mercoledì 20 giugno 2012

Da ascoltarsi con TV accesa, senza volume

Se si escludono gli appassionati di beat italiano, ben pochi avranno familiarità con la musica delle Stelle di Mario Schifano, uno tra i primi complessi a dedicarsi alla psichedelia in Italia. Il loro unico LP, pubblicato nel 1967 con il titolo Dedicato a..., è uno dei dischi più rari e ricercati dai collezionisti di vinile e si presenta come una vera e propria opera multimediale ante litteram. L'artista Mario Schifano, noto per la sua attitudine a coniugare forme espressive diverse, non si limitò a realizzare la copertina dell'album e quattro tavole contenute nell'inserto: propose infatti alla band di includere nelle proprie esibizioni dal vivo performance ad alto contenuto visuale. Simili esperimenti di sintesi erano stati condotti solo pochi mesi prima negli Stati Uniti dai Velvet Underground, con la collaborazione di Andy Warhol: il discreto riscontro ottenuto dai loro spettacoli di arte totale, come l'Exploding Plastic Inevitable, testimonia l'utilizzo di codici non del tutto alieni alla maggioranza del pubblico. La proposta delle Stelle di Mario Schifano è invece radicale, si basa sull'improvvisazione sonora e sul rumorismo, oltre che sugli stilemi della migliore psichedelia: i contenuti commerciali sono praticamente nulli.
Una facciata intera del disco è occupata dalla suite Le ultime parole di Brandimarte, dall'Orlando furioso, ospite Peter Hartman e fine (da ascoltarsi con TV accesa, senza volume): in poco più di un quarto d'ora di atmosfere oniriche e surreali e di jamming estemporaneo, il complesso riesce a dissolvere tutte le regole dell'armonia, affinché l'istinto e la vitalità possano prendere il sopravvento. Il caos, il rumore, l'andamento ritmico scoordinato, rappresentano la distruzione degli schemi, delle imposizioni. La ricerca ossessiva della libertà, persino nella percezione, l'abbandonarsi al fluire sconclusionato dei suoni e delle immagini, riflettono l'esigenza di evadere dalle trappole convenzionali, dalla gabbia in cui la società costringe. Il titolo stesso contiene una prescrizione che vuole essere provocatoria: consigliando l'ascolto del brano di fronte al televisore acceso, con il volume a zero, si invita il fruitore a sperimentare il contrasto con le insignificanti immagini proposte dai mass media, con la realtà omologante che avvolge l'artista. Il messaggio televisivo, mutilato del sonoro, rende di volta in volta l'ascolto dell'opera un'esperienza nuova e diversa; mentre la musica diventa elemento di disturbo, distorcendo il senso degli input unidirezionali e condizionanti che provengono dallo schermo, liberando l'audience dalla passività.
Sul secondo lato dell'album si ritorna alla forma canzone ed a strutture appena più ordinarie; tuttavia, come nella più insolita psichedelia americana e britannica, la ricerca dei suoni è scrupolosa e mai scontata: le chitarre si sciolgono in un mare acido di distorsione, la voce si confonde nel riverbero e punta su un'espressività sussurrata, il tutto è condito da una sezione ritmica incalzante. Non sono il singolo suono o il singolo strumento ad avere importanza, ma l'amalgama, l'effetto complessivo; per questo motivo la registrazione non è particolarmente fedele e di qualità, non mira a valorizzare le capacità del musicista isolato, quanto a cogliere la profonda sintonia fra gli elementi.
Attraverso un sottile gioco di allusioni ironiche, facendo ricorso a formule abusate nella canzonetta d'amore, di cui sono enfatizzati, in maniera provocatoria, i toni naïf, viene messo in evidenza il contrasto tra il mondo che non sente, che non comprende il tormento interiore dell'artista, e lo stato d'animo di un soggetto che vive una profonda crisi esistenziale, che lo spinge ad atteggiamenti riflessivi ed introversi. Si celebra una sensibilità diversa, per la quale abbandonarsi ai piaceri indotti della vita eterodiretta equivale a morire, mentre si afferma con forza la necessità del pensiero, della razionalità coniugata al sentimento, in uno slancio verso l'autenticità dell'esistenza. L'irrisolto conflitto tra la personalità individuale e la morsa uniformante della società trova ancora una volta compiuta espressione, e qui l'ago della bilancia tende nettamente verso la dimensione soggettiva. La musica delle Stelle di Mario Schifano non è quindi musica per tutti, ma solo per quelle anime sensibili in grado di distinguersi dalla massa: non a caso, all'epoca della sua pubblicazione, il disco fu stampato in edizione limitata a soli cinquecento esemplari, in segno di disapprovazione delle politiche di diffusione seriali ed invasive messe in atto dall'industria culturale. Anche il formato riveste la sua importanza: il mercato discografico degli anni Sessanta è dominato dalla tipologia di supporto a 45 giri, che consente l'inserimento di un singolo pezzo su ogni facciata del disco, favorendo in questo modo la concentrazione dell'attenzione del pubblico sul brano di successo, suonato ripetutamente nei juke box, in radio ed in televisione. La canzone di consumo non ha bisogno di contesto, ha senso solo se isolata, scollegata da qualsiasi discorso artistico continuativo, pronta per la fruizione e facilmente accantonabile una volta consumata. La musica d'avanguardia, invece, nel momento in cui intende proporre opere unitarie e solide, all'interno delle quali le composizioni si susseguano concatenate, con un senso logico, aspirando a realizzare un progetto unitario, deve necessariamente ritagliarsi spazi più ampi: il 33 giri, formato a lunga durata, risponde perfettamente a simili esigenze. Per questo motivo, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, inizia a comparire un discreto numero di LP, in un primo momento ancora con funzione antologica, poi come supporto privilegiato di opere concettuali, sempre più frequenti nel campo della musica sperimentale e, soprattutto, poco più tardi, in un genere come il progressive. Si assiste in parecchie occasioni all'abbandono della forma canzone per strutture più complesse e articolate (un esempio è la citata suite delle Stelle di Mario Schifano), oppure si fa ricorso a nessi di tipo sonoro o a richiami e citazioni tra un pezzo e l'altro per collegare in modo indissolubile l'intero lavoro. Si creano così voluti ostacoli ad una ricezione superficiale: l'ascolto presuppone il completo coinvolgimento ed una scrupolosa attenzione per la costruzione dell'opera; niente di più lontano dai meccanismi delle classifiche e dalle medie di gusto.

martedì 5 giugno 2012

La noia è il peggior nemico

Quanto a lungo è necessario osservare e studiare un'opera d'arte per comprenderne pienamente le molteplici sfumature di senso? La risposta è soggettiva e dipende da diversi fattori quali l'acume critico dello spettatore, la stratificazione e l'effettiva portata del significato dell'opera, il contesto di fruizione e il bagaglio di conoscenze pregresse. In ogni caso, esclusa l'ipotesi che ci si trovi di fronte a una crosta, quasi mai saranno sufficienti i pochi secondi di attenzione che il pubblico in media riserva al lavoro degli artisti. Come non è sufficiente una rapida lettura per apprezzare la buona poesia e non basta un primo ascolto distratto per cogliere la complessità armonica della musica sinfonica. La soglia temporale della concentrazione non è però l'unica variabile rilevante. Un analfabeta non riuscirà mai a godere della bellezza dei versi più sublimi: per chi non è in grado di leggere, trascorrere del tempo sui libri, osservando segni incomprensibili, sarà un'attività noiosa e improduttiva. Allo stesso modo, la contemplazione di un'opera d'arte può generare noia nel pubblico per almeno un paio di motivi: il fruitore preparato potrà annoiarsi osservando lavori deboli e derivativi, ma anche la mostra più interessante potrà annoiare un pubblico incompetente. Risulta evidente l'importanza dello studio, delle conoscenze storiche, della padronanza dei diversi codici della comunicazione e, in generale, della ricchezza del patrimonio culturale affinché le sfide poste all'intelletto dalla creazione artistica non risultino "noiose".
Nei tempi dell'organizzazione mecenatistica della committenza (quel modello che Sacco chiama "Cultura 1.0") esisteva una concezione aristocratica dell'arte che rimuoveva completamente il problema della "noia". Durante l'età di Augusto, ad esempio, Orazio e gli altri autori del circolo di Mecenate scrivevano per una cerchia ristretta di destinatari, tutti dotati di una vasta cultura letteraria, e non si curavano di raggiungere un pubblico più ampio ma impreparato. Tra il XIX e il XX secolo, la transizione dal modello pre-industriale di produzione culturale all'organizzazione basata sul mercato (l'industria culturale, che Sacco chiama "Cultura 2.0") porta con sé sicuramente istanze di democratizzazione, ma contemporaneamente pone l'artista di fronte alle esigenze di un pubblico non sempre competente: una platea che, quindi, rischia di "annoiarsi" non solo di fronte a opere di scarso valore, ma anche a contatto con lavori troppo complessi. L'artista professionista è condizionato dalle leggi dell'economia: il mercato stabilisce i prezzi in base al gradimento e ai gusti delle masse e si viene a creare la pericolosa equazione che connette valore e prezzo. Così, se il nemico da combattere è la noia, i più comuni stratagemmi per attirare l'attenzione e il favore del pubblico diventano la provocazione, il kitsch e lo shock.
Oggi sembra che una maggiore attenzione all'approfondimento e all'argomentazione, un atteggiamento di apertura al dibattito intorno alle modalità di elaborazione del sapere e una sana attitudine alla ricerca seria e disciplinata non siano più prerogativa dei produttori "professionali" di contenuti. Il ruolo sociale dell'artista viene messo in discussione dalle nuove tecnologie, dalla connettività e dalle infinite risorse del web. Il rischio più grande di questo inedito modello di produzione e distribuzione dei contenuti è quello di una fruizione superficiale causata dall'eccedenza di informazioni. Comunque l'esercizio costante e appassionato dell'ingegno è il migliore antidoto alla noia.