Osservando le sue fotografie balza subito agli occhi l'elemento "costruttivistico" della composizione (prendo in prestito la definizione di Katharina Hausel dalla presentazione della sua mostra personale Ritmi Architettonici presso l'Istituto Italiano di Cultura a Berlino del 2011). Quanto è importante, nella sua ricerca, l'elaborazione di un autonomo codice espressivo in grado di svincolare il linguaggio fotografico dalla documentazione oggettiva e dalla meccanica riproduzione del reale?
Rendere le mie fotografie libere rispetto al dato reale di partenza, lasciandole però sempre fotografie, non è solo un aspetto importante, ma l'essenza stessa della mia ricerca. Si tratta di un crinale estremamente difficile. Da un lato, non sono né interessato né attratto dalla fotografia documentaria, che può offrire immagini straordinarie ed emozionanti, ma è affine al giornalismo più che all'arte. Da un altro lato, è facile oggi abusare degli strumenti di manipolazione digitale e transitare così, quasi inavvertitamente, nella computer graphics, arte assolutamente apprezzabile ma "altra" rispetto alla fotografia d'arte. Io invece non voglio né disegnare, né fotografare "in senso stretto", ma cerco piuttosto di essere artista attraverso un mezzo tecnico – qual è la macchina fotografica – diverso dal pennello.
Per raggiungere questo scopo mi immergo nelle architetture urbane attraverso lo zoom, e intendo il verbo "immergersi" in senso quasi letterale, fisico. Quello che mi accade è una specie di fusione emotiva tra sguardo, mente e strutture su cui all'improvviso la mia attenzione si fissa: il mondo intorno quasi scompare, mi isolo, tutti i miei sensi si concentrano nello zoom e, per suo tramite, vedo e sento una realtà diversa da quella ordinaria. È qualcosa che esiste davvero, è lì e chiunque potrebbe vederla insieme a me. Però è una realtà che al tempo stesso sfugge all'attenzione dei più, perché è tutta racchiusa in una particolare e a volte delicatissima combinazione di linee e colori che svanisce se ci si muove appena di un passo. Volendo sintetizzare, io attraverso la fotografia cerco l'astrazione. Un'astrazione fatta soprattutto di linee fisiche e cromatiche che si sfiorano, si intersecano, si sovrappongono, si mescolano. Sono dati reali, quindi è fotografia, ma sono anche dati proposti con un occhio "nuovo" che tende a trasfigurare l'immagine reale, quindi non è documentazione ma è – spero, o per lo meno questa è la mia ambizione – arte.
La convinzione che la fotografia creativa non debba riprodurre la realtà ma renderla "visibile" è alla base del lavoro di Franco Fontana. L'opera del fotografo modenese è stata spesso associata alla pittura per la capacità di generare nuove visioni basate su geometrie esistenti nella realtà. I paesaggi urbani di Franco Fontana sono stati per lei fonte d'ispirazione?
Le opere di Franco Fontana sono state per me sicuramente un'illuminazione. Tuttavia questa illuminazione non ci sarebbe stata, o quanto meno non avrebbe prodotto gli stessi frutti, senza un mio parallelo percorso di pratica pittorica e di approfondimento dell'arte contemporanea. Prima, e per circa venticinque anni, avevo fotografato in modo tradizionale, documentario, affinando via via tecnica e sensibilità, ma restando sempre legato all'oggettività. Nel 2003 c'è stata la svolta, quando ho preso a seguire corsi avanzati di pittura alla Rome University of Fine Arts (proseguiti fino al 2010) e, al contempo, mi sono dedicato con metodo allo studio dell'arte dalle avanguardie del primo novecento fino ai nostri giorni.
Questo insieme di cose ha radicalmente mutato la mia "visione". L'esperienza del dipingere con metodo – fisica ed emotiva insieme – ha affinato in me la sensibilità. E l'approfondimento dell'arte contemporanea mi ha offerto chiavi di lettura nuove, più sofisticate, che mi hanno reso impossibile continuare a trovare interesse nella semplice riproduzione – col pennello o con la camera, poco importa – del reale. Su questo humus divenuto fertile si è innestato un "nuovo incontro" con l'arte di Franco Fontana: nuovo perché conoscevo già le sue opere, ma ho preso a vederle, anzi a sentirle, in modo molto diverso.
Fontana mi ha aperto la porta per cercare l'astrazione non col pennello, ma attraverso la macchina fotografica. Lui la cercava in paesaggi agresti, dai quali estraeva campiture perfette di colori geometricamente contrapposti. Io cerco invece l'astrazione nei paesaggi urbani. Paesaggi urbani colti ora in modo diretto, come nella serie che – usando uno stimolo dell'amico e critico d'arte Valerio Dehò – ho intitolato "Biocities". Altre volte, invece, mediati dai riflessi di vetrate e superfici specchianti di ogni genere, come nella serie che ho intitolato "Vibrazioni". Un'altra differenza tra queste due serie è che in "Biocities" rimango fedele alla realtà sia nelle forme che nei colori, e l'astrazione (piena o tendenziale) è frutto esclusivamente dell'inquadratura. Nelle "Vibrazioni", invece, do sfogo anche alla mia vena pittorica, perché le forme sono esattamente quelle congelate dallo scatto (le deformazioni sono effetto dei riflessi), mentre invece manipolo talvolta i colori in post-produzione, come se dipingessi.
Città e vita nello sguardo attento di un viaggiatore: da quali esperienze nasce la serie "Biocities"?
Le fotografie di "Biocities", come tutte le mie immagini, trovano occasione nella passione per il viaggio, anche se poi questa è la più intimistica e concettuale delle mie serie. Il desiderio, la curiosità di vedere – e, quando possibile, di conoscere – luoghi e mondi diversi mi accompagnano sin da giovane e li ho coltivati con costanza negli anni. Anche qui, però, c'è stata una evoluzione, artistica e umana insieme. Le immagini di riflessi che compongono il ciclo "Vibrazioni" si alimentano soprattutto di fattori esterni, come i grappoli di grattacieli delle più moderne metropoli del mondo: qui il viaggio materiale è strumento essenziale della ricerca, offre l'opportunità di trovare soggetti adeguati e tutto il progetto fotografico poggia su una scelta consapevole e oculata delle mete. Viceversa, come dicevo, "Biocities" è un ciclo molto più concettuale e intimistico. Non servono mete speciali, cluster di grattacieli, metropoli avanzate. Qui essenziale è immergersi nel particolare, nella composizione geometrica che potremmo trovare anche in luoghi vicini e consueti, come l'angolo di una strada sotto il portone di casa nostra. Il segreto è estrarre da questo particolare geometrico una emozione interiore. Tutto sta – ed ecco che ritorna Franco Fontana – nel "vedere", senza limitarsi a "guardare"; o, per dirla in un altro modo, nel saper guardare dentro e non soltanto fuori di noi. Quindi, se vogliamo, alla base delle mie fotografie c'è sempre la passione per il viaggio, ma questo viaggio a volte è fisico e geografico e altre volte, invece, è meta-fisico, perché cerca di raccontare l'animo umano andando "oltre le cose reali".
Per approfondire
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