Critico e curatore da sempre attento alle nuove generazioni, nel 2013 lei ha fatto parte delle giurie o dei comitati di valutazione di alcuni dei più importanti concorsi e premi italiani per giovani artisti: il Premio Celeste, il Premio Combat, il Premio Francesco Fabbri (ancora in corso), per non parlare del Premio Moroso, nato da una sua idea e giunto ormai alla quarta edizione. Non crede che, da un certo punto di vista, questa tipologia di concorsi possa rappresentare un laboratorio prezioso per elaborare una teoria del valore fondata su criteri estetici aggiornati e innovativi rispetto a quelli rappresentativi ormai obsoleti, oltre che per riflettere sul ruolo dell'artista e sulle finalità del suo operare?
Ho sempre inteso il mio lavoro come prassi per la ricerca e l'idea di cantiere e laboratorio ha sin dal 2002 qualificato lo spazio che ero andato a gestire a Monfalcone, struttura che ho plasmato su questo indirizzo. Pertanto l'idea di valore, di per sé metamorfico, e di conseguenza il ruolo dell'artista e delle sue finalità si sono sempre intrecciate alla formulazione di un dizionario che doveva essere esaminato attraverso una critica continua e indefessa. Le modalità legate alla valutazione di un concorso sono anch'esse in movimento, come lo è la valutazione di un artista anche in funzione della sua crescita professionale. Poi, nello specifico dei premi, ognuno nasce con delle sue peculiarità, i suoi obiettivi ultimi differiscono così come le aspettative che questo comporta: quest'insieme di fattori per me li rende dei terreni impervi ma sempre stimolanti, sia per lo scouting e l'aggiornamento, sia per la possibilità di un confronto esperienziale e scientifico davvero unico. Si tratta in fondo di una sfida al mio concetto di valore che deve necessariamente essere posto in gioco, e difeso o modificato a seconda delle giurie e degli iscritti. Ho sempre creduto che la qualità dell'opera fosse il punto vettoriale su cui si imposta l'intero dibattito e questa è stata sempre una mia forza in sede di analisi, e pertanto di giudizio.
In seguito alle numerose esperienze come giurato, si sarà posto più volte il problema dell'adozione di criteri docimologici espliciti e condivisi nella valutazione del lavoro artistico. Pur nella consapevolezza dell'impossibilità di un giudizio oggettivo, non sarebbe auspicabile impiegare strumenti di selezione (ormai ampiamente diffusi in tutti i settori: dalla valutazione scolastica, ai concorsi pubblici, al reclutamento nel mondo del lavoro) che mirino all'imparzialità? Per fare un semplice esempio, riterrebbe possibile l'utilizzo, nel contesto di un concorso artistico, di griglie di valutazione con indicatori e descrittori chiari a cui attenersi in maniera uniforme? In tal caso, che peso darebbe a parametri come il curriculum e le esperienze professionali?
Dalle mie esperienze sul campo posso dire che questi strumenti docimologici possono offrire delle indicazioni e dei parametri importanti ma, seppur intenzionalmente oggettivi, non possono mai essere in ultima analisi sufficienti per l'individuazione dell'artista migliore. Potrà sembrare strano ma spesso mi sono trovato a dover confutare un potenziale vincitore, emerso dai dati quantitativi, che non rispondeva in realtà ad una eccellenza: per tutti quello era un artista buono ma per nessuno il migliore e questo gli consentiva di scalare le classifiche provvisorie. Curriculum ed esperienze professionali sono di certo importanti e vengono esaminati con il giusto rilievo ma personalmente non mi piace burocratizzare un percorso attraverso griglie di valutazione con indicatori e descrittori analiticamente spietati: sono degli indizi ma non possono garantire una valutazione che di per sé è sempre molto più ricca e complessa, stratificata e recondita, come è giusto che sia un'opera d'arte.
Nelle sue motivazioni per le selezioni, pubblicate sul sito del Premio Celeste, ha affermato: "Le istanze demagogiche che vogliono standardizzare dal basso la pretesa artisticità delle proposte (voce spesso insistente sul web) non bastano o non sono sufficienti a decretare la qualità, se non il successo di un'opera". Se però si considera che i gusti collettivi e l'adesione ai movimenti culturali sono spesso determinati da complessi e durevoli processi evolutivi che non coinvolgono soltanto gli intellettuali, ma anche il pubblico più vasto, viene da chiedersi se non si debba talvolta prestare ascolto alle voci insistenti che provengono dal basso. Il suo ideale corrisponde a un modello di cultura aristocratica o diffusa?
Il mio ideale corrisponde ad un modello democratico ma non demagogico: la mia esperienza come Direttore mi ha sempre portato ad ascoltare il pubblico e le sue necessità o problematicità. Ritengo che sia importante prestare attenzione a coloro che si interessano e argomentano il loro portato culturale perché io stesso credo nell'autocritica come metodo fondante e sano per rimanere in contatto con le istanze costruttive del presente. Caratterialmente ho sempre schivato le famose "voci di paese", omertose e sclerotizzanti, che non implicano responsabilità alcuna da parte dei delatori ma che spesso sono espressione di frustrazioni recondite e mancanza di coraggio.
Mi piace mettere le mani in pasta e difendo le mie scelte mettendomi sempre in gioco con me stesso, anche se mi rendo conto che questo non è glamour o politicamente corretto e mi avvicina più a Don Chisciotte che al curatore cool del momento.
Andrea Bruciati è nato a Corinaldo (AN) nel 1968. Si è laureato in Storia dell'Arte con una tesi su Lucio Fontana e Piero Manzoni ed è stato a capo della GC.AC – Galleria Comunale d'Arte Contemporanea di Monfalcone (GO) dal 2002 al 2011. Attualmente ricopre il ruolo di direttore artistico di ArtVerona. Collabora con varie testate specializzate e partecipa attivamente alla discussione sul ruolo di una rete nazionale di ricerca e formazione per l'arte contemporanea. Si interessa a tal proposito anche della promozione internazionale delle giovani generazioni che operano nella Penisola e alla diffusione dei nuovi media.
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