lunedì 19 gennaio 2015

Tre domande a Sergio Breviario

Nel tuo lavoro il disegno è sempre stato centrale, ma forse l'aspetto più interessante della tua ricerca è il tentativo costante di costruire un rapporto privilegiato con lo spettatore, la cui attenzione è catturata e guidata verso il centro dell'opera da una perfetta macchina percettiva, sapientemente congegnata attraverso le scelte di allestimento. In che misura la costruzione degli ambienti espositivi può essere considerata parte integrante del processo creativo? In genere si tratta di una fase successiva al disegno, che nasce come espediente per orientare la fruizione, oppure progetti contestualmente contenitore e contenuto?
È innegabile che misurare, modificare e progettare gli spazi espositivi sia, per quanto mi riguarda, parte integrante dell'opera. Realizzare una mostra equivale ad edificare luoghi compiacenti ai miei gusti, ai miei stati d'animo, alle mie necessità, ma autonomi nella meccanica costruttiva. Una sorta di castello di sabbia con regole ed unità di misura imposte a priori, tutte rivolte all'autodeterminazione di un mondo artificiale. Il processo di misurazione e progettazione dello spazio, nel corso degli anni ha dato luogo ad una sorta di modalità operativa, che io chiamo artificio.
Devo precisare che per quanto concerne il disegno, tu affermi che nel mio lavoro è sempre stato centrale; mi permetto di puntualizzare che più che centrale è sempre stato presente. Infatti fin dagli inizi sono comparsi disegni aventi come soggetto volti androgini, realizzati con matita HB, tutti della stessa dimensione: 32×23 cm. Questi personaggi fungono da immobili spettatori; esposti all'interno di questi spazi, ne modificano le ragioni e quindi la forma, ma restano comunque autonomi, distaccati ed intercambiabili fra loro. Difatti alcuni ritratti sono apparsi in differenti mostre, svolgendo differenti compiti.
Detto questo, è giusto affermare che questi due elementi, il disegno e lo spazio artificiale, si fondono creando un'unica opera. Funzionano da macchina ottica, messa lì per stimolare i sensi dei visitatori esterni. Trovo che il termine macchina sia calzante, perché dà l'idea non di un'opera compiuta fine a se stessa, esposta per essere contemplata, ma di qualcosa che serve a fare, a produrre. In effetti tutto questo ambaradan ha il solo scopo di suggerire immagini sensibili al visitatore; mostre intese come macchine per produrre immagini mentali. Ciò che mi interessa dell'arte in generale è proprio la sua attitudine a sostare nella memoria delle persone, come immagine primordiale. Per immagine primordiale intendo quelle sensazioni che precedono ogni forma di pensiero, un qualcosa che riaffiora come un antico ricordo. Artificio non è un tentativo di creare qualcosa di originale e innovativo, ma al contrario tenta di far tornare alla mente qualcosa che già si conosce, di intimamente familiare. Per questo l'esperienza fisica della mostra è indispensabile; é indispensabile la condivisione dell'opera. Il visitatore conclude il processo innescando il meccanismo percettivo.
Artificio è difatti un metodo operativo utilizzabile in diverse situazioni: nel corso di quest'ultimo anno ho iniziato a sperimentarne l'utilizzo al di fuori degli spazi dedicati alla mia persona e cambiando tale punto di riferimento sono cambiate anche le necessità tecniche. Ho lavorato con una Polaroid 230 in grado quindi di produrre immagini fotografiche istantanee, fisicamente presenti anche se di piccolo formato. Queste fotografie tentano di ricostruire mondi artificiali risalenti a immagini della memoria. Per questi lavori ho deciso di mettere in atto un sistema espositivo che non tenesse conto dello spazio circostante. Anche i disegni sono stati sostituiti da una precisa allusione allo sguardo; ancora una volta i visitatori si sono ritrovati involontariamente ad essere parte determinante di un meccanismo percettivo. O almeno così mi piace credere.

La dimensione relazionale di alcune delle tue ultime architetture in movimento appare quasi esasperata: le opere agganciate alle spalle per mezzo di strutture mobili e indossabili diventano propaggini del corpo, ma nello stesso tempo lo appesantiscono, rendendo difficili i movimenti. Perché hai deciso di puntare su un coinvolgimento così diretto e materiale, quando invece in altre occasioni sei riuscito a entrare in perfetta sintonia con il pubblico su un piano concettuale e mentale? Non credi che in determinate circostanze l'interazione possa essere sostituita dall'idea di interazione, lasciando il risultato e il significato immutati?
"Dimensione relazionale [...] esasperata": interessante questa definizione. Le tue parole mi fanno riflettere: queste strutture non le ho pensate come protesi fisiche, ma come mezzi o se preferisci come delle rudimentali architetture, necessarie per fare in modo che il corpo si sostituisca alla parete dove solitamente abbiamo l'abitudine di esporre i nostri quadri. Non ho aggiunto nulla, anzi ho tolto. Ho tolto lo spazio espositivo, le stanze, i muri...
Questi nuovi spazi artificiali, queste strutture, sono semplicemente modalità espositive che mi permettono di azzerare lo spazio circostante, senza per questo rendere le opere solo oggetti da vedere. Mantengono la loro funzione, senza intaccare quel rapporto tra macchina ottica e spettatore di cui abbiamo parlato sopra. Appendere un disegno alla parete è per me un gesto che deve essere motivato, in quanto il muro potrebbe restare semplicemente e meravigliosamente vuoto. Non è sufficiente avere un buon disegno o un buon quadro o quant'altro, mi serve un meccanismo, un tentativo di relazione tra il disegno e chi lo guarda che potremmo definire "esasperato" per tornare alle tue parole.

L'intero repertorio di immagini che costituisce il tuo personale alfabeto visivo è generato dal sapiente accostamento di luci e ombre in un minuzioso ricamo fondato sul passaggio tonale. Agli assoluti preferisci la grazia di un equilibrio precario? Esiste armonia in ciò che è in divenire?
Non è l'armonia lo scopo di tutto ciò che facciamo? Io voglio credere di sì, che l'armonia sia il teorema da dimostrare.
Il passaggio tra luce e ombra è una cosa reale, fisica, esprime un senso di vitalità. Oscillare ostinatamente tra le infinite tonalità di grigio è come riprodurre continuamente stati vitali: il giorno e la notte, il bene e il male, la vita e la morte... Ma senza mai toccare gli estremi.
Solitamente i disegni hanno per soggetto dei volti, ma solo perché l'uomo ha necessità di ritrovarsi nelle immagini, di specchiarsi. Ciò che mi interessa è il passaggio tonale, il grigio. Il grigio è per me il colore/non colore dell'arte. Ti racconto un fatto: una volta ho inviato ad una rivista d'arte delle foto di alcune mostre per un articolo. Dopo due giorni mi chiama al telefono una persona della redazione e mi dice, con voce imbarazzata, che c'era un problema: fra tutte le immagini che avevo inviato non c'era un solo colore che si potesse chiamare tale e la pagina dedicata a me risultava, a suo dire, un po' triste. L'episodio mi divertì molto. Le mandai delle immagini di alcune mostre dove il colore si mostrava in tutto il suo splendore. Questo per dirti che non solo nei disegni c'è questa attenzione alla tonalità, ma essendo un'attitudine personale è presente praticamente in tutto ciò che faccio.


Sergio Breviario (Bergamo, 1974) vive a Bottanuco (BG) e lavora a Milano. Si diploma nel 1998 all'Accademia di Brera di Milano, con una tesi sul concetto di Nuovo realismo. Fino al 2000 si occupa di design, in un ambiente di lavoro che gli consente di sperimentare diversi materiali. Nel 2002 partecipa al Corso superiore di arti visive presso la Fondazione Ratti di Como. Tiene mostre personali a Roma, presso la galleria Marie-Laure Fleisch, e a Bologna, presso la galleria Fabio Tiboni arte contemporanea. Partecipa a numerose mostre collettive, esponendo in prestigiose istituzioni pubbliche e private, tra cui il Museo del 900 a Milano, il MAXXI a Roma e il MAGA a Gallarate. Nel 2013 merita la menzione speciale al Premio Moroso della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia e partecipa al progetto di residenza per artisti CARS a Omegna. Nel 2014 è tra i finalisti della quindicesima edizione del Premio Cairo.

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