Pierpaolo Forte, il presidente della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, ha utilizzato la parola "repubblicano" per definire il progetto, ambizioso e a suo modo storico, che ha condotto alla produzione di tre mostre dedicate all'opera di Ettore Spalletti da parte di tre tra i maggiori musei pubblici d'arte contemporanea italiani: il MAXXI di Roma, la GAM di Torino e il Madre di Napoli. In effetti, nel nostro contesto culturale così disabituato alla cooperazione e all'impegno comune, non è evento ordinario un simile esempio di proficua collaborazione tra realtà diverse da un punto di vista sia istituzionale che territoriale. Se a ciò si aggiunge la capacità di convogliare energie provenienti da tutte le componenti della società, pubbliche e private, in un percorso fondato sull'apporto dell'intera collettività, non si può non essere d'accordo nel ritenere che la grande mostra congiunta Un giorno così bianco, così bianco sia un segnale incoraggiante per il futuro della cultura nel nostro Paese.
Non è un caso che sia toccata in sorte a un artista come Spalletti la possibilità di provare a riattivare il discorso pubblico sull'arte contemporanea in Italia, nella consapevolezza della necessità di unire le forze per superare le debolezze del sistema. La sua natura riservata e sobria, la sua esperienza di vita appartata e lontana dai riflettori lo hanno reso il soggetto ideale per sciogliere un intricato groviglio di particolarismi. Così, come nei suoi lavori la trama cromatica della superficie appare per mezzo dell'abrasione da un impasto di colori a olio stemperati in una miscela di pigmenti e gesso, anche la pluralità slegata degli operatori culturali dispersi sul territorio italiano ha saputo armonizzarsi generando una perfetta macchina organizzativa, in omaggio alla poesia senza tempo del lavoro di Spalletti. Una poesia che è minimale e insieme fortemente identitaria, destinata a vivere oltre il tempo, perché sa parlare un linguaggio contemporaneo dal sapore antico: infatti la modernità dell'opera dell'artista abruzzese conserva in sé la memoria di forme e di equilibri classici. L'azzurro atmosferico e il rosa dell'incarnato sono i colori dominanti nella produzione di Spalletti: colori autentici e materiali, concreti e tangibili come la sua ispirazione, fondata su una manualità rituale che prevede un lento sovrapporsi di strati di pittura, poi sottoposti a un'azione erosiva. Obbedendo alle imprevedibili leggi del caso, il passaggio della carta abrasiva frantuma i pigmenti e consegna alle solide forme geometriche il loro aspetto di delicata fragilità, che non esiste ma viene fuori attraverso la polvere.
Per volontà dell'artista, le sue opere non devono essere toccate, perché un singolo contatto potrebbe far svanire quell'illusione di eternità sapientemente costruita. Ma una statuaria coscienza dell'imperfezione è forse l'unico mezzo possibile per sospendere e ribaltare l'apparentemente inarrestabile deriva verso il "vanishing point" dell'arte, descritta da Jean Baudrillard in un suo famoso scritto. Se esiste un antidoto alla minaccia del "grado Xerox della cultura", al pericolo dell'estetizzazione totale del mondo e della conseguente sparizione dell'arte, al rischio dell'indifferenza di fronte a forme sempre più sofisticate di simulazione, potrebbe anche nascondersi tra una piega dell'Adriatico e la cima più alta degli Appennini. Oppure in nessun luogo, ma negli occhi, nelle teste e nei cuori.
Non è un caso che sia toccata in sorte a un artista come Spalletti la possibilità di provare a riattivare il discorso pubblico sull'arte contemporanea in Italia, nella consapevolezza della necessità di unire le forze per superare le debolezze del sistema. La sua natura riservata e sobria, la sua esperienza di vita appartata e lontana dai riflettori lo hanno reso il soggetto ideale per sciogliere un intricato groviglio di particolarismi. Così, come nei suoi lavori la trama cromatica della superficie appare per mezzo dell'abrasione da un impasto di colori a olio stemperati in una miscela di pigmenti e gesso, anche la pluralità slegata degli operatori culturali dispersi sul territorio italiano ha saputo armonizzarsi generando una perfetta macchina organizzativa, in omaggio alla poesia senza tempo del lavoro di Spalletti. Una poesia che è minimale e insieme fortemente identitaria, destinata a vivere oltre il tempo, perché sa parlare un linguaggio contemporaneo dal sapore antico: infatti la modernità dell'opera dell'artista abruzzese conserva in sé la memoria di forme e di equilibri classici. L'azzurro atmosferico e il rosa dell'incarnato sono i colori dominanti nella produzione di Spalletti: colori autentici e materiali, concreti e tangibili come la sua ispirazione, fondata su una manualità rituale che prevede un lento sovrapporsi di strati di pittura, poi sottoposti a un'azione erosiva. Obbedendo alle imprevedibili leggi del caso, il passaggio della carta abrasiva frantuma i pigmenti e consegna alle solide forme geometriche il loro aspetto di delicata fragilità, che non esiste ma viene fuori attraverso la polvere.
Per volontà dell'artista, le sue opere non devono essere toccate, perché un singolo contatto potrebbe far svanire quell'illusione di eternità sapientemente costruita. Ma una statuaria coscienza dell'imperfezione è forse l'unico mezzo possibile per sospendere e ribaltare l'apparentemente inarrestabile deriva verso il "vanishing point" dell'arte, descritta da Jean Baudrillard in un suo famoso scritto. Se esiste un antidoto alla minaccia del "grado Xerox della cultura", al pericolo dell'estetizzazione totale del mondo e della conseguente sparizione dell'arte, al rischio dell'indifferenza di fronte a forme sempre più sofisticate di simulazione, potrebbe anche nascondersi tra una piega dell'Adriatico e la cima più alta degli Appennini. Oppure in nessun luogo, ma negli occhi, nelle teste e nei cuori.
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