette nelle sue scelte curatoriali, è quanto di più distante si possa immaginare dall'idea di progresso implicita nel materialismo storico. Marx individuava nella lotta di classe, nel succedersi di fasi critiche e nell'alternarsi dei modi di produzione l'indizio di quell'inevitabile cambiamento che avrebbe prima o poi condotto al declino del capitalismo e alla nascita di nuove forme sociali. Oggi la tragica evidenza del decadimento, dell'incertezza e dell'instabilità che dilagano in ogni regione del mondo rende difficile immaginare nuovi e incoraggianti scenari; quindi Enwezor, insieme a buona parte degli artisti da lui selezionati e invitati, sembra voler suggerire che la missione "politica" dell'arte consista nel rendere palpabile questa inquietudine, nel distruggere il velo della "prosaica apparenza delle cose", nel donare al pubblico la capacità di guardare più lontano, con lo stesso sguardo sconvolto dell'Angelus Novus, il dipinto di Klee tanto amato da Walter Benjamin.
Enwezor sa bene che l'arte può essere anche fuga dalla realtà e negazione dell'esistente, infatti ha il massimo rispetto del "diritto al disimpegno", riconoscendo che alcune tra le più significative opere dell'ingegno umano sono nate da una posizione radicale di distanza dal mondo, dal vagheggiamento di un'idea pura. Tuttavia, orchestrando il suo progetto espositivo in stretta relazione con il tempo e i contesti della sua esperienza di vita, sente forte l'esigenza di guardare in faccia la cruda realtà e di restituire al pubblico le testimonianze degli artisti che meglio hanno saputo rappresentarla. Ne deriva un panorama dalle tinte cupe, un'immagine del presente come epoca del disincanto, in cui ci si aggira tra le rovine nell'attesa della fine: la visita del Padiglione Centrale ai Giardini, vestito a lutto dalle bandiere nere di Murillo, inizia dalla sala ottagonale dedicata per intero a Fabio Mauri, nelle cui opere si ripete ossessivamente proprio la formula conclusiva "The End". Poi atmosfere funeree e fosche visioni escatologiche si moltiplicano in questa Biennale: si passa dalle lavagne del Leone d'Oro Adrian Piper (con la scritta "Everything will be taken away" ricopiata decine di volte), all'albero morto di Robert Smithson, al meraviglioso ciclo pittorico di Marlene Dumas composto da piccole tele che raffigurano teschi, alla doppia proiezione di Steve McQueen (che racconta la storia di Ashes, giovane pescatore scomparso a soli 25 anni), ai fiori essiccati di Taryn Simon (testimoni silenziosi degli incontri che hanno modificato il mondo).
All'immanenza della catastrofe e alle apparizioni di morte Enwezor contrappone una vitalità fatta di parole e di racconti, di "durata epica", come se il presente fosse un remoto passato da recuperare nell'oralità: per questo affida a un fitto programma di performance, letture, recital, proiezioni di film e dibattiti il compito di animare in maniera continuativa l'Arena, uno spazio all'interno del Padiglione Centrale pensato come "luogo di raccolta della parola parlata". All the World's Futures, d'altronde, comprende un numero senza precedenti di progetti realizzati appositamente per la Biennale: delle opere esposte, ben 159 sono nuovi lavori. Il desiderio di dare forma a un mosaico di prospettive dalle quali esaminare la condizione umana non ha alcuna funzione apotropaica, né vagamente consolatoria, anzi trascina il pubblico in un vortice di relativismi, in una profusione di punti di vista che, se riesce benissimo a mostrare le ferite della storia e del momento, non lascia spazio a quella speranza che si nutre di semplificazioni e cieca fiducia nell'avvenire. Un'analisi così accurata dell'epoca contemporanea finisce per imporre la necessità di un severo ripensamento dei modelli comportamentali, delle abitudini, degli stili di vita e delle convinzioni. Condanna alla completa assenza di soluzioni a breve termine, al sacrificio e alla lotta, oppure, in ultima istanza, alla rassegnazione. Per questo motivo la 56esima Esposizione Internazionale d'Arte è destinata a diventare una mostra "impopolare": in parte per l'intrinseca difficoltà di lettura di buona parte del materiale di tipo documentario, ma soprattutto per la sua palpabile crudezza e la sua sincerità da Grillo Parlante.
Nel complesso il clima di angosciosa disillusione, che cresce in maniera esponenziale opera dopo opera, diventa a tratti esasperante: in un simile contesto risulta quindi difficile apprezzare, per esempio, il lavoro di Christian Boltanski. Per fortuna alcune isole di misurato equilibrio formale riescono a rappresentare lo stesso disagio senza generare sovraccarichi emotivi: è il caso della ricerca concettuale sul linguaggio di Glenn Ligon, del libro d'artista di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige Latent Images: Diary of a Photographer (in cui le descrizioni delle immagini sostituiscono le centinaia di pellicole mai sviluppate del fotografo libanese Abdallah Farah) e dei mai troppo celebrati neon di Bruce Nauman. Eppure, probabilmente, l'opera che più di ogni altra rende conto dell'infinita varietà dei "futuri del mondo" è il progetto Frequencies di Oscar Murillo, che porta in Biennale le tracce lasciate sui banchi di scuola da qualche migliaio di alunni provenienti da una ventina di paesi: proprio su quei banchi, ogni giorno, si scrive una pagina di domani.
Diversificata come sempre la proposta delle 89 partecipazioni nazionali: tra i padiglioni più interessanti quelli del Giappone, dell'Olanda e della Francia. Chiharu Shiota sospende su due barche, simbolo del viaggio di ogni esistenza individuale, un intenso groviglio di lana rossa dal quale pendono migliaia di chiavi; herman de vries "dipinge" monocromi con la terra dei diversi continenti ed esplora le relazioni tra uomo, cultura e natura; Céleste Boursier-Mougenot sorprende con i suoi alberi in movimento. Deludente, invece, il Padiglione Italia curato da Vincenzo Trione: la scelta di racchiudere ogni artista in una sua "cella" rivela l'inconsistenza del progetto complessivo, che delega ai singoli la responsabilità della riuscita di interventi scollegati. Mimmo Paladino copia se stesso e persino qualche artista tra i più giovani non si sforza più di tanto (minimo impegno e minimo risultato per Francesco Barocco, tanto per fare un nome). Nella generale mediocrità spiccano l'installazione del grande maestro Kounellis e le fotografie di Gioli, mentre si difende bene Marzia Migliora.
Tra gli eventi collaterali e le tante mostre in Laguna sono da segnalare la collettiva Slip of the Tongue curata da Danh Vo negli spazi di Punta della Dogana, la retrospettiva Città irreale dedicata a Mario Merz presso le Gallerie dell'Accademia, la selezione di opere essenziali e rigorose al Museo Fortuny (il titolo dell'esposizione, Proportio, rimanda alla proporzione aurea) e la personale Land Sea di Sean Scully a Palazzo Falier.