giovedì 27 marzo 2014

Tre domande a Graziano Folata

Molti tuoi lavori nascono da una sorta di "epifania" che ti consente di acquisire la consapevolezza necessaria per circoscrivere la forma e riconfigurarla attraverso un semplice gesto. Dal modo in cui descrivi il processo generativo da cui trae origine la tua ispirazione, sembra di capire che la tua idea di arte sia più vicina al concetto di "scoperta" che a quello di "invenzione". Poi però, in alcune opere, si percepisce una logica immaginativa più ambiziosa, che attribuisce all'immagine un senso quasi metafisico, superando il dato reale. Come interpreti il tuo ruolo? Ritieni che il compito dell'artista sia attivare uno sguardo più profondo e consapevole sulla realtà, oppure creare ex novo immagini in grado di superare i limiti della percezione?
Quali sono i limiti della percezione? Se fossi bendato e facessi un passo oltre il bordo del precipizio, concepirei quel limite soltanto una volta ritrovatomi in caduta libera. Ecco, io mi trovo continuamente in caduta libera, ma non so se sia caduta o volo, come non so riconoscere appieno dove io scopra o inventi, eppure sono mosso dall'urgenza di riempire gli sguardi di fertile meraviglia, in maniera da poter rendere plausibile ad altri un nuovo approccio all'atto artistico, anche partendo da sistemi minimi o immagini aspre nella loro prima insorgenza.

Una caratteristica costante del tuo percorso di ricerca è l'incessante sperimentazione di molteplici tecniche attraverso il ricorso a linguaggi differenti: ti esprimi agevolmente con la scultura, la fotografia, la pittura e le installazioni, dimostrando un'innata capacità, piuttosto rara a dire il vero, di padroneggiare più codici contemporaneamente. Credi che tale predisposizione sia collegata alla curiosità e all'interesse per lo studio della materia, in tutte le sue forme?
Ho sempre disegnato, incessantemente. Così mi sono accorto che dovevo essere spontaneo nel segno, sintetizzare con semplicità e piacere nel farlo: in questa maniera riuscivo ad essere molto veloce e più andavo avanti più ritrovavo una certa pienezza che riassumeva la forma e la figura in maniera decisa e personale. Con lo stesso atteggiamento ho guardato alla composizione sul vetro smerigliato della mia macchina fotografica, alla scelta dei soggetti e alle potenzialità che potevano scaturire da essi. Con il tempo anche gli elementi che sentivo significativi nella composizione di forme estetiche scultoree si sgravavano dall'artificiosità e assumevano, a mio avviso, grazia e immediatezza. Ma lavoravo sempre con un occhio al senso di ciò che facevo, senza cedere al fascino di gratuiti estetismi. Stavo temperando la mia sensibilità e quel che apprendevo era anche porre una maggiore attenzione all'osservazione dei fenomeni: quelli che ritrovavo vivendo quotidianamente, che sorgevano sottili e naturali, e pure quelli che potevano assumere valori simbolici. In effetti l'attenzione è curiosità a uno stato costantemente sollecitato: non fissare l'attitudine della sensibilità a un solo veicolo espressivo garantisce autonomia e capacità di trasformazione trasversale della materia. È mio parere che fare esercizio (o sperimentazione) del sensibile permetta di riuscire a cogliere l'invisto nelle pieghe del reale.

Il prossimo 10 aprile inaugurerà la tua nuova mostra personale: La pelle della tigre, a cura di Giovanna Manzotti, presso la Galleria Massimodeluca. In che modo le recenti esperienze all'estero, come la residenza a Belgrado, hanno inciso sulle modalità del tuo operare artistico? Si può rintracciare una linea di continuità tra i tuoi primi lavori e la produzione più recente, oppure bisogna aspettarsi grandi novità da questa mostra?
Belgrado è stata una realtà forte che mi ha corroborato nel profondo. Il mio rapporto con le cose è sempre stato molto fisico, performante (più che performativo); la Serbia mi ha fatto dono di una capacità unica nell'affrontare le problematiche ambientali e di comunicazione più ferree, con determinazione e volontà. Ho avuto la fortuna di stringere legami di amicizia sia nel mondo dell'arte balcanica, sia in quello dello sport da contatto, che ho praticato ogni giorno, imparando tecniche e stili di lotta. Ho potuto inoltre mettere a confronto il mio essere autore sensibile e leggermente disimpegnato, ma non acritico, con un senso sociale e politico dell'arte che permea la cultura serba, in un contesto in cui la maggior parte degli artisti risponde al richiamo della responsabilità civile. Sentivo di essere depositario di una certa italianità e che questa era intesa come un valore unico. Mi sentivo responsabile della storia che mi portavo dietro e che capivo di rappresentare; forse ero suggestionato da un territorio denso di contraddizioni e dalle braci fumanti, ma intanto la mia consapevolezza si era gentilmente corazzata.
Per quanto concerne la mia prossima personale, credo di esser rimasto fedele alla mia vocazione sperimentale e anche leggermente ironica (ma non frivola) nel campo dell'immagine e della forma; io d'altronde conosco la mia pratica, gli altri necessariamente un po' meno. Se ci saranno novità, il nuovo sarà sempre negli occhi di chi osserva.


Graziano Folata (Rho, 1982) vive e opera tra Milano e Venezia. Ha condotto i suoi studi all'Accademia di Belle Arti di Brera. Ha partecipato a numerose collettive e ha presentato i suoi lavori in personali e premi in cui si è distinto meritando la possibilità di studiare ulteriormente le dinamiche dell'arte contemporanea grazie a progetti di residenza d'artista e borse di studio in Italia e all'estero. Si ricordano, nel 2013, la residenza a Remont, Associazione per l'arte contemporanea indipendente a Belgrado (Serbia), e la mostra finale I baci più dolci, a cura di Miroslav Karic e Marija Rados; la personale Aquemini, Galleria A+B Contemporary Art, Brescia, con interventi critici di Federico Ferrari, Giovanna Manzotti e Marta Cereda. Si è aggiudicato la Menzione speciale arte emergente al Premio Francesco Fabbri per le arti contemporanee ed è stato selezionato per il museo MAGA di Gallarate all'interno della sezione RawZone di Art Verona.

Per approfondire:
italianarea.it

sabato 15 marzo 2014

I no delle soprintendenze e i buchi nel Vasari

Il 9 marzo scorso è apparso su La Repubblica un articolo di Giovanni Valentini dall'esplicito titolo: "Tutti i no delle soprintendenze che ostacolano i tesori d'Italia". Con tutto il rispetto e l'affetto per il bravissimo giornalista, che però non può certo vantare particolari competenze, titoli ed esperienze nel settore della gestione e della tutela del patrimonio culturale, viene da sorridere amaramente quando si individua nella "maledizione dei coccetti" una delle principali cause del degrado urbanistico e sociale della Capitale, oppure quando si accusano le soprintendenze di "incatenare il Belpaese" o di "bloccare il recupero del patrimonio artistico". Uno scivolone può capitare a tutti e, per una volta, l'acuto editorialista del giornale di Ezio Mauro è inciampato in un mal congegnato miscuglio di demagogia e superficialità, che mostra in trasparenza, sullo sfondo, tutto il repertorio delle insofferenze e delle bramosie che il ventennio berlusconiano ha insinuato nell'animo degli italiani. Così, tra le righe, compaiono tematiche tristemente note e affermazioni che, a dire il vero, potrebbero essere tranquillamente sottoscritte da un Nannipieri. Quello che più disturba è percepire un atteggiamento di sufficienza di fronte alla cultura delle regole (almeno in campo culturale), quando questa va a scontrarsi con un'esigenza di "modernizzazione" dai contorni non ben definiti. Ma è ben poco elegante anche il profluvio di dati sugli stipendi di dirigenti e funzionari del Ministero dei Beni Culturali, che parrebbe voler estendere persino a questo settore l'ormai unanime riprovazione per gli eccessivi costi della politica, ma non fa i conti con una realtà che è descritta con tutt'altra consapevolezza nella replica all'articolo di Valentini pubblicata su patrimoniosos.it e sottoscritta da un cospicuo numero di funzionari ed ex-funzionari del Mibact: "In un paese come il nostro, il Ministero dei Beni Culturali è da sempre considerato il fanalino di coda, [...] la percentuale del Pil nazionale investita in tutela e valorizzazione del patrimonio artistico è risibile rispetto a quella di altri paesi europei che non possono neppure lontanamente paragonarsi alla ricchezza del nostro, [...] gli organici del personale tecnico-scientifico del Mibact sono nettamente sottodimensionati rispetto alle esigenze di un patrimonio immenso e [...] l'età media dei funzionari è al di sopra dei cinquant'anni. Se dunque le soprintendenze non funzionano forse è perché non le si vuole far funzionare. E gli economisti, a cui è oggi tanto di moda appellarsi, ci insegnano che un'impresa va incentivata prima di tutto attraverso gli investimenti, sia di capitale finanziario sia umano".
Ciò che invece si rintraccia con difficoltà nell'articolo di Valentini è una coerente e concreta argomentazione a sostegno della sua tesi. Si cita l'esempio della decisione di Matteo Renzi, da sindaco di Firenze, di affittare Ponte Vecchio alla Ferrari, sostenendo che sia stata contestata dalla Soprintendenza. Eppure in quell'occasione la soprintendente ai beni ambientali ed architettonici Alessandra Marino ha firmato, forse anche con una certa leggerezza, l'ordinanza del Sindaco, esprimendo tra l'altro il suo parere favorevole. Scrive ancora Valentini che Renzi "avrebbe voluto far eseguire alcuni sondaggi tecnici" su un affresco di Vasari alla ricerca di un Leonardo perduto. In realtà l'attuale Presidente del Consiglio non "avrebbe" ma "ha" fatto eseguire una mezza dozzina di "sondaggi tecnici" (che, esplicitando l'eufemismo, non sono altro che buchi) sull'affresco di Palazzo Vecchio, con tanto di autorizzazione del soprintendente Cristina Acidini. A prescindere dai risultati delle operazioni, che non si vogliono qui giudicare, non sembra che gli esempi concreti portati da Valentini siano particolarmente efficaci nel dimostrare quanto i custodi dei beni culturali rappresentino un freno allo sviluppo. Pur senza cadere nell'eccesso opposto di chi denuncia un'abitudine diffusa alla "prostituzione culturale" nel nostro Paese (come è noto la verità, se sta da qualche parte, sta nel mezzo), dovrebbero essere altre le modalità per esprimere sostegno al nuovo Governo e coltivare speranze riguardo al suo operato. Mentre sembra paradossale che chi conserva un'idea diversa di come dovrebbe configurarsi l'azione politica della sinistra italiana meriti l'appellativo di "reazionario", che Massimo Mattioli in un suo pezzo per Artribune ha affibbiato a Giulia Maria Crespi, a Salvatore Settis e a coloro i quali hanno pubblicamente espresso il proprio dissenso nei confronti del programma di drastica revisione delle strutture centrali e periferiche per la gestione dei beni culturali prospettato dai renziani più convinti.
La semplificazione non è sempre la soluzione migliore per ogni problema: non lo è di certo in merito a questioni complesse come la valorizzazione e la tutela del patrimonio artistico.