La correlazione tra l'impoverimento qualitativo della produzione artistica e il trend liberista-relativista che semplifica e confonde i due piani, ben distinti, del mercato e dei processi creativi è per molti versi evidente. Di conseguenza, sarebbe opportuno evitare ogni sovrapposizione tra questioni legate alla commercializzazione dell'arte e riflessioni di carattere estetico o filosofico. Le considerazioni che seguono vanno quindi interpretate come spunti dal carattere essenzialmente socio-economico: non hanno la pretesa di indicare riferimenti etici, né vogliono in alcun modo abbozzare orientamenti normativi, ma solo suggerire l'idea che soluzioni politiche a portata di mano (ma a dire il vero decisamente impopolari presso l'artworld liberal-conservatore, che ha ancora fiducia nei miti dell'autoregolamentazione dei mercati e del laissez-faire) potrebbero dare una scossa ad un settore troppo spesso asfittico e svigorito.
Le prospettive di emancipazione dal sistema speculativo legato alla commercializzazione dei prodotti artistici (e culturali in genere), in questi tempi di crisi economica, vanno inquadrate in due possibili scenari, entrambi alternativi al mercato chiuso e autoreferenziale oggi dominante: deprofessionalizzazione o regolamentazione. Il primo è apocalittico, ovviamente. Il secondo passa per l'abbattimento di tutti i privilegi economici. Perché a un artista affermato o a un gallerista di successo (come anche a un calciatore, a una star della televisione o a un qualsiasi professionista) dovrebbe essere riservata la possibilità di lauti guadagni e, nel contempo, garantiti i privilegi fiscali derivanti dalla completa assenza di una tassazione veramente progressiva? Tutti sono pronti a lamentarsi dei costi della politica e dell'immoralità della "casta" dei parlamentari e degli amministratori locali. Perché non si riserva lo stesso trattamento a tutte le "caste", anche a quelle più popolari? Infrangere un circolo chiuso di privilegiati è il primo requisito per l'allargamento del pubblico. Un simile discorso non si adatta certo alle piccole gallerie che fanno enormi sacrifici per sopravvivere e sono spesso tentate dall'evasione o agli artisti emergenti e ai critici esordienti pagati in nero. Il loro comportamento non può che essere biasimato, ma spesso è un meccanismo di difesa dall'iniquità del sistema. Pochi galleristi, pochi artisti e pochi collezionisti tengono in piedi una macchina speculativa in grado di funzionare grazie a una rigorosissima selezione all'ingresso. Possono farlo perché il prelievo fiscale, in questo difficile momento, non si pone l'obiettivo, almeno in piccola parte, della redistribuzione. Tassare gli acquisti milionari, come anche tutte le rendite finanziarie, sulla base di principi differenti da quelli applicati per le piccole economie di produzione porterebbe vantaggi alla parte sana delle professionalità in campo culturale e artistico. Di conseguenza un pubblico più vasto si avvicinerebbe all'arte alla portata delle sue tasche (come accade nelle fiere "affordable" ormai piuttosto diffuse) con palesi effetti di democratizzazione. In un contesto del genere sarebbe poi meno inverosimile pretendere da tutti gli operatori la massima trasparenza sul piano fiscale.
Caro Vincenzo, penso tu conosca almeno in parte il mio pensiero circa il mercato dell'arte, demonizzato in Italia assai più che all'estero ma, per la verità, poco conosciuto dalla maggioranza di noi. Perché del mercato dell'arte si conosca poco è presto detto: è quasi pressoché sottotraccia, le sue caratteristiche riservate a chi, in questo, pasce la propria riserva venatoria. Tuttavia, affinché l'acquisto dell'opera sia una prerogativa più diffusa non basta la conoscenza dell'arte, degli stili, dei nomi e delle tecniche.
RispondiEliminaLa burocrazia, che decretò illo tempore che il mercato dell'arte è di per sé "cattivo", assume insane ambiguità quando valuta per la notifica un'opera in base al proprio risalto commerciale. E' una dicotomia, questa, che va risolta, magari mettendoci in linea con le leggi europee, o almeno con i principi fondamentali di esse (in primis quello dell'ineludibile diritto alla circolazione dell'opera d'arte). Il protezionismo eccessivo ha creato discrasie insanabili e ha impedito di formulare un corpus normativo che agguantasse il toro per le corna.
In Italia "arte" è parola che tanto fa comodo al politico in vena di coccarde e fanfare, ma quando si deve affrontare l'argomento in tutti i suoi molteplici aspetti amministrativi (compreso quello della gestione del patrimonio sia pubblico sia privato), il burocrate si squaglia come neve al sole.
Per venire alle tue giuste osservazioni, una tassazione (intendi l'IVA? attualmente è quella pari a ogni comune derrata) più progressiva per gli acquisti milionari potrebbe essere equa, se non che si scontra con i dettami internazionali che tendono a considerare l'opera d'arte né un bene di lusso né un bene di consumo. E io, devo dirti, concordo con questa impostazione, anche se, mi rendo ben conto, la concentrazione del mercato in poche mani non faccia assolutamente bene alla diffusione dello stesso.
Del resto, caro Vincenzo, gli acquisti milionari, l'italico collezionista non li fa "in chiaro" ormai da tempo (almeno da una ventina d'anni, con una perniciosa accelerata del fenomeno nell'ultimo lustro di condoni diversi). Il collezionismo ricco dello Stivale acquista sulle piazze di Londra e New York e "tesaurizza" altrove. Tanto che negli ultimissimi anni le case d'asta come Sotheby's e Christie's se la fuggono dall’Italia, non trovando più appeal nelle nostre contrade. Christie's ha da noi dismesso totalmente gli uffici e chiuso le battute d'asta proprio in questi giorni. Ciò quando si moltiplicano le nuove filiali in Paesi cosiddetti emergenti che sfruttano il momento economico a essi favorevole per diffondere per la prima volta planetariamente la propria cultura (comunque antichissima).
E' bene? E' male? Secondo me è sempre male. La circolazione dell'arte è fondamentale per la conoscenza della stessa. Se non si diffonde anche attraverso il passaggio di mano la nostra produzione del '900, anche la nostra arte contemporanea non avrà palcoscenici al di fuori dei già pochissimi nazionali. E' una situazione di declino che vediamo in atto, anche se le cause sono molteplici.
Prima di pensare di irreggimentare la "casta" del sistema collezionistico accentratore (e io concordo con te sulle caratteristiche esiziali di questo fenomeno) che in Italia, tuttavia, ormai non agisce più, è necessario per me rivedere in toto le caratteristiche normative di ciò che concerne la circolazione e la definizione "economica" (ovvero anche assicurativa e valoriale) dell'opera d'arte. Questo farebbe bene non solo al mercato ma anche all'amministratore pubblico che con poche risorse si trova a dover oggi programmare calendari culturali senza l'appoggio del legislatore e senza più il conforto che la nostra arte, all'estero, sia ancora desiderata.
Un caro saluto e grazie per il tuo bel blog. Cristiana Curti
Cara Cristiana,
RispondiEliminasono io a ringraziare te per aver integrato con la tua solita competenza il mio post troppo sintetico. La questione, di natura economica, è estremamente delicata e mi rendo conto che la semplificazione del mio scritto può apparire una ricetta fin troppo facile per un problema tanto complesso. Le tue osservazioni sulla fuga del collezionismo "ricco" dal mercato italiano mettono bene in evidenza quanto sia difficile scalfire quel blocco monolitico di pratiche collaudate che garantiscono inauditi privilegi fiscali proprio ai più fortunati. D'altronde motivazioni simili sono alla base della prudenza della maggior parte delle forze politiche nell'affrontare il nodo delle imposte patrimoniali sulla ricchezza posseduta, al punto che si preferisce lasciare sullo sfondo l'idea di ritoccare l'IVA (imposta sulla ricchezza trasferita) piuttosto che ribadire con fermezza la necessità di aggredire i grandi patrimoni. L'IMU, primo timido passo in questa direzione, realizzato tra l'altro senza adottare un criterio veramente progressivo, è diventato terreno di campagna elettorale. Personalmente riterrei opportuno che ad essere presi di mira non fossero solo i beni immobili, ma ogni intervento in tal senso risulterà inefficace finché sarà troppo facile portare i capitali all'estero per sfuggire al fisco.
Concordo sulla necessità di giungere a una revisione normativa in relazione alla definizione economica dell'opera d'arte. Ma penso anche che non si dovrebbe essere tanto ingenui da lasciarsi convincere da presunti liberali, interessati esclusivamente a salvaguardare i propri interessi, che il giusto approccio per fare cultura sia fondato su defiscalizzazione e investimenti privati.
Grazie per la tua risposta. In quanto alla questione del mercato "foresto" trattasi di mera evasione. Acquistare all'estero (un'opera, un immobile) sotto falso nome per non far figurare in Italia l'acquisto è né più né meno che, evidentemente, utilizzare un "nero" che si possedeva e che si voleva convertire. L'arte, purtroppo, è sempre stata un item (discutibilmente) privilegiato in questo senso, a causa delle sue caratteristiche intrinseche di mobilità e maneggevolezza (per così dire). C'è di mezzo anche il denaro sporco di mafie et affini, se per questo. Ma davvero si tratta di cosa penale. Non sempre però è così. Si assiste anche all'effettiva scarsità delle opere ufficialmente in vendita in Italia e quindi si compra anche all'estero. Non molti privati vogliono mettere in asta un'opera di una certa importanza con il rischio che venga notificata dalla Soprintendenza il giorno stesso dell'incanto: ci rimettono i proprietari (per sempre: nessuno vorrà più acquistare il bene a meno che non sia svenduto) e ci rimette il mercato, sempre più depauperato.
RispondiEliminaSe parliamo di equità di imposizione fiscale, mi trovi assolutamente d'accordo. Non è più procrastinabile un'imposta che colpisca ciò che non rende e se l'IMU (con i dovuti distinguo) già ha provveduto a un prelievo sostanzioso per chi possiede immobili plurimi (è qui che ha funzionato di più come doveva essere), è necessario tassare anche le rendite finanziarie come fa il resto d'Europa.
Il mercato dell'arte, tuttavia - e insisto -, ha necessità di un progetto normativo che sia di più ampie vedute, che incentivi (non deprima) le vendite e i passaggi ufficiali (ufficiali!) di proprietà, perché è solo l'arte condivisa (e di cui si mantiene la storia) che forma le collezioni più intelligenti e ben costruite, quelle che poi andranno a costituire i depositi pubblici. Io ci credo fermamente. Ma con quel che vedo da noi mi chiedo anche: chi sarà il collezionista della tua generazione che potrà formare un gruppo di opere nazionali con rilevanza internazionale? Con chi dialogherà? Che referenti avrà che non siano solo quelli di galleria e del mercato? Il mercato DEVE essere solo un veicolo, ma deve poter andare lontano.
Forse sono troppo ingenua, perché provengo da una famiglia che collezionava senza questi ostacoli e in grande libertà d'intenti anche con le Istituzioni. Sembra passato un secolo da quando in casa nostra circolavano artisti, critici e soprintendenti. Poi, per il disinteresse di tutti (che è altrettanto pericoloso del morboso interesse del mercante), abbiamo dovuto consegnare le opere in deposito a un Museo, sperando potessero essere condivise. E sperando che questa condivisione rimanga nel tempo, anche se non ci sono più denari per far funzionare i progetti.