Era inevitabile che nel 2012, l'anno del cinquantesimo anniversario della nascita di Fluxus, si puntassero i riflettori sul movimento che più di ogni altro ha promosso lo sconfinamento degli atti creativi nel quotidiano. Con la complicità della crisi economica, il clima generale di attenzione nei confronti di Fluxus sembra aver portato con sé una rivalutazione dell'equazione che unisce l'arte alla vita e alla politica. La storia dimostra quanto la cultura e la pratica artistica abbiano influenzato le scelte esistenziali degli individui e il destino politico delle collettività. Le diverse concezioni del mondo si basano su elaborazioni che affondano le radici nella filosofia, nella letteratura e nelle arti in generale. Le trasformazioni del pensiero si riflettono sul destino del mondo, perché tutto ciò che gli uomini costruiscono è stato prima, in un modo o nell'altro, immaginato. Ciò vale per gli sviluppi positivi e per quelli negativi nell'evoluzione della società: le utopie e le distopie, frutto di un pensiero condiviso, hanno in molte occasioni agito parzialmente sul reale, modificandolo.
La realtà può quindi inseguire la fantasia, ma immaginazione e azione si collocano su due piani quasi sempre distinti e paralleli, che spesso si sfiorano dando l'impressione della convergenza, senza mai tuttavia potersi incontrare e fondere pienamente. L'arte rincorre la perfezione e facilmente supera la realtà nel momento in cui rinuncia alle forme naturali per investigare le potenzialità del suo linguaggio. Allora entra nel regno del pensiero, del concetto puro, faticando per rimanere in equilibrio e non perdere di vista la corporeità. Questo esercizio sicuramente rende migliore l'uomo, ne espande le potenzialità, gli consente di acquisire competenze che tornano utili non solo sul versante spirituale, ma anche nella vita terrena e quotidiana. Tuttavia, se la pratica artistica fosse limitata al rapporto con il mondo, se non ci fosse differenza tra creare un'opera d'arte e agire nella realtà, tra fruizione artistica e esperienza del mondo, verrebbe meno il senso stesso del fare arte. Immaginare è esperienza differente dall'avvertire con i sensi.
La politica, che è lo strumento privilegiato attraverso cui l'uomo cambia il mondo, da un certo punto di vista rincorre anch'essa la perfezione, ma non può farlo con la stessa libertà dell'arte. La politica è, al contrario dell'arte, indissolubilmente vincolata al reale. Per questo motivo ricorre molto poco (per fortuna) all'astrazione e molto di più (quando è buona politica) al compromesso. In democrazia, ad esempio, decide la maggioranza, ma nel rispetto delle esigenze e dei diritti delle minoranze. Le legittime aspirazioni della maggioranza al cambiamento devono fare i conti con principi ineludibili. A questo servono le costituzioni. Un artista può rimuovere liberamente ogni ostacolo che incontra lungo il suo percorso di ricerca e sperimentare senza restrizioni. Un uomo di governo non può fare a meno di confrontarsi con i limiti imposti dalla realtà. Solo i dittatori più folli decidono di rimuoverli con noncuranza.
Esiste dunque una grande differenza tra arte e politica; voler stabilire quindi il primato dell'arte sulla politica (o della politica sull'arte) sarebbe come voler stabilire il primato dell'aria sul cibo. Non è possibile sopravvivere senza respirare o senza mangiare. Si tratta di due bisogni profondamente diversi e in qualche modo legati tra loro per il benessere dell'uomo. Tuttavia supporre l'interscambiabilità di aria e cibo sarebbe una pretesa assurda e non avrebbe senso tentare di cibarsi d'aria o di respirare pane. Sarebbe opportuno tenere distinti e separati due fenomeni attualmente piuttosto diffusi: da un lato la legittima aspirazione al recupero dei principi di realtà e di verità, dimenticati durante la postmodernità più relativista; dall'altro le ambizioni radicali di chi insegue il sogno dell'arte totale. Il primo è positivo e mira al progressivo e graduale miglioramento delle condizioni di vita dell'uomo attraverso la consapevolezza e la critica costruttiva. Il secondo, pur muovendo da buone intenzioni, non può che condannare al fallimento e alla frustrazione e conduce al nichilismo.
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