Più di qualcuno (Ludovico Pratesi su Flash Art, Luca Rossi su Artribune) ha rimproverato a Bartolomeo Pietromarchi la scelta di aver invitato quattordici artisti per il suo Padiglione Italia alla 55esima Biennale di Venezia, dichiarando che avrebbe preferito una dieta ancor più rigorosa dopo la caotica scorpacciata dell'edizione passata. Simili considerazioni hanno trovato appiglio nel confronto con gli altri padiglioni nazionali, che puntano i riflettori nella maggior parte dei casi su uno o al massimo due artisti veramente significativi. Eppure il Padiglione Italia è da sempre un caso a sé: è consuetudine che il Paese che ospita la Biennale sia rappresentato da una grande mostra collettiva, capace di documentare gli sviluppi dell'arte italiana con un preciso disegno curatoriale. Lo spazio alle Tese delle Vergini, inoltre, per le sue stesse dimensioni (1800 metri quadri), è difficilmente pensabile come adatto a una personale; i padiglioni stranieri hanno in media una superficie quattro volte più piccola e una struttura decisamente più adatta, sul piano funzionale, per ospitare uno o pochi artisti, come in genere avviene. Da questo punto di vista la coppia Penone-Vezzoli, proposta da Ida Giannelli nel 2007, può essere considerata un'eccezione, come il progetto "fuori misura" di Sgarbi nel 2011, sul versante opposto.
Al di là delle polemiche sui numeri, il Padiglione Italia di Pietromarchi sembra funzionare alla perfezione: riesce a guidare i visitatori in un complesso itinerario attraverso le differenti e stratificate identità dell'arte italiana di oggi. Ma soprattutto lascia emergere con forza quella dimensione relazionale, quella predisposizione al confronto, al rispecchiamento e al dialogo che costituisce un prerequisito irrinunciabile per una ricerca consapevole e strettamente legata alla percezione della realtà e del presente. Pietromarchi ha saputo mettere in comunicazione le diverse attitudini, linguaggi e modalità operative del variegato panorama artistico italiano, ma ha voluto nello stesso tempo evidenziare una continuità fatta di derivazioni e corrispondenze tra i maestri riconosciuti e le giovani promesse. Così la memoria e l'eredità storica sono individuate come nodo centrale intorno al quale può svilupparsi la relazione dialettica tra passato e presente, senza la quale verrebbe meno ogni progettualità. Le mille contraddizioni della cultura italiana, dal divario tra Nord e Sud all'asprezza dello scontro politico e ideologico, si materializzano in opere il cui punto di forza è la capacità di conciliare le differenze. La sintesi scaturisce dall'attrito tra le coppie oppositive, che trasforma questioni irrisolte in solide basi per la realizzazione di un faticoso ma (purtroppo ancora) necessario processo di costruzione identitaria. Il rapporto tra il singolo e la collettività, punto dolente in un paese in cui i piccoli egoismi e gli interessi di parte hanno da sempre prevalso sul bene comune (si pensi al male endemico dell'evasione fiscale), è ampiamente investigato in questo Padiglione Italia. Delle sette coppie di temi sui quali gli artisti sono stati chiamati a interrogarsi criticamente, almeno la metà implica una riflessione profonda sulle relazioni intercorrenti tra l'individuo e la comunità. Prima fra le declinazioni di tale antinomia, la problematica rivisitazione del nesso tra corpo e storia è il filo rosso che unisce la riproposizione della performance Ideologia e Natura (1973) di Fabio Mauri e il rigore dei pilastri colmi di terra di Francesco Arena, monumenti alla memoria di tutte le stragi della contemporaneità. Le fotografie di Luigi Ghirri e l'installazione olfattiva di Luca Vitone, centrate sul tema del paesaggio nella duplice accezione di veduta e luogo, offrono l'occasione per un'analisi attenta delle modalità di rappresentazione del territorio: dalla narrazione per frammenti dei contesti urbani e naturali, che rivelano nella molteplicità dei dettagli la pluralità dei punti di vista, agli itinerari intimi suggeriti da un profumo capace di sostituire la visione nel disegnare spazi dal forte valore simbolico. La tensione tra estraneo e familiare caratterizza, invece, i lavori di Flavio Favelli e Marcello Maloberti: rielaborazioni a metà tra l'ironico e il poetico di tracce biografiche e memorie personali, mescolate a suggestioni tipiche della cultura popolare italiana. Le strutture di Gianfranco Baruchello e il pavimento di Elisabetta Benassi riportano la scissione tra particolare e generale all'interno di una logica ordinatrice e razionale, capace di collocare frammenti apparentemente scollegati all'interno di un sistema: la necessità di catalogazione e l'incontenibile potenza visionaria dell'inconscio si manifestano come due aspetti complementari della creatività artistica. Le due stanze dedicate ai binomi suono/silenzio e prospettiva/superficie, la prima occupata dalle opere di Massimo Bartolini e Francesca Grilli, la seconda da quelle di Giulio Paolini e Marco Tirelli, spostano l'attenzione sui meccanismi che regolano l'operare artistico e sull'interazione tra l'opera e l'ambiente che la ospita. Di grande impatto emotivo il percorso tra le solenni macerie in bronzo ideato da Bartolini e scandito dalle parole/musiche di Giuseppe Chiari. Tirelli e Paolini si cimentano in uno studio sublime e minuzioso delle dinamiche universali che regolano la visione e la percezione dei fenomeni sensibili: il loro contributo è tra i più ambiziosi, perché rivela la dimensione illusoria dell'arte, perennemente sospesa sul confine sottile e precario che separa la realtà dalla finzione. Per finire, nel giardino del Padiglione, dedicato al dualismo tragedia/commedia, sono collocati il lavoro probabilmente più incisivo e quello nel complesso meno convincente di Vice versa. La trovata di Sislej Xhafa disorienta, incuriosisce, ma non lascia il segno. La "scultura a perdere" di Piero Golia è invece geniale nella sua semplicità, immediata nel generare la reazione del pubblico, rigorosa nell'operazione concettuale, che agisce direttamente sulla tanto dibattuta questione del valore dell'opera d'arte. La verifica dello scarto tra valore simbolico e valore economico, in questo caso annullato dall'azione del pubblico attraverso una sorta di rovesciamento paradossale di ogni logica di mercato, va oltre la provocazione e suggerisce alternative concrete alle forme tradizionali di finanziamento, compravendita e scambio delle opere d'arte. La stessa operazione di crowdfunding realizzata da Pietromarchi ha dimostrato che possono esistere pratiche di condivisione divergenti rispetto alle consuete modalità di fruizione pubblica e privata dell'arte. Può darsi che proprio il diffondersi di un modello di committenza esteso e partecipativo possa favorire il superamento di quell'approccio puramente "economico" al lavoro artistico (ancora molto diffuso) che vuole le valutazioni di ordine culturale subordinate al valore monetario di un'opera. In un suo recente articolo per La Repubblica, Maurizio Ferraris ha scritto: "I bisogni di bellezza e di emozione sono molti, ed è un peccato che si possano realizzare solo in oggetti immediatamente consumabili. In questo senso, il crowdfunding viene a riparare una ingiustizia oggettiva nel mondo delle arti". Nel caso di Vice versa la raccolta fondi ha contribuito in maniera significativa a sostenere le produzioni degli artisti e le attività di promozione, comunicazione e mediazione culturale collegate alla mostra. Purtroppo, con il moltiplicarsi delle iniziative e con il diffondersi della "moda" del finanziamento dal basso, di tanto in tanto, di fronte a progetti particolarmente deludenti, è lecito il sospetto che, più che di crowdfunding, si tratti di "crowdfooling".
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