Fra i molti tropi del dipinto modernista, il più radicale è il monocromo. È il più semplice e richiede il minor numero di decisioni; è cioè quello che si spinge maggiormente verso la non-composizionalità. Il monocromo ha una lunga storia che ha prodotto dipinti straordinari. Queste cose, considerate complessivamente, rendono il monocromo un modello, non nel senso di essere qualcosa che dovremmo copiare pedissequamente, ma nel senso di qualcosa della cui storia dovremmo essere responsabili e delle cui domande di rigore e ambizione dovremmo essere all'altezza. Sono convinto che la pittura abbia un futuro, e per di più un futuro in cui il monocromo giocherà necessariamente una parte. La domanda è come perpetuare il monocromo in modo che sia produttivo, invece di rappresentare in vari modi un senso di impotenza riguardo alla possibilità di creare qualcosa di nuovo. Come ho detto, un modo di perpetuare il monocromo è quello di rendere la dimensione e la forma parte del lavoro, cosicché non siano invisibili ma, al contrario, altrettanto parte del dipinto – e del suo significato – e di quanto succede all'interno del suo perimetro.
(Morgan Fisher intervistato da Christopher Williams in Mousse Contemporary Art Magazine, Issue 33, April-May 2012)
Da Malevič a Klein, da Reinhardt a Rauschenberg, da Marden a Fisher l'universo del monocromo ha dato prova delle sue infinite potenzialità, assumendo nel tempo configurazioni nuove, diverse e sempre attuali. Molti tra i maggiori artisti italiani hanno subito il suo fascino: Manzoni, Fontana, Castellani, Bonalumi, Scheggi (solo per citarne alcuni) hanno tutti, almeno in una fase della loro ricerca, prediletto le superfici monocrome. Non è detto, però, che sia sempre facilmente riscontrabile nel loro lavoro la tendenza alla non-composizionalità, che è per Fisher una delle prerogative del monocromo. Se per "composizione" si intende l'intervento soggettivo e arbitrario dell'artista nel processo creativo, mentre con il termine "costruzione" si indica una modalità operativa impersonale e, se non oggettiva, almeno non auto-espressiva, allora bisogna ammettere che l'interpretazione italiana del modello di riduzione al grado zero dei codici espressivi non passa sempre per il totale annullamento della soggettività dell'artista, conservando addirittura, in qualche caso, un certo lirismo. Ad esempio, l'originale tecnica utilizzata da Ettore Spalletti per creare quella "pittura tridimensionale" che per molti versi è assimilabile al monocromo (pur non essendo le sue opere monocromi in senso "classico") è frutto di una lunga e personalissima elaborazione, che ha poco in comune con i freddi e matematici procedimenti di un certo minimalismo. Le campiture cromatiche di Spalletti nascono dalla sovrapposizione di diversi strati di pittura: l'impasto di colla e gesso assorbe i pigmenti, il colore viene steso in lunghi periodi successivi, calcolando i tempi di essiccazione, infine l'effetto levigato è ottenuto con l'abrasione, che fa emergere i pigmenti rivelando la trama del dipinto. Una tessitura così complessa rende probabilmente inadatta la definizione di "monocromi" per le opere di Spalletti; sembrerebbe inoltre improprio parlare di "costruzione" per un processo creativo in cui l'artista è origine del lavoro e che per questo motivo conserva il tratto della composizionalità. Tuttavia è innegabile il debito dell'artista abruzzese nei confronti di quella pittura astratta e concettuale che dal Novecento in poi ha inteso ricercare la perfezione nella forma pura, constatata l'impossibilità umana di raggiungere la perfezione nella rappresentazione del reale. Il monocromo è consapevolezza del limite, rappresentazione della finitezza che aspira all'infinito, tormento dell'insoddisfazione e ansia di perfettibilità. Non è affatto uno schema rigido e ormai improduttivo, al punto che le sue possibili declinazioni vanno ben oltre i confini, tracciati da Fisher, della non-composizionalità e delle variazioni sulla forma. Il monocromo giocherà una parte ancora più importante nel futuro della pittura se riuscirà a emanciparsi dal rigore minimalista, stemperandolo con un pizzico di automatismo surrealista e conciliando ciò che sembra inconciliabile: inconscio e razionalità, soggettivo e oggettivo, finito e infinito.
Alcune opere di Spalletti dialogano in questi giorni con i lavori di Joseph Kosuth, Rosa Barba, Marie Cool e Fabio Balducci presso la galleria Vistamare di Benedetta Spalletti a Pescara.
(Morgan Fisher intervistato da Christopher Williams in Mousse Contemporary Art Magazine, Issue 33, April-May 2012)
Da Malevič a Klein, da Reinhardt a Rauschenberg, da Marden a Fisher l'universo del monocromo ha dato prova delle sue infinite potenzialità, assumendo nel tempo configurazioni nuove, diverse e sempre attuali. Molti tra i maggiori artisti italiani hanno subito il suo fascino: Manzoni, Fontana, Castellani, Bonalumi, Scheggi (solo per citarne alcuni) hanno tutti, almeno in una fase della loro ricerca, prediletto le superfici monocrome. Non è detto, però, che sia sempre facilmente riscontrabile nel loro lavoro la tendenza alla non-composizionalità, che è per Fisher una delle prerogative del monocromo. Se per "composizione" si intende l'intervento soggettivo e arbitrario dell'artista nel processo creativo, mentre con il termine "costruzione" si indica una modalità operativa impersonale e, se non oggettiva, almeno non auto-espressiva, allora bisogna ammettere che l'interpretazione italiana del modello di riduzione al grado zero dei codici espressivi non passa sempre per il totale annullamento della soggettività dell'artista, conservando addirittura, in qualche caso, un certo lirismo. Ad esempio, l'originale tecnica utilizzata da Ettore Spalletti per creare quella "pittura tridimensionale" che per molti versi è assimilabile al monocromo (pur non essendo le sue opere monocromi in senso "classico") è frutto di una lunga e personalissima elaborazione, che ha poco in comune con i freddi e matematici procedimenti di un certo minimalismo. Le campiture cromatiche di Spalletti nascono dalla sovrapposizione di diversi strati di pittura: l'impasto di colla e gesso assorbe i pigmenti, il colore viene steso in lunghi periodi successivi, calcolando i tempi di essiccazione, infine l'effetto levigato è ottenuto con l'abrasione, che fa emergere i pigmenti rivelando la trama del dipinto. Una tessitura così complessa rende probabilmente inadatta la definizione di "monocromi" per le opere di Spalletti; sembrerebbe inoltre improprio parlare di "costruzione" per un processo creativo in cui l'artista è origine del lavoro e che per questo motivo conserva il tratto della composizionalità. Tuttavia è innegabile il debito dell'artista abruzzese nei confronti di quella pittura astratta e concettuale che dal Novecento in poi ha inteso ricercare la perfezione nella forma pura, constatata l'impossibilità umana di raggiungere la perfezione nella rappresentazione del reale. Il monocromo è consapevolezza del limite, rappresentazione della finitezza che aspira all'infinito, tormento dell'insoddisfazione e ansia di perfettibilità. Non è affatto uno schema rigido e ormai improduttivo, al punto che le sue possibili declinazioni vanno ben oltre i confini, tracciati da Fisher, della non-composizionalità e delle variazioni sulla forma. Il monocromo giocherà una parte ancora più importante nel futuro della pittura se riuscirà a emanciparsi dal rigore minimalista, stemperandolo con un pizzico di automatismo surrealista e conciliando ciò che sembra inconciliabile: inconscio e razionalità, soggettivo e oggettivo, finito e infinito.
Alcune opere di Spalletti dialogano in questi giorni con i lavori di Joseph Kosuth, Rosa Barba, Marie Cool e Fabio Balducci presso la galleria Vistamare di Benedetta Spalletti a Pescara.
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