sabato 29 dicembre 2012

L'albero dei sogni

Ancora qualche settimana per non perdere l'occasione di visitare, presso la Galleria nazionale d'arte moderna a Roma, l'ultima mostra di Gino Marotta, scomparso a distanza di poco più di un mese dall'inaugurazione. Relazioni pericolose, straordinario percorso a cura di Laura Cherubini e Angelandreina Rorro, è un vero e proprio esercizio linguistico fondato sul dialogo tra le opere dell'artista molisano e la collezione del museo. Il concetto di relazione è alla base dell'intero progetto espositivo, costruito insieme da Marotta, dalla moglie Isa e dalle curatrici. Queste ultime hanno voluto sottolineare il senso dell'operazione culturale  rinunciando alla scrittura di testi critici e offrendo al pubblico la fedele trasposizione nel catalogo delle conversazioni intrattenute con l'artista e la sua compagna, senza ombra di dubbio più rappresentative dei criteri di confronto e scambio adottati nell'ideazione della mostra.
Contrario in maniera categorica alla realizzazione di un'antologica o di un evento celebrativo, che avrebbe considerato una caduta di stile e un segnale di manifesta presunzione, Marotta ha preferito rendere omaggio alle opere dei grandi da cui ha tratto ispirazione, tornando in uno dei principali luoghi della sua formazione con gli esperimenti ambientali che lo hanno reso famoso. I suoi fenicotteri-ostaggi celebrano il rito dell'arte che nutre se stessa: contemplano il paesaggio della pittura di spine di Penone mentre un quadro specchiante di Pistoletto riflette la scena, trasformando i metacrilati da spettatori in immagini-oggetto che raccontano e si raccontano. Le opere di Marotta, intellettuale consapevole dell'incompiutezza di ogni asserzione artistica e della necessità di mettere in discussione le norme dell'allestimento museale, pur nel rispetto e nel riconoscimento dell'istituzione, invadono anche gli spazi di passaggio o di sosta, quasi mai utilizzati a fini espositivi. L'installazione Foresta di menta, ad esempio, è collocata nello stretto corridoio oltre le porte del salone centrale, mentre il Giardino all'italiana trova posto nel cortile Aldrovandi. I suoi paradisi trasparenti e colorati conquistano discretamente le sale della Gnam, testimoniando la capacità di un artista ottimista (vissuto in un'epoca in cui era semplice essere ottimisti) di riscoprire nelle forme e nei mezzi della società industriale un angolo di Eden perduto. I suoi boschi di plastica, abitati dalle sagome colorate in maniera improbabile di animali esotici, rappresentano la trasfigurazione onirica della contaminazione tra artificiale e naturale in atto nel mondo contemporaneo.
Nelle ultime settimane a Campobasso, la città dove Marotta è nato e da cui è partito a tredici anni per diventare cittadino del mondo, intellettuali e politici hanno gareggiato cimentandosi in esercizi retorici per ricordare l'artista, con commozione più o meno autentica. Solo in pochi hanno avuto il coraggio di far notare lo stato di degrado e di abbandono in cui versa l'Albero dei sogni, la statua creata dall'artista per la città e collocata nella Villa dei Cannoni in tempi non troppo remoti, quando il Comune intendeva valorizzare la piazza alle spalle del Municipio trasformandola in luogo simbolo dell'arte contemporanea. Le condizioni dell'albero di Marotta sono un chiaro indicatore della qualità delle politiche culturali dell'attuale amministrazione cittadina: sembrerebbe addirittura, in base alle dichiarazioni di alcuni consiglieri comunali riportate dalla stampa locale, che il sindaco Di Bartolomeo avesse palesato l'intenzione di rimuovere l'opera dalla piazza, dopo averla definita un "simbolo di regime" (pare che il riferimento fosse alla passata amministrazione di centro-sinistra).

giovedì 13 dicembre 2012

Tre domande a Lamberto Pignotti

Le questioni relative alla crisi della rappresentazione e all'assottigliamento delle capacità comunicative del sistema letterario hanno attraversato il dibattito intellettuale negli ultimi (almeno) cinquant'anni. La teoria della morte dell'arte di Danto è in fondo solo un capitolo recente di una più ampia e sedimentata riflessione che coinvolge ogni forma espressiva, poesia inclusa. "Poetry is dead, long live poetry" scriveva il compianto Eugenio Miccini in un suo collage degli anni Ottanta. La poesia visiva, a partire dalle sperimentazioni del Gruppo 70, ha sempre tentato di fornire una risposta alle rinnovate esigenze linguistiche del mondo contemporaneo. Quali ritiene siano oggi le più forti istanze di cambiamento alle quali arte e cultura devono prestare ascolto per sopravvivere ed essere al passo con i tempi?
Coloro che teorizzano e parlano della morte dell'arte e della poesia testimoniano inequivocabilmente la loro impotenza, la loro incapacità a seguire i tempi.
È il dramma di svariati critici di professione che, magari sforzandosi e mettendocela tutta, si fanno delle idee in base a un codice modellato alla stregua di una camicia di forza, che non può comprendere quelle operazioni estetiche che per natura rifiutano la rigidità dei codici. È il caso ad esempio della poesia visiva a cui non si confanno codici strettamente letterari o specificamente artistici.
Il fatto è che la poesia visiva è nata operativamente e teoricamente con l'intento di usare più codici. E intanto quelli connessi alla parola e all'immagine, ma poi andando a esplorare i codici lasciati negligentemente da parte: quelli del gusto, del tatto, dell'olfatto. È così entrata in quella terra di nessuno che è governata dalla sinestesia. Riferimento e uso di più codici, quindi. Arte e cultura dovranno sempre di più tener conto e proseguire su tale strada per essere al passo con i tempi. Ma come ho detto tante altre volte in varie occasioni, magari fra curiosità e presunzione, più che la storia dell'arte io amo la storia dell'arte del futuro.

Marinetti, nel Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912, cercando di tracciare il profilo delle sue "parole in libertà", si scagliava contro ogni specie di ordine ("Bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo un maximum di disordine") e contro la presenza dell'"io" in letteratura ("Sostituire la psicologia dell'uomo, ormai esaurita, con l'ossessione lirica della materia"). La poesia, in altre parole, non può nascere dalla poesia stessa, ma dall'incontro con la materia viva e vibrante. Molti suoi lavori nascono da "incontri" simili con la tradizione extra-poetica. La sua ricerca verbo-visuale coltiva una grande apertura nei confronti della dimensione più apertamente sociale: quali sono le "relazioni" che la ispirano maggiormente?
"Nutrirsi di poesia per fare poesia sarebbe come nutrirsi di grasso per ingrassare": lo ha detto perentoriamente Giacomo Leopardi. Ma vallo a dire in giro a certi poeti o a certi critici...
Bisogna bazzicare vari centri, periferie, luoghi abbandonati, magari sconsigliati o malfamati, bisogna rovistare fra i rifiuti, fra gli oggetti dismessi, bisogna andare alla ricerca di qualcosa per trovare qualcos'altro, bisogna fare incontri extra-poetici e extra-artistici. Già, le "Poesie e no", le poesie da masticare, il "Dolce stil novo", i "Drink poems"..., ma anche i libri-oggetto fatti ritagliando la plastica dei sacchetti della spesa con finalità implicitamente ecologica. Le relazioni che mi ispirano maggiormente, sia sul piano artistico che su quello sociale, sono le "liaisons dangereuses".

La predilezione per la dimensione intima del collage o del libro è probabilmente legata alla propensione per la complessità, che difficilmente trova compiuta espressione nei grandi formati. Anche sul versante performativo i suoi interventi hanno sempre conservato una raccolta compostezza (le poesie da masticare o da bere, ad esempio). Molta arte contemporanea sembra invece orientarsi verso la monumentalità e la spettacolarizzazione. Ritiene che la riscoperta del minuto (della botte piccola con il vino buono, per dirla con la saggezza popolare) sarebbe salutare per la giovane arte?
Qualche anno fa ho curato e realizzato a Roma una mostra invitando e coinvolgendo circa ottanta artisti, intitolata Mini>Maxi – Opere consapevolmente minime come alternativa ad un'arte aggressiva ed ingombrante. Il riferimento era il formato cartolina. Ho sempre avuto nutriti sospetti sul gigantismo e la monumentalità dell'arte.
L'idea, quando c'è, non ha bisogno di allargarsi nelle dimensioni.
Oggi su sollecitazione prevalentemente americana vogliono far credere che i grandi quadri li facciano i grandi artisti per essere accolti nei grandi musei. Al mercato dell'arte, o meglio: alla finanza dell'arte, conviene crederci. Alla "giovane arte", all'arte protesa al nuovo, a quella avventurosa insomma, conviene proseguire per altre strade.


Lamberto Pignotti è nato nel 1926 a Firenze. Vive a Roma. Ha insegnato all'Università di Firenze e al DAMS dell'Università di Bologna. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa, saggistica, antologie, poesia visiva. Fondatore a Firenze, con altri poeti, artisti, musicisti e studiosi del Gruppo 70 nel 1963, successivamente ha partecipato alla fondazione del Gruppo 63. La sua scrittura verbovisiva attinge in maniera critica e dissacrante a vari codici iconografici dei media – pubblicità, moda, fumetti, francobolli, rebus... – e  procede, anche mediante le sue performance, rapportando segni di diversa provenienza: verbali, visivi, del gusto, dell'olfatto, del tatto. Come poeta visivo e sperimentale è incluso in varie antologie italiane e straniere, fra cui Once again, di Jean-Francois Bory (New York, 1968), ed è trattato in libri di saggistica e consultazione. Ha collaborato assiduamente a giornali quotidiani, a programmi culturali della RAI, oltre che a varie riviste italiane e straniere. Nel 1965 ha pubblicato a Bologna per l'editore Sampietro la prima antologia italiana di Poesie visive (4 voll.) comprendente quindici autori. Ha partecipato a mostre collettive, fra cui: Tecnologica, Firenze, 1963; Annual avant garde Festival, New York, 1964 e successive edizioni; Biennale, Venezia, 1968 e varie edizioni; Italian Visual Poetry 1912-1972, New York, 1972; Contemporanea, Roma, 1973; Parola Immagine Oggetto, Tokyo, 1976; Visual Poetry. Arte Italiana, 1960-1982, Londra, 1983; Quadriennale, Roma, 1986; Poesia visiva. 5 Maestri, Verona, 1988; L'espace de l'écriture, Parigi, 1994; Dadaismo e dadaismi, Verona, 1997; Poesia totale 1887-1997, Mantova, 1998; Playgraphies, Parigi, 1999; Modern Art from Italy, Milwaukee, Wisconsin (USA), 2005; La parola nell'arte, MART, Rovereto, 2007; Italian Genius Now, Museo Pecci, Prato e varie sedi straniere, 2008; Futurismo 1909-2009, Palazzo Reale, Milano, 2009; Poesia visiva, MART, Rovereto, 2010; Ah, che rebus!, Roma, 2011. Una vasta monografia curata da Martina Corgnati per l'editore Parise di Verona nel 1996, contiene fra l'altro una bio-bibliografia generale e un'antologia critica con scritti di quarantotto autori fra cui Dorfles, Argan, Eco, Bonito Oliva, Quintavalle, Barilli. Recentemente sono apparsi altri tre estesi volumi monografici accompagnati da mostre personali: Gli Ori, Galleria Armanda Gori Arte, Prato, 2008; Fondazione Berardelli, Brescia, 2010 e CSAC, Università di Parma, Salone delle Scuderie in Pilotta, Skira, 2012. Nel 2011 è stato pubblicato un suo libro di poesie visive, Versi sinottici, Peccolo, Livorno, e un volume di saggi, Scrittura verbovisiva e sinestetica, con Stefania Stefanelli, che ripercorre teoricamente e criticamente il complesso rapporto che dall'inizio del Novecento e fino a oggi intercorre nelle arti fra parola, immagine  e altri sensi.

Per approfondire:

giovedì 6 dicembre 2012

Tre domande a Davide W. Pairone

"Criticism is not a crime" è il sottotitolo del blog di approfondimenti e critica d'arte a tua cura Il Grande Vetro. Fino a che punto si avverte oggi, in Italia, la mancanza della critica e quali ritieni siano i fattori che inibiscono la maturazione di un dibattito serio e approfondito sulle arti nel nostro Paese?
In Italia, da sempre laboratorio e specchio della cultura occidentale, si riflettono ed amplificano dinamiche internazionali. La critica d'arte qui come altrove soffre la netta predominanza della curatela, vale a dire che si investono energie negli aspetti di comunicazione, marketing, burocrazia legati all'organizzazione di mostre a scapito del dibattito storico e stilistico. Per rendersi conto della situazione basti pensare che, secondo un'analisi emersa alla Biennale dei Beni Culturali Florens 2012, in Italia si inaugura una mostra ogni 45 minuti, più di 30 al giorno, circa 11000 ogni anno. Evidentemente non esiste una selezione, un filtro da parte dei cosiddetti gatekeepers che, aggravante specifica italiana, tendono a diventare personaggi più che personalità: in modo strategico esaltano tic linguistici e comportamentali, idiosincrasie, vezzi, nel tentativo di distinguersi e imporre non una visione critica ma uno stile riconoscibile, un dress code di scuderia che scimmiotta e travisa le "uniformi" d'avanguardia. Intendiamoci, non è una novità né necessariamente un male in sé. Tuttavia la situazione appare più grave se saldiamo questo trend alla miopia istituzionale e alla netta frattura fra sistema espositivo e mondo accademico, vero convitato di pietra in ogni discussione sull'arte.

I contenuti proposti nel blog sono deliberatamente privi di "data di scadenza": niente news, niente recensioni-lampo, niente scoop. L'esigenza di affrancamento dall'attualità più stretta nasce dalla volontà di sperimentare una scrittura in grado di sedimentare, alimentando il pensiero, oppure rappresenta un modo di prendere le distanze dalle testate di informazione, spesso più concentrate sul gossip e sulla dietrologia che sul linguaggio degli artisti?
Direi entrambi: la sperimentazione e l'approfondimento latitano nei media che si occupano di arte. In un sistema ristretto inevitabilmente il gossip "tira" ma talvolta rischia di trascinare con sé tutti gli altri aspetti. Del resto non mancano le testate, cartacee e on line, che si occupano di retroscena e scoop mentre manca del tutto un luogo dove dilatare il tempo della lettura e della riflessione. Mi ribello all'idea esclusiva di un web immediato, frammentario, spesso frivolo. Dobbiamo renderci conto che la rete è l'orizzonte, è lo spazio pubblico del nostro presente e del nostro futuro ed è qui che restano le tracce del lavoro, del dibattito, della riflessione. Sul Grande Vetro trovano spazio anche testi in catalogo, quelli che "nessuno legge", e allora è il caso di tenere aperte queste pagine, renderle costantemente fruibili e sempre attuali. L'ennesima polemica di Sgarbi, l'ennesimo scandalo legato a questo o quel museo, l'ennesima mostra controversa e scandalizzante: sono situazioni che invecchiano presto e perdono d'interesse. Il Grande Vetro invece funziona come archivio permanente di testi ed immagini che il pubblico consulta a distanza di anni proprio perché il loro interesse e la loro ragion d'essere  vanno al di là della contingenza. È un blog inattuale che contraddice tutte le regole di comunicazione web e in questo credo abbia il suo valore. Peraltro ho riscontrato maggiore attenzione da parte del pubblico generalista che da quello specializzato; sinceramente, per me, per gli amici e colleghi che hanno contribuito con saggi e articoli, credo sia un motivo di vanto.

Si diffonde come un morbo, complice la crisi economica, sociale e culturale, il trend della banalizzazione: gli stereotipi proliferano in tutti i settori, dall'arte alla politica. Millantatori, fanfaroni, ciarlatani venditori di panacee e spacciatori di facili soluzioni sembrano riuscire senza alcuna difficoltà a turlupinare masse inermi. Come ci si può difendere dall'ignoranza, dal cinismo e dal nichilismo?
Non sarei così catastrofista: cialtroni ed opportunisti esistono da sempre e l'assalto alla diligenza del sistema arte credo sia dovuto semplicemente al gonfiarsi di una bolla speculativa negli anni '00 ed alla retorica (malri)posta sulle "economie della conoscenza" e sui mestieri "creativi". Col restringersi degli investimenti e delle speculazioni vedo già in atto una selezione o quantomeno un ridimensionamento di certi personaggi che, purtroppo, porteranno a fondo con loro anche molti artisti validi che si sono messi nelle mani sbagliate, convinti di poter condurre piani strategici di affermazione cavalcando questo o quel trend.  Credo che il Manuale per giovani artisti di Damien Hirst abbia fatto grossi danni e sia stato letto sostanzialmente male: è diventato un "Art for dummies" mentre al contrario contiene passaggi di grande profondità su temi universali come la morte, il tempo, la storia. Certo, Hirst è un personaggio pop ed è diventato milionario ma la sua grande preoccupazione rimane quella di sopravvivere al giudizio dei posteri, problema che molti artisti e critici nemmeno si pongono.


Davide W. Pairone (1980), critico e curatore d'arte moderna e contemporanea, possiede una lunga esperienza nell'ambito dei servizi didattici, museali e di allestimento. Fra le principali collaborazioni istituzionali: autore di testi in catalogo per la mostra "Nicola Samorì. Fegefeuer" (2012) presso la Kunsthalle di Tubingen (DE) e per la mostra "Incontri all'inizio del mondo" (2012) presso il centro culturale Altinate - San Gaetano di Padova. Curatore della mostra "Aron Demetz. Il Radicante" (2012) presso MACRO Testaccio - Roma. Membro dei comitati scientifici delle mostre "Zoran Music. Se questo è un uomo" (2011) e "Sebastian Matta. L'entrée est a la sortie" (2010)  presso il Palazzo Leone da Perego - Legnano (Mi). Curatore della mostra "Beata Remix" (2008) presso il Palazzo d'Avalos di Vasto in collaborazione con la Tate Modern di Londra. Ha curato mostre di giovani artisti italiani ed europei presso le seguenti gallerie private: Zelle arte contemporanea (Palermo), Galleria Miomao (Perugia), 400metriquadri gallery (Ancona), Atelier 777 (Pescara). Ha pubblicato articoli, prefazioni e saggi critici per gli editori Allemandi (Torino), Lupetti (Bologna), Morlacchi (Perugia) e per le seguenti riviste: Artslife, Artapartofculture, Lobodilattice, La Forma, Artico, Gorilla, EgMagazine. Dal 2010 gestisce il blog Il Grande Vetro.

Per approfondire:

lunedì 22 ottobre 2012

Explosion!

L'ideale romantico dell'eccezionalità dell'artista, brutalmente contrapposta alla mediocrità dell'uomo comune, ha retto agli scossoni delle avanguardie del primo Novecento per poi soccombere di fronte al dilagare del boom economico. La Pop Art e Beyus hanno dato il colpo di grazia agli affascinanti estremismi dandistici e bohémien per stemperare la figura dell'artista, diluendola nelle più diversificate forme di creatività di massa. Livellando le differenze, si è giunti a un passo dal rendere indistinguibile la condizione in cui "ogni uomo è artista" dallo scenario nefasto e auspicabilmente remoto in cui "nessun uomo è artista". D'altro canto certe spettacolarizzazioni postmoderne hanno reso evidente che la strada dell'estremismo non può essere trasformata in un loop di tediose e asfissianti ripetizioni perché, una volta percorsa, conduce necessariamente all'autodistruzione o all'annullamento. Così l'artista contemporaneo deve tenersi, da buon funambolo, in equilibrio tra il quadrato nero di Malevič e l'action painting di Pollock, anima e corpo divisi nella lotta tra raziocinio e istinto. Insomma, una medietas tutt'altro che mediocre.
La mostra Explosion! Painting as action, conclusasi il 9 settembre al Moderna Museet di Stoccolma, per trasferirsi poi presso la Fondazione Joan Miró a Barcellona, a partire dal 24 ottobre, esplora un percorso interamente composto di estremismi, attraverso le opere di grandi personalità che hanno interpretato la pittura, e l'operare artistico in generale, principalmente come pura azione, istinto, sentimento. Il curatore Magnus af Petersens ha tessuto una sottile, a volte quasi impalpabile, rete di associazioni tra esperienze artistiche per molti versi inconciliabili, ma accomunate dall'evidenza lampante della componente performativa. L'indefinito territorio di confine tra l'azione e il risultato dell'azione stessa è perlustrato in lungo e in largo alla ricerca dei più significativi esempi di fusione tra pittura e performance, tra materia e concetto, tra gesto e idea, tra corpo e anima. Si passa dalle antropometrie di Yves Klein all'Art Make-Up di Bruce Nauman, dagli "shooting paintings" di Niki de Saint Phalle agli automi di Jean Tinguely, dai rituali degli azionisti viennesi al "pouring" di Lynda Benglis, per arrivare alle sperimentazioni radicali del gruppo giapponese Gutai che, nel metodo, hanno in qualche modo anticipato le formulazioni di certa arte concettuale e gli "instructional works" di alcuni artisti legati a Fluxus. Non è probabilmente un caso che il Moderna Museet abbia ospitato, nello stesso periodo di Explosion!, la mostra temporanea Grapefruit, dedicata alle poetiche "istruzioni" di Yoko Ono. La consapevolezza che il fruitore e il contesto possano interagire con l'opera fino a diventarne parte, ridimensionando il ruolo dell'artefice (Roland Barthes, in un suo famoso saggio del 1967, parlava di "morte dell'autore"), già presente in Duchamp e centrale nel lavoro di Cage, ha dato vita a una nebulosa di approcci sperimentali basati sulla "possibilità". Lavorare intenzionalmente con il concetto di eventualità, come elemento vitale nella produzione artistica, significa lasciare l'opera aperta all'influenza di fattori che vanno oltre il controllo dell'artista. Dipingere in questo modo significa trasformare la pittura da un fenomeno statico a una finestra aperta su un mondo nuovo, parte integrante dello spazio-tempo dell'osservatore.

giovedì 2 agosto 2012

Tre domande a Carlo D'Orta

Osservando le sue fotografie balza subito agli occhi l'elemento "costruttivistico" della composizione (prendo in prestito la definizione di Katharina Hausel dalla presentazione della sua mostra personale Ritmi Architettonici presso l'Istituto Italiano di Cultura a Berlino del 2011). Quanto è importante, nella sua ricerca, l'elaborazione di un autonomo codice espressivo in grado di svincolare il linguaggio fotografico dalla documentazione oggettiva e dalla meccanica riproduzione del reale?
Rendere le mie fotografie libere rispetto al dato reale di partenza, lasciandole però sempre fotografie, non è solo un aspetto importante, ma l'essenza stessa della mia ricerca. Si tratta di un crinale estremamente difficile. Da un lato, non sono né interessato né attratto dalla fotografia documentaria, che può offrire immagini straordinarie ed emozionanti, ma è affine al giornalismo più che all'arte. Da un altro lato, è facile oggi abusare degli strumenti di manipolazione digitale e transitare così, quasi inavvertitamente, nella computer graphics, arte assolutamente apprezzabile ma "altra" rispetto alla fotografia d'arte. Io invece non voglio né disegnare, né fotografare "in senso stretto", ma cerco piuttosto di essere artista attraverso un mezzo tecnico – qual è la macchina fotografica – diverso dal pennello.
Per raggiungere questo scopo mi immergo nelle architetture urbane attraverso lo zoom, e intendo il verbo "immergersi" in senso quasi letterale, fisico. Quello che mi accade è una specie di fusione emotiva tra sguardo, mente e strutture su cui all'improvviso la mia attenzione si fissa: il mondo intorno quasi scompare, mi isolo, tutti i miei sensi si concentrano nello zoom e, per suo tramite, vedo e sento una realtà diversa da quella ordinaria. È qualcosa che esiste davvero, è lì e chiunque potrebbe vederla insieme a me. Però è una realtà che al tempo stesso sfugge all'attenzione dei più, perché è tutta racchiusa in una particolare e a volte delicatissima combinazione di linee e colori che svanisce se ci si muove appena di un passo. Volendo sintetizzare, io attraverso la fotografia cerco l'astrazione. Un'astrazione fatta soprattutto di linee fisiche e cromatiche che si sfiorano, si intersecano, si sovrappongono, si mescolano. Sono dati reali, quindi è fotografia, ma sono anche dati proposti con un occhio "nuovo" che tende a trasfigurare l'immagine reale, quindi non è documentazione ma è – spero, o per lo meno questa è la mia ambizione – arte.

La convinzione che la fotografia creativa non debba riprodurre la realtà ma renderla "visibile" è alla base del lavoro di Franco Fontana. L'opera del fotografo modenese è stata spesso associata alla pittura per la capacità di generare nuove visioni basate su geometrie esistenti nella realtà. I paesaggi urbani di Franco Fontana sono stati per lei fonte d'ispirazione?
Le opere di Franco Fontana sono state per me sicuramente un'illuminazione. Tuttavia questa illuminazione non ci sarebbe stata, o quanto meno non avrebbe prodotto gli stessi frutti, senza un mio parallelo percorso di pratica pittorica e di approfondimento dell'arte contemporanea. Prima, e per circa venticinque anni, avevo fotografato in modo tradizionale, documentario, affinando via via tecnica e sensibilità, ma restando sempre legato all'oggettività. Nel 2003 c'è stata la svolta, quando ho preso a seguire corsi avanzati di pittura alla Rome University of Fine Arts (proseguiti fino al 2010) e, al contempo, mi sono dedicato con metodo allo studio dell'arte dalle avanguardie del primo novecento fino ai nostri giorni.
Questo insieme di cose ha radicalmente mutato la mia "visione". L'esperienza del dipingere con metodo – fisica ed emotiva insieme – ha affinato in me la sensibilità. E l'approfondimento dell'arte contemporanea mi ha offerto chiavi di lettura nuove, più sofisticate, che mi hanno reso impossibile continuare a trovare interesse nella semplice riproduzione – col pennello o con la camera, poco importa – del reale. Su questo humus divenuto fertile si è innestato un "nuovo incontro" con l'arte di Franco Fontana: nuovo perché conoscevo già le sue opere, ma ho preso a vederle, anzi a sentirle, in modo molto diverso.
Fontana mi ha aperto la porta per cercare l'astrazione non col pennello, ma attraverso la macchina fotografica. Lui la cercava in paesaggi agresti, dai quali estraeva campiture perfette di colori geometricamente contrapposti. Io cerco invece l'astrazione nei paesaggi urbani. Paesaggi urbani colti ora in modo diretto, come nella serie che – usando uno stimolo dell'amico e critico d'arte Valerio Dehò – ho intitolato "Biocities". Altre volte, invece, mediati dai riflessi di vetrate e superfici specchianti di ogni genere, come nella serie che ho intitolato "Vibrazioni". Un'altra differenza tra queste due serie è che in "Biocities" rimango fedele alla realtà sia nelle forme che nei colori, e l'astrazione (piena o tendenziale) è frutto esclusivamente dell'inquadratura. Nelle "Vibrazioni", invece, do sfogo anche alla mia vena pittorica, perché le forme sono esattamente quelle congelate dallo scatto (le deformazioni sono effetto dei riflessi), mentre invece manipolo talvolta i colori in post-produzione, come se dipingessi.

Città e vita nello sguardo attento di un viaggiatore: da quali esperienze nasce la serie "Biocities"?
Le fotografie di "Biocities", come tutte le mie immagini, trovano occasione nella passione per il viaggio, anche se poi questa è la più intimistica e concettuale delle mie serie. Il desiderio, la curiosità di vedere – e, quando possibile, di conoscere – luoghi e mondi diversi mi accompagnano sin da giovane e li ho coltivati con costanza negli anni. Anche qui, però, c'è stata una evoluzione, artistica e umana insieme. Le immagini di riflessi che compongono il ciclo "Vibrazioni" si alimentano soprattutto di fattori esterni, come i grappoli di grattacieli delle più moderne metropoli del mondo: qui il viaggio materiale è strumento essenziale della ricerca, offre l'opportunità di trovare soggetti adeguati e tutto il progetto fotografico poggia su una scelta consapevole e oculata delle mete. Viceversa, come dicevo, "Biocities" è un ciclo molto più concettuale e intimistico. Non servono mete speciali, cluster di grattacieli, metropoli avanzate. Qui essenziale è immergersi nel particolare, nella composizione geometrica che potremmo trovare anche in luoghi vicini e consueti, come l'angolo di una strada sotto il portone di casa nostra. Il segreto è estrarre da questo particolare geometrico una emozione interiore. Tutto sta – ed ecco che ritorna Franco Fontana – nel "vedere", senza limitarsi a "guardare"; o, per dirla in un altro modo, nel saper guardare dentro e non soltanto fuori di noi. Quindi, se vogliamo, alla base delle mie fotografie c'è sempre la passione per il viaggio, ma questo viaggio a volte è fisico e geografico e altre volte, invece, è meta-fisico, perché cerca di raccontare l'animo umano andando "oltre le cose reali".

Per approfondire

venerdì 20 luglio 2012

Tre domande a Luigi Paolo Finizio

Nel suo recentissimo Elogio dell'astrattismo (Milano, Mimesis, 2012), il ricorso a linguaggi visivi basati su forme non oggettive si configura come antidoto spirituale e immaginativo alla diffusa passività del vedere nell'esperienza quotidiana, generata dalla prevalenza di strumenti riproduttivi (come la fotografia o la televisione) e dal conseguente dominio della cultura visivo-informazionale, delle illusioni digitali e delle realtà virtuali in cui l'uomo contemporaneo è immerso. L'ermeticità dell'astrattismo rappresenterebbe, dunque, uno stimolo per il pensiero: dobbiamo, in altre parole, tornare a imparare a guardare più con la mente che con gli occhi?
Non solo l'astrattismo naturalmente, e il mio saggio fa leva proprio su tutti i linguaggi capaci di rifare la realtà, la sua comune evidenza. L'astrattismo, in plurime coniugazioni, è una forma espressiva del tutto acquisita e la sua pratica, ormai anche contaminativa di altre forme espressive, è molto diffusa geograficamente e culturalmente sul nostro pianeta. E ciò che la distingue in termini comunicativi è che prima di offrire il suo possibile messaggio interroga lo spettatore. Certo, ogni arte interroga il suo spettatore, il suo fruitore. Tuttavia come lo fanno, in modo radicale, le forme dell'arte astratta costituisce, ancora oggi, a fronte di qualunque avvenuta acquiescenza ad esse di sensibilità e cultura, la differenza di linguaggio, la condizione più spinta di coinvolgimento espressivo. E, per converso, anche la condizione più netta di rigetto, di non consenso e godibilità. Mai comunque di passiva e ipocrita ricezione, come spesso oggi in atto in tanta produzione e fruizione nelle arti visive (e non solo).

L'astrattismo, meglio di ogni altra forma espressiva, riesce a dialogare e a integrarsi con una visione scientifica del mondo e con il pensiero matematico. La proiezione conoscitiva verso l'ignoto può rappresentare, nell'arte come nella scienza, un fattore di potenziamento degli strumenti di comprensione del reale?
Nel dare alle stampe il saggio fui affascinato, come altri, dalla scoperta dei "neutrini". Fui impressionato dall'idea che cogliendoli, nel loro qui e ora, oltre la velocità della luce si collocano nel buio, nell'ignoto che era proprio l'input del mio discorso, da Malevič a Fontana. Ora si è fatto avanti il "bosone" di Higgs che, come ci fanno intendere, sta in una struttura aperta, in grado di descrivere ogni forza e materia a-gravitazionali. Una struttura empirico-concettuale capace di contenere l'ordine e il caos, la geometria e l'informe e che mi fa ancora pensare a Fontana, al suo spazialismo, al suo buco quale infinito. Come sempre, è guardando alla scienza dall'arte, e non viceversa, che ne viene qualcosa di creativo. I modelli della scienza sono falsificabili e provvisori, quelli dell'arte aspirano ad essere più veri e duraturi. Di qui un comune e diverso approdo conoscitivo: con la scienza apprendo e mi adeguo, con l'arte apprendo e mi libero.

In uno scenario che sembrerebbe preludere a un superamento della postmodernità, è più forte che mai il rischio di scivolare in una comunicazione che vinca sul messaggio, appiattita sui dati di realtà, dominata dalla denotazione e dalla perdita di senso nel banale, priva dell'ambigua ma vivificante forza espressiva della connotazione. Condivide l'idea che nuovi percorsi di ricerca artistica possano nascere dalla necessità di coniugare le istanze del nuovo realismo con una "verità" espressiva che non rinunci a tradurre l'ineffabile in forme a-figurative?
Si discute da tempo e ci siamo dentro senza margini nel predominio della comunicazione sul messaggio. È una grande conquista, tutta flagrante, dell'umanità cui indubbiamente, prima o poi, si saprà reagire con intelligenza. Sta qui forse l'insorta questione di un nuovo realismo che sembra inibire l'astrazione, l'interpretazione verso la realtà. Ma è condizione antropologico-culturale in cui l'arte, a beneficio del messaggio e delle sue incondizionate forme di rappresentazione, non ha che da agire e non certo adeguarsi. La mia perorazione dell'astrattismo, lontano da velleitarie riproposizioni di poetica, ha questo fondo di principio. Il postmoderno è in sostanza un disincanto, ma per quanto smagati, senza confondere aspettative con illusioni, non potremo fare a meno del mistero, della magia nell'arte.

Luigi Paolo Finizio, critico e storico dell'arte, ha insegnato nell'Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, Napoli e Roma e ha tenuto corsi in varie Università italiane. Tra le sue pubblicazioni: L'immaginario geometrico, Napoli, Istituto grafico editoriale italiano, 1979; Produzione del senso e linguaggio, Roma, Bulzoni, 1980; Arte linguaggio e senso, Roma, Bulzoni, 1986; Il MAC napoletano, 1950-1954, Napoli, Istituto grafico editoriale italiano, 1990; L'astrattismo costruttivo – Suprematismo e Costruttivismo, Bari-Roma, Laterza, 1990; Dal neoplasticismo all'arte concreta, 1917-1937, Bari-Roma, Laterza, 1993; Moderno antimoderno – L'arte dei preraffaelliti nella cultura vittoriana, Napoli, Liguori, 2004; Avanguardia a Napoli – Undici dell'astrattismo, Napoli, Edizioni Centro di cultura contemporanea Napoli c'è, 2010; Elogio dell'astrattismo, Milano, Mimesis, 2012.

mercoledì 11 luglio 2012

As cidades

Moltissimi artisti del Novecento hanno ampiamente investigato i rapporti tra astrazione e rappresentazione del paesaggio metropolitano, proponendo geometrie ricalcate sui ritmi urbani come modelli linguistici e formali emblematici della modernità. Bauhaus e De Stijl hanno avuto un ruolo centrale nel processo di contaminazione tra urbanistica, architettura, design e pittura, ma il rinnovato universo visivo ereditato dalle sperimentazioni della prima metà del XX secolo ha generato nei decenni successivi un complesso agglomerato di contributi, la cui elaborazione è avvenuta in parte anche in aree più marginali e periferiche rispetto ai tradizionali centri di propagazione della cultura d'avanguardia.
Mentre Mondrian pubblicava i testi fondamentali sul neoplasticismo e veniva presentato nelle più prestigiose esposizioni, da Basilea a New York, come il pittore di maggior spicco nel campo dell'arte astratta internazionale, in Portogallo Nadir Afonso trascorreva la sua giovinezza tra Chaves e Cascais, per poi intraprendere gli studi di architettura a Oporto. L'artista portoghese porterà sempre con sé le atmosfere rurali del suo paese di origine, le architetture barocche della città di Oporto, il fascino delle calette rocciose di Cascais e dei luoghi incantevoli disseminati lungo la costa atlantica, conservando anche nei successivi viaggi e durante la permanenza a Parigi il ricco patrimonio visuale dei panorami urbani portoghesi, caratterizzati dalla commistione degli stili romanico, gotico, manuelino e rinascimentale. Alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso Nadir Afonso vive a Parigi, dove frequenta i corsi di pittura presso l'École des Beaux-Arts e contemporaneamente lavora come collaboratore di Le Corbusier nel grande studio di progettazione ATBAT. Il soggiorno francese gli offre la possibilità di conoscere e frequentare artisti come Picasso, Calder, Ernst e Léger: l'interesse per l'estetica surrealista non diventa però motivo di condivisione profonda dello spirito del movimento. Afonso segue un percorso di ricerca individuale condizionato fortemente dall'ingombrante presenza dell'architettura nella sua vita professionale: dipinge soprattutto composizioni geometriche in cui varianti multiple di forme elementari si combinano modulando lo spazio con cromatismi piatti.
Nel 1951 lavora con Niemeyer in Brasile, dove intrattiene una lunga e intensa frequentazione con l'artista Candido Portinari. Nel suo lavoro subentra una componente neobarocca, che convive con l'interesse per la mitologia egizia e la simbologia dei geroglifici. Tornato a Parigi nel 1954, Afonso riprende i contatti con la comunità artistica europea, in particolare con il gruppo di Vasarely, Mortensen, Herbin e Bloc, che in quel periodo esplorava le potenzialità dell'arte cinetica. Lo studio dei fenomeni ottici e l'interesse per gli equilibri matematici che condizionano la percezione delle forme in movimento conducono alla realizzazione di composizioni pittoriche alle quali viene assegnato il titolo di Espacillimité. In particolare Afonso si concentra sulla possibilità di oltrepassare i confini spazio-temporali imposti dalla tela, introducendo in pittura l'illusione del superamento del limite. Progetta infatti un meccanismo in grado di produrre un movimento circolare e di animare le immagini dipinte: in altre parole una specie di "loop". Without Limits è, tra l'altro, il titolo di un'importante retrospettiva dedicata all'artista portoghese, che nel 2010 ha fatto tappa al Museu Nacional de Soares dos Reis di Oporto e al Museu do Chiado di Lisbona.
A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta intere metropoli o parti di esse diventano il soggetto predominante nelle opere di Afonso. In composizioni sostenute dall'esattezza delle proporzioni, dall'abituale rigore geometrico e da un'inedita accuratezza prospettica, si rivela la maturazione di una più profonda sensibilità nella rappresentazione dello spazio. Tra i primi, splendidi esempi di questa serie di paesaggi urbani spicca una veduta di Venezia (Veneza, 1956-62, Olio su tela, 83×130 cm, Lisbona, Collezione CAM - Fondazione Calouste Gulbenkian) in cui le caratteristiche forme ogivali di Afonso suggeriscono gli archi a sesto acuto e le finestre ornate dei palazzi in stile gotico della città lagunare. A partire dal 1965, anno in cui l'artista decide di abbandonare definitivamente l'architettura per dedicarsi in modo esclusivo alla pittura, la sua produzione si focalizza sul tema della città, attingendo da un vasto e variegato repertorio di realtà urbane.
Presto sarà possibile ammirare le composizioni geometriche di Nadir Afonso a Roma, presso il Museo Carlo Bilotti: dal 19 luglio al 30 settembre la mostra Nadir Afonso. Architetto, pittore e collezionista porterà nella Capitale alcuni lavori dell'artista portoghese (molti dei quali recenti), insieme a un gruppo di opere scelte dalla sua collezione (Picasso, Ernst, Portinari, De Chirico, Legér), frutto delle sue frequentazioni e di una costante disponibilità allo scambio intellettuale.

venerdì 6 luglio 2012

Tre domande a Eloise Ghioni

Una peculiarità del tuo lavoro è l'indagine accurata delle relazioni tra territorio, memoria e identità. Nella tua ricerca prevale l'introspezione, connessa alla scoperta del lirismo dello spazio intimo e vissuto, o l'analisi di matrice antropologica del luogo, inteso come principio di senso e materia di condivisione per la comunità che lo abita?
Le due tematiche sono strettamente correlate, in quanto io, singolo individuo facente parte di una società, porto il mio contributo intimo alla comunità attraverso le mie esperienze personali, ma al contempo le mie esperienze nascono nel contesto sociale della comunità a cui appartengo ed alla quale faccio riferimento nella mia indagine. In fisica questo processo si definirebbe con il termine di "osmosi".

Nelle tue opere il rigore formale dell'arte antica si fonde con l'estetica minimale del Novecento. Quali suggestioni hanno contribuito all'elaborazione del tuo personale alfabeto di segni?
Difficile stabilire come, quando o perché una suggestione eserciti il proprio influsso sulle modalità espressive. Il background personale si amplia con il tempo e molte possono essere le sollecitazioni esterne che contribuiscono a formarlo, senza dimenticare che il gusto personale determina in modo arbitrario ma significativo interessi e propensioni.
Personalmente sono sempre stata attratta dai manufatti antichi e dal rapporto che le civiltà che li hanno realizzati avevano con la natura. In particolare mi interessano le civiltà precolombiane, mesopotamiche e megalitiche europee. Per mia fortuna sono nata e cresciuta in un'oasi naturalistica, dove il rapporto tra uomo e natura aveva, ed ha tuttora, un connotato sano. Avere il privilegio di crescere in un contesto sociale e territoriale così inclusivo ha sicuramente determinato un'attenzione particolare verso ogni elemento che compone il mio orizzonte di vita, fatto di persone, di oggetti, di paesaggi, di sensazioni e di esperienze. Di conseguenza è nata in me una sana curiosità nei confronti dei processi di costruzione dell'identità individuale e collettiva.

In una recente intervista (Tema, n. 4, dicembre 2011) hai definito la tua ricerca artistica come una "slow art" concettuale, facendo riferimento alla necessità di tempi di fruizione prolungati per una lettura del tuo lavoro in grado di cogliere la stratificazione delle informazioni, che si sovrappongono in un lungo processo di sedimentazione nella fase creativa. In tempi in cui le nuove tecnologie e la sovrabbondanza comunicativa limitano gli spazi per l'osservazione attenta, costringendo spesso a interpretazioni superficiali basate su uno sguardo distratto, ritieni che sia importante per il pubblico e per l'artista stesso recuperare un rapporto più disteso con il tempo?
Assolutamente sì! Purtroppo si è perso il valore del tempo, non solo nell'ambito dell'arte contemporanea, ma in ogni frangente della vita. In una sola generazione abbiamo completamente disimparato l'importanza e l'assoluta necessità del fattore tempo. Senza addentrarmi nelle varie sfumature che una diversa concezione del tempo può implicare a livello soggettivo, credo siano evidenti le conseguenze di una fruizione "fast", mediata dagli strumenti tecnologici di uso quotidiano. Viviamo in maniera frenetica e ci rapportiamo al mondo con la stessa velocità. Ecco dove nasce il "bug": non tanto nella rapidità di esecuzione, quanto nella superficialità con la quale si compie ogni azione. È un dato oggettivo che gli esseri umani siano fatti di carne, ossa e liquidi: non siamo composti solo da connessioni neurochimiche. Il nostro fisico necessita di tempo, mentre noi stiamo negando culturalmente e socialmente questo inalienabile bisogno. Tra non molto sarà impossibile sostenere questo ritmo e sentiremo l'esigenza di riprenderci il tempo negato.

Per approfondire:

mercoledì 20 giugno 2012

Da ascoltarsi con TV accesa, senza volume

Se si escludono gli appassionati di beat italiano, ben pochi avranno familiarità con la musica delle Stelle di Mario Schifano, uno tra i primi complessi a dedicarsi alla psichedelia in Italia. Il loro unico LP, pubblicato nel 1967 con il titolo Dedicato a..., è uno dei dischi più rari e ricercati dai collezionisti di vinile e si presenta come una vera e propria opera multimediale ante litteram. L'artista Mario Schifano, noto per la sua attitudine a coniugare forme espressive diverse, non si limitò a realizzare la copertina dell'album e quattro tavole contenute nell'inserto: propose infatti alla band di includere nelle proprie esibizioni dal vivo performance ad alto contenuto visuale. Simili esperimenti di sintesi erano stati condotti solo pochi mesi prima negli Stati Uniti dai Velvet Underground, con la collaborazione di Andy Warhol: il discreto riscontro ottenuto dai loro spettacoli di arte totale, come l'Exploding Plastic Inevitable, testimonia l'utilizzo di codici non del tutto alieni alla maggioranza del pubblico. La proposta delle Stelle di Mario Schifano è invece radicale, si basa sull'improvvisazione sonora e sul rumorismo, oltre che sugli stilemi della migliore psichedelia: i contenuti commerciali sono praticamente nulli.
Una facciata intera del disco è occupata dalla suite Le ultime parole di Brandimarte, dall'Orlando furioso, ospite Peter Hartman e fine (da ascoltarsi con TV accesa, senza volume): in poco più di un quarto d'ora di atmosfere oniriche e surreali e di jamming estemporaneo, il complesso riesce a dissolvere tutte le regole dell'armonia, affinché l'istinto e la vitalità possano prendere il sopravvento. Il caos, il rumore, l'andamento ritmico scoordinato, rappresentano la distruzione degli schemi, delle imposizioni. La ricerca ossessiva della libertà, persino nella percezione, l'abbandonarsi al fluire sconclusionato dei suoni e delle immagini, riflettono l'esigenza di evadere dalle trappole convenzionali, dalla gabbia in cui la società costringe. Il titolo stesso contiene una prescrizione che vuole essere provocatoria: consigliando l'ascolto del brano di fronte al televisore acceso, con il volume a zero, si invita il fruitore a sperimentare il contrasto con le insignificanti immagini proposte dai mass media, con la realtà omologante che avvolge l'artista. Il messaggio televisivo, mutilato del sonoro, rende di volta in volta l'ascolto dell'opera un'esperienza nuova e diversa; mentre la musica diventa elemento di disturbo, distorcendo il senso degli input unidirezionali e condizionanti che provengono dallo schermo, liberando l'audience dalla passività.
Sul secondo lato dell'album si ritorna alla forma canzone ed a strutture appena più ordinarie; tuttavia, come nella più insolita psichedelia americana e britannica, la ricerca dei suoni è scrupolosa e mai scontata: le chitarre si sciolgono in un mare acido di distorsione, la voce si confonde nel riverbero e punta su un'espressività sussurrata, il tutto è condito da una sezione ritmica incalzante. Non sono il singolo suono o il singolo strumento ad avere importanza, ma l'amalgama, l'effetto complessivo; per questo motivo la registrazione non è particolarmente fedele e di qualità, non mira a valorizzare le capacità del musicista isolato, quanto a cogliere la profonda sintonia fra gli elementi.
Attraverso un sottile gioco di allusioni ironiche, facendo ricorso a formule abusate nella canzonetta d'amore, di cui sono enfatizzati, in maniera provocatoria, i toni naïf, viene messo in evidenza il contrasto tra il mondo che non sente, che non comprende il tormento interiore dell'artista, e lo stato d'animo di un soggetto che vive una profonda crisi esistenziale, che lo spinge ad atteggiamenti riflessivi ed introversi. Si celebra una sensibilità diversa, per la quale abbandonarsi ai piaceri indotti della vita eterodiretta equivale a morire, mentre si afferma con forza la necessità del pensiero, della razionalità coniugata al sentimento, in uno slancio verso l'autenticità dell'esistenza. L'irrisolto conflitto tra la personalità individuale e la morsa uniformante della società trova ancora una volta compiuta espressione, e qui l'ago della bilancia tende nettamente verso la dimensione soggettiva. La musica delle Stelle di Mario Schifano non è quindi musica per tutti, ma solo per quelle anime sensibili in grado di distinguersi dalla massa: non a caso, all'epoca della sua pubblicazione, il disco fu stampato in edizione limitata a soli cinquecento esemplari, in segno di disapprovazione delle politiche di diffusione seriali ed invasive messe in atto dall'industria culturale. Anche il formato riveste la sua importanza: il mercato discografico degli anni Sessanta è dominato dalla tipologia di supporto a 45 giri, che consente l'inserimento di un singolo pezzo su ogni facciata del disco, favorendo in questo modo la concentrazione dell'attenzione del pubblico sul brano di successo, suonato ripetutamente nei juke box, in radio ed in televisione. La canzone di consumo non ha bisogno di contesto, ha senso solo se isolata, scollegata da qualsiasi discorso artistico continuativo, pronta per la fruizione e facilmente accantonabile una volta consumata. La musica d'avanguardia, invece, nel momento in cui intende proporre opere unitarie e solide, all'interno delle quali le composizioni si susseguano concatenate, con un senso logico, aspirando a realizzare un progetto unitario, deve necessariamente ritagliarsi spazi più ampi: il 33 giri, formato a lunga durata, risponde perfettamente a simili esigenze. Per questo motivo, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, inizia a comparire un discreto numero di LP, in un primo momento ancora con funzione antologica, poi come supporto privilegiato di opere concettuali, sempre più frequenti nel campo della musica sperimentale e, soprattutto, poco più tardi, in un genere come il progressive. Si assiste in parecchie occasioni all'abbandono della forma canzone per strutture più complesse e articolate (un esempio è la citata suite delle Stelle di Mario Schifano), oppure si fa ricorso a nessi di tipo sonoro o a richiami e citazioni tra un pezzo e l'altro per collegare in modo indissolubile l'intero lavoro. Si creano così voluti ostacoli ad una ricezione superficiale: l'ascolto presuppone il completo coinvolgimento ed una scrupolosa attenzione per la costruzione dell'opera; niente di più lontano dai meccanismi delle classifiche e dalle medie di gusto.

martedì 5 giugno 2012

La noia è il peggior nemico

Quanto a lungo è necessario osservare e studiare un'opera d'arte per comprenderne pienamente le molteplici sfumature di senso? La risposta è soggettiva e dipende da diversi fattori quali l'acume critico dello spettatore, la stratificazione e l'effettiva portata del significato dell'opera, il contesto di fruizione e il bagaglio di conoscenze pregresse. In ogni caso, esclusa l'ipotesi che ci si trovi di fronte a una crosta, quasi mai saranno sufficienti i pochi secondi di attenzione che il pubblico in media riserva al lavoro degli artisti. Come non è sufficiente una rapida lettura per apprezzare la buona poesia e non basta un primo ascolto distratto per cogliere la complessità armonica della musica sinfonica. La soglia temporale della concentrazione non è però l'unica variabile rilevante. Un analfabeta non riuscirà mai a godere della bellezza dei versi più sublimi: per chi non è in grado di leggere, trascorrere del tempo sui libri, osservando segni incomprensibili, sarà un'attività noiosa e improduttiva. Allo stesso modo, la contemplazione di un'opera d'arte può generare noia nel pubblico per almeno un paio di motivi: il fruitore preparato potrà annoiarsi osservando lavori deboli e derivativi, ma anche la mostra più interessante potrà annoiare un pubblico incompetente. Risulta evidente l'importanza dello studio, delle conoscenze storiche, della padronanza dei diversi codici della comunicazione e, in generale, della ricchezza del patrimonio culturale affinché le sfide poste all'intelletto dalla creazione artistica non risultino "noiose".
Nei tempi dell'organizzazione mecenatistica della committenza (quel modello che Sacco chiama "Cultura 1.0") esisteva una concezione aristocratica dell'arte che rimuoveva completamente il problema della "noia". Durante l'età di Augusto, ad esempio, Orazio e gli altri autori del circolo di Mecenate scrivevano per una cerchia ristretta di destinatari, tutti dotati di una vasta cultura letteraria, e non si curavano di raggiungere un pubblico più ampio ma impreparato. Tra il XIX e il XX secolo, la transizione dal modello pre-industriale di produzione culturale all'organizzazione basata sul mercato (l'industria culturale, che Sacco chiama "Cultura 2.0") porta con sé sicuramente istanze di democratizzazione, ma contemporaneamente pone l'artista di fronte alle esigenze di un pubblico non sempre competente: una platea che, quindi, rischia di "annoiarsi" non solo di fronte a opere di scarso valore, ma anche a contatto con lavori troppo complessi. L'artista professionista è condizionato dalle leggi dell'economia: il mercato stabilisce i prezzi in base al gradimento e ai gusti delle masse e si viene a creare la pericolosa equazione che connette valore e prezzo. Così, se il nemico da combattere è la noia, i più comuni stratagemmi per attirare l'attenzione e il favore del pubblico diventano la provocazione, il kitsch e lo shock.
Oggi sembra che una maggiore attenzione all'approfondimento e all'argomentazione, un atteggiamento di apertura al dibattito intorno alle modalità di elaborazione del sapere e una sana attitudine alla ricerca seria e disciplinata non siano più prerogativa dei produttori "professionali" di contenuti. Il ruolo sociale dell'artista viene messo in discussione dalle nuove tecnologie, dalla connettività e dalle infinite risorse del web. Il rischio più grande di questo inedito modello di produzione e distribuzione dei contenuti è quello di una fruizione superficiale causata dall'eccedenza di informazioni. Comunque l'esercizio costante e appassionato dell'ingegno è il migliore antidoto alla noia.

venerdì 25 maggio 2012

Declinazioni del monocromo: Fisher e Spalletti

Fra i molti tropi del dipinto modernista, il più radicale è il monocromo. È il più semplice e richiede il minor numero di decisioni; è cioè quello che si spinge maggiormente verso la non-composizionalità. Il monocromo ha una lunga storia che ha prodotto dipinti straordinari. Queste cose, considerate complessivamente, rendono il monocromo un modello, non nel senso di essere qualcosa che dovremmo copiare pedissequamente, ma nel senso di qualcosa della cui storia dovremmo essere responsabili e delle cui domande di rigore e ambizione dovremmo essere all'altezza. Sono convinto che la pittura abbia un futuro, e per di più un futuro in cui il monocromo giocherà necessariamente una parte. La domanda è come perpetuare il monocromo in modo che sia produttivo, invece di rappresentare in vari modi un senso di impotenza riguardo alla possibilità di creare qualcosa di nuovo. Come ho detto, un modo di perpetuare il monocromo è quello di rendere la dimensione e la forma parte del lavoro, cosicché non siano invisibili ma, al contrario, altrettanto parte del dipinto – e del suo significato – e di quanto succede all'interno del suo perimetro.
(Morgan Fisher intervistato da Christopher Williams in Mousse Contemporary Art Magazine, Issue 33, April-May 2012)

Da Malevič a Klein, da Reinhardt a Rauschenberg, da Marden a Fisher l'universo del monocromo ha dato prova delle sue infinite potenzialità, assumendo nel tempo configurazioni nuove, diverse e sempre attuali. Molti tra i maggiori artisti italiani hanno subito il suo fascino: Manzoni, Fontana, Castellani, Bonalumi, Scheggi (solo per citarne alcuni) hanno tutti, almeno in una fase della loro ricerca, prediletto le superfici monocrome. Non è detto, però, che sia sempre facilmente riscontrabile nel loro lavoro la tendenza alla non-composizionalità, che è per Fisher una delle prerogative del monocromo. Se per "composizione" si intende l'intervento soggettivo e arbitrario dell'artista nel processo creativo, mentre con il termine "costruzione" si indica una modalità operativa impersonale e, se non oggettiva, almeno non auto-espressiva, allora bisogna ammettere che l'interpretazione italiana del modello di riduzione al grado zero dei codici espressivi non passa sempre per il totale annullamento della soggettività dell'artista, conservando addirittura, in qualche caso, un certo lirismo. Ad esempio, l'originale tecnica utilizzata da Ettore Spalletti per creare quella "pittura tridimensionale" che per molti versi è assimilabile al monocromo (pur non essendo le sue opere monocromi in senso "classico") è frutto di una lunga e personalissima elaborazione, che ha poco in comune con i freddi e matematici procedimenti di un certo minimalismo. Le campiture cromatiche di Spalletti nascono dalla sovrapposizione di diversi strati di pittura: l'impasto di colla e gesso assorbe i pigmenti, il colore viene steso in lunghi periodi successivi, calcolando i tempi di essiccazione, infine l'effetto levigato è ottenuto con l'abrasione, che fa emergere i pigmenti rivelando la trama del dipinto. Una tessitura così complessa rende probabilmente inadatta la definizione di "monocromi" per le opere di Spalletti; sembrerebbe inoltre improprio parlare di "costruzione" per un processo creativo in cui l'artista è origine del lavoro e che per questo motivo conserva il tratto della composizionalità. Tuttavia è innegabile il debito dell'artista abruzzese nei confronti di quella pittura astratta e concettuale che dal Novecento in poi ha inteso ricercare la perfezione nella forma pura, constatata l'impossibilità umana di raggiungere la perfezione nella rappresentazione del reale. Il monocromo è consapevolezza del limite, rappresentazione della finitezza che aspira all'infinito, tormento dell'insoddisfazione e ansia di perfettibilità. Non è affatto uno schema rigido e ormai improduttivo, al punto che le sue possibili declinazioni vanno ben oltre i confini, tracciati da Fisher, della non-composizionalità e delle variazioni sulla forma. Il monocromo giocherà una parte ancora più importante nel futuro della pittura se riuscirà a emanciparsi dal rigore minimalista, stemperandolo con un pizzico di automatismo surrealista e conciliando ciò che sembra inconciliabile: inconscio e razionalità, soggettivo e oggettivo, finito e infinito.
Alcune opere di Spalletti dialogano in questi giorni con i lavori di Joseph Kosuth, Rosa Barba, Marie Cool e Fabio Balducci presso la galleria Vistamare di Benedetta Spalletti a Pescara.

giovedì 17 maggio 2012

Tre domande a Marcello Faletra

La lezione di Nietzsche, il declino delle ideologie, la fine di quelli che Lyotard chiamava i "grandi racconti" (Illuminismo, Idealismo, Marxismo) hanno aperto la strada alla moltiplicazione delle prospettive, cancellando contemporaneamente la nozione di verità (intesa come blocco monolitico e compatto) e la fiducia nel progresso. In tempi recenti abbiamo sperimentato, più che gli esiti emancipativi del superamento dell'oggettività, un relativismo aleatorio e ambiguo che ha trovato la sua massima espressione nel populismo mediatico. Le emergenze economiche della crisi, i fallimenti della politica, la precarietà esistenziale (oltre che lavorativa) sembrano reclamare il recupero di una coerente definizione del mondo, di una base stabile su cui costruire il presente o, quanto meno, di qualche certezza. Crede che esistano fatti che non possono essere ridotti a interpretazioni?
L'attuale dibattito che ruota sulle parole "fatti" e "interpretazioni" sbatte sulla pubblica piazza filosofica un frammento postumo di Nietzsche di cui sono state amputate le coordinate storiche e concettuali. "Non ci sono fatti ma solo interpretazioni" è lo slogan o la cornice che fa da sfondo alla questione. Ma, e gli attori del dibattito lo sanno bene, si tratta di una falsa espressione attribuita al filosofo. Il quale non si è espresso in quei termini, lasciando così credere che tutto è opinabile o interpretabile in astratto. Il frammento di Nietzsche è ridotto, nello stile dei reality, ad una volgare battuta. Com'è noto Nietzsche ha di mira l'intera metafisica. E se fosse tra noi non avrebbe risparmiato il populismo postmodernista che tanto somiglia a quel populismo che vedeva negli adulatori di Wagner che liquidò con: "Cornuti sigfridi [...] cretini della cultura, i piccoli apatici".
E nel caso di queste parole l'obiettivo era il positivismo con la sua religione dei fatti, oggi così invadente. È sufficiente rileggersi tutto il fulmineo e denso frammento per capire la storpiatura in atto che in questo caso farebbe del filosofo un padrino dei postmodernisti, avallando la tesi della interpretazione senza fine della realtà (Frammenti postumi, 1888/89, 7 [60]). Parola, questa, che Nietzsche usava con molta cautela, dal momento che ad essa preferiva l'altra, quella meno concettualizzabile come "divenire". Nietzsche rimprovera all'idealismo l'errore di prendere come unità di misura delle cose, del reale e dell'irreale, "l'idiosincrasia antropocentrica", vale a dire e con le sue parole: "Rendere assoluto qualcosa di condizionato" (Frammenti postumi, 1888/89, 14 [153]).
Il reale sarebbe per Nietzsche, appunto, qualcosa di condizionato, non un a-priori o una sostanza rispetto alla quale ciascuno è libero di manifestare ciò che gli pare. Se ciò che è condizionato è trasformato in assoluto allora si creano per Nietzsche quelle  condizioni per cui il mondo si dividerà in mondo "vero" e mondo "apparente". Ma senza questo presupposto della metamorfosi del condizionato (e non relativo) in assoluto, nessun mondo è divisibile in vero e falso.
Ora la questione se "esistano fatti che non possono essere ridotti a interpretazioni" è tutta una questione interna al linguaggio e risale a Platone quando opera una scissione nel significato dell'ermeneia (l'arte dell'inventare e dello spiegare): nel Politico Platone propone una nuova formulazione del termine facendola ancorare al valore dell'ingiunzione: ossequiare i potenti e i principi. D'altra parte l'erma era in arte il busto che ratificava la potenza dei principi. Nel Fedro, ad esempio, Platone fa derivare l'invenzione della parola dal mito egiziano legato a Teut, il sacerdote inventore della parola. L'ermeneutica ha una lunga storia e negli anni Sessanta è stato Gadamer a presentarla come una teoria generale della retorica. L'arte dell'interpretazione – a cui sono subordinati i significati dei fatti – è un'arte che indirizza ad un significato, mentre Nietzsche intendeva scardinare questo processo lineare, unidirezionale, dal momento che i fatti della vita, come osservava Benjamin, non si presentano come una sfinge da interpretare, ma spesso come forme anacronistiche, frammenti sparsi, "immagini dialettiche" che sussistono in virtù di una molteplicità di storie. È questa molteplicità che viene volgarmente assimilata all'idea di "interpretazione". Nulla è più distante dalla molteplicità del reale di questa balorda idea secondo cui i fatti della vita sono riducibili a mere interpretazioni, anzi non esiterebbero senza queste! Questa molteplicità nel linguaggio di Nietzsche è racchiusa nella parola "caos". Il caos segna il fallimento senza appello dell'interpretazione. È per questo che Deleuze ha ripreso da Nietzsche questa parola dandogli un nuovo vigore che è quello della nostra contemporaneità. Le sue "linee di fuga" sono il taglio che si opera nell'immanenza del caos. Sono quel "prospettivismo" che Nietzsche aveva  auspicato: al correlato fenomenico corrisponde una presa di posizione – attenzione non una "libera interpretazione" – che convoglierebbe ad un'unica visione le esperienze. E le prese di posizione sono scelte di vita, dunque anche scelte politiche, etiche, estetiche. Nietzsche amò Wagner da giovane ma subito dopo lo ripudiò. Anche l'arte impone le sue scelte. Il prospettivismo di Nietzsche, ripreso da Deleuze, se da un lato legge il mondo come un "testo", dall'altro oppone a questo testo una molteplicità di attraversamenti che non possono essere ridotti all'unicità, ad una interpretazione unica e assoluta. La molteplicità dunque non è la dissoluzione dei fatti ma la loro salvaguardia da una visione organica e compatta, che in genere coincide con quella del potere. L'apparente "pluralità" postmodernista altro non è che mero gioco di definizioni allo stesso modo di come accade nel commercio quando si tratta di diversificare il prodotto. E non ha nulla a che vedere con l'idea di molteplicità di Nietzsche e di Deleuze, giusto per fare due nomi esemplari. Insomma la Storia, come i fatti della vita, non ha sintesi come voleva Hegel e appena ieri il postmodernismo col suo gioco di assemblaggi stilistici che tanto somigliano alle merci esposte nei negozi: tutti assemblati in un'unica vetrina col cartellino del prezzo sotto. Nulla di più lontano da Nietzsche!
Inoltre se dovessimo prendere alla lettera l'assunto secondo cui "tutto è interpretabile", allora cosa fare di fronte all'inenarrabile della Shoah? È un fatto o un'interpretazione? Ecco, in questa soglia delicata s'insinua il revisionismo e tutte le porcherie teoriche che si sovrappongono ai fatti della vita, alle esperienze del dolore, alle miserie, triturando tutto e rimescolando questi fatti in funzione dell'opinione che com'è noto in televisione non si nega a nessuno se fa spettacolo.
Ad esempio se fosse vivo Calderon de la Barca anziché dire che la "vita è sogno" probabilmente direbbe che la "vita è uno schermo"; ma qui "vita" significa la presa in carico del quotidiano da parte dell'immagine, da parte dell'immateriale. Per alcuni, ad esempio, il mezzo (televisione, immagini, il Web) ha preso il posto del quotidiano. Se ritorniamo a Nietzsche dobbiamo renderci conto che il quotidiano è ciò che più di ogni altra cosa è condizionabile. Occorre dunque un lavoro di lettura critica che non significa affatto interpretazione.
Ora, la difesa dei fatti contro l'interpretazione senza fine è sintomatica del revival collettivo nel momento del suo bilancio post-postmodernista. Ma non arriva troppo tardi? Quanti anni, oltre trenta, per rendersi conto dell'impostura della controriforma neoliberale di cui il postmodernismo più becero (non esiste un postmodernismo come un blocco unitario) ha fornito la cornice estetica! Perché se nella modernità i contrari erano inconciliabili, con la postmodernità i contrari si scambiavano le parti. La politica ne è l'esempio più manifesto. Che fare dopo che tutto è sfasciato, pensiero compreso? C'è un'ideuccia o un pensierino – "forte" o "debole" – a cui si affiderebbe la propria vita? Che strano, oggi il filosofo somiglia sempre più al giornalista: crea l'evento.
Bisognava opporsi al postmodernismo quando questo costituiva ancora l'immagine-modello di un'intera società. Dopo le torri gemelle – giusto per indicare una frattura registrata mondialmente – è troppo tardi.
Eppure, che certi aspetti del postmodernismo fossero in qualche modo e nelle sue forme più spettacolari un bluff nella misura in cui erano avamposti culturali o estetici del neoliberismo non è una cosa recente. Già negli anni Novanta dalla critica d'arte alla filosofia non sono mancate  prese di distanza da questi accessi/eccessi che tanto avevano a che fare con una diversificazione del prodotto commerciale.
È sufficiente rileggere quel che ha detto Derrida, filosofo spesso associato, suo malgrado, alla ventata filosofica postmodernista, il quale di ritorno dalla Polonia nel dicembre del 1997 dice: "In questo paese estremamente cattolico, affrancatosi adesso dal controllo sovietico, ciò che ossessiona l'ambiente della cultura, per cosi dire, è ciò che chiamano con tutta tranquillità il 'postmodernismo' (all'interno del quale includono spesso, in maniera confusa, la 'decostruzione'). Chiamano così tutto quello che non è legato al comunismo che naturalmente rigettano... Tutto ciò sarebbe finito per far posto al 'postmodernismo', ovvero a un qualcosa che, legato d'altronde al mercato o al selvaggio capitalismo, va a distruggere al tempo stesso l'ideale dell'Illuminismo". Negli stessi anni sul versante della critica d'arte le prese di distanza non si fanno attendere. Nel 1996 il critico d'arte della prestigiosa rivista October Hal Foster faceva propria l'espressione del giornalista Hilton Kramer secondo cui il "postmodernismo" era: "Una vendetta dei filistei [una felice definizione], il volgare kitsch degli agenti pubblicitari, delle classi basse e dei subalterni, una nuova barbarie che doveva essere evitata ad ogni costo, come il multiculturalismo".
Foster si lamentava del fatto che il postmodernismo, che originariamente sembrava schierato dalla parte antireazionaria, è finito con l'essere espressione della reazione, e conclude: "Trattato come una moda alla fine il postmodernismo è diventato demodè".
Qualche anno più avanti (2003) il filosofo dell'arte Yves Michaud scrive: "Gli anni Novanta finiscono di consumare le ambiguità della situazione postmoderna. Il paesaggio dell'arte è considerevolmente cambiato: l'arte è entrata in un'epoca di post-postmodernismo, che in realtà non è più dopo niente".
Le citazioni o le prese di distanza dal postmodernismo all'interno del quale sono circolate le ventate relativiste, multiculturaliste e oscuramente revisioniste, non sono isolate, tuttavia in alcuni ambienti si continua a far finta di niente. Come se si vivesse teoricamente e realmente in una specie di "sciopero degli eventi", come si espresse Baudrillard all'inizio degli anni Novanta, a dispetto del fatto che di "eventi" questi ultimi anni possono riempire i magazzini della storia.
Ma già fin dal 1983, nell'ambito della storia dell'arte c’era chi aveva colto la portata storicista del postmodernismo. Hans Belting, senza fare sconti a nessuno, così si esprimeva: "Per il momento è difficile poter distinguere un nuovo stato di consapevolezza delle espressioni e applicazioni alla moda particolarmente odiosi ai difensori del modernismo. In realtà si è circondati da molto kitsch e nostalgia".
E nel 2000 Zizek scriverà che il multiculturalismo (variante "postcoloniale" e interdisciplinare del postmodernismo): "È una forma di razzismo rinnegato, invertito, autoreferenziale [...]. Il multiculturalismo è un razzismo che svuota la propria posizione di ogni contenuto positivo [...]. Il rispetto multiculturalista della specificità dell'altro è il modo stesso in cui esso asserisce la propria superiorità". Mentre Badiou da tempo fa notare quanto il revisionismo incalzante degli ultimi decenni sia stato in stretta relazione con l'affermazione totalitaria del capitalismo di cui la cornice estetica è stato il postmodernismo, dove i migliori vengono selezionati a partire dal principio della proprietà ratificato dal "cretinismo parlamentare". In ambito sociologico Bauman ha assunto il postmodernismo quale scenario "liquido" del presente, come un "fatto" contemporaneo, ma da trent'anni non smette di fargli il contropelo. Fermiamoci qui, la lista sarebbe lunga.
Viene da chiedersi: in quale letto dormivano quei filosofi che adesso aborriscono il postmodernismo e che in tempi bui non hanno speso una parola contro tutto lo  sciocchezzaio che esso veicolava, e che oggi rivela il suo volto più che cinico catastrofico (e questo si poteva prevedere) e reale (si evitava di saperlo), vale a dire il capitalismo dell'accumulazione selvaggia di cui parlava Marx, autore che in tutti questi anni si è avuto premura di non citare mai? Diventando, suo malgrado, uno "spettro" quasi inaccessibile, poiché sottoposto alla legge del nuovo delle mode teoriche. Nel 2006 Peter Sloterdijk a proposito di questa rimozione scriverà: "Stranamente lo studio di questi due autori [Marx e Lenin] è quasi impossibile, non perché i testi siano inaccessibili, ma perché il muro dello spirito del tempo sbarra in modo così massiccio l'accesso a essi che anche il più longanime può difficilmente sperare di superarlo da solo". Naturalmente qui non si tratta del Marx delle scuole filosofiche che lo hanno ridotto a stantie brodaglie accademiche, ma dell'attualità sempre ineludibile di un pensiero che al modo di quello di Nietzsche continua a dirci qualcosa sulle dinamiche del capitalismo e sulle sue facoltà di modificare gli assetti culturali – quelli economici sono ovvi – di un sistema. D'altra parte: quanto tempo c'è voluto per prendere visione del fatto che all'interno di questa cornice estetica, multiculturalista e relativista di fatto agivano forze il cui volto oggi ci è fatalmente noto? Vale a dire il capitalismo paramafioso che ha ridotto l'economia a un sistema ricattatorio sancito dalle politiche parlamentari degli stati "democratici".
La fame è reale e non ha bisogno di una teoria della conoscenza per dire se c'è o non c'è. Si patisce come un fatto brutale. L'idea di fame che gli si può addossare per soddisfare esigenze teoretiche o gnoseologiche un po' meno. Qui non si tratta di un "mal d'essere" (problema ontologico), ma di un mal d'esistere (problema etico). Come disse uno scampato a Buchenwald: "Dire una bugia ai nazisti equivaleva a dire la verità". Ecco una concezione della "verità" che non ha bisogno di giustificazioni ontologiche o di qualsiasi altro genere. La verità come prova di sottrazione al male assoluto, a qualunque costo.
Questa è una differenza che si dimentica troppo facilmente. Brecht in un suo appunto dei diari annota: "Prima la pancia poi la morale", ratificando in forma lapidaria la sua presa di posizione verso un realismo della necessità.

Nell'ambito dell'arte contemporanea la proliferazione della produzione, il moltiplicarsi delle definizioni e la crisi della rappresentazione hanno in definitiva favorito le logiche di mercato, la spettacolarizzazione e l'insipida retorica di una trasgressione svuotata di senso. Come navigare in queste acque? Affidandosi alla corrente o tracciando con cura la rotta?
Si potrebbe dire che oggi è proprio la mancanza di una definizione univoca a stabilire la definizione dell'arte. La pluralità delle pratiche artistiche non consente un gergo tramite cui tutti possano parlare la stessa lingua. È qui che la critica trova uno degli ostacoli più forti. Ciò che va bene per un'opera o un blocco di opere non va bene per altre. La mobilità dell'arte esige altrettanta mobilità della critica, che spesso trova le scorciatoie in un gergo giornalistico che va bene per tutto. Spesso una certa critica vuole essere a portata di mano, come la comunicazione televisiva, e così finisce per essere chiacchiera da rotocalco, buona per soddisfare la curiosità. Ma è ancora "critica"?
La crisi della rappresentazione è il sintomo del passaggio da una condizione dello sguardo a un'altra. La rappresentazione esisteva nel diaframma che s'interponeva fra soggetto e oggetto. Oggi la presenza quasi totalitaria delle immagini ha spostato la dimensione percettiva anche dell'arte. E non è un caso se molti storici dell'arte sono sempre più disposti a parlare di storia delle immagini, antropologia dell'immagine, ecc. Da Hans Belting a Didi-Huberman, da Vilem Flusser a David Freedberg, da Peter Burke a Bellour fino a Debray, ecc.
L'immagine è il nostro orizzonte speculativo, nel senso che l'immagine dei luoghi e delle cose è succeduta ai luoghi dell'immagine (la rappresentazione) come il teatro o il cinema. La città, gli ambienti, prima ancora di essere luoghi, si fanno sempre più somigliare a immagini, che contribuiscono a determinare quei "non-luoghi" così ben descritti da Marc Augé. Là dove tutto è immagine niente è più "luogo" e dunque non c'è più una distanza.
L'immagine-realtà si è sostituita alla realtà dell'immagine, vale a dire alla rappresentazione.
Non viviamo più in un mondo di "apparenze", ma come dice Virilio siamo immersi in un universo di "transapparenze", dove le immagini mutano in continuazione, sono sostituibili all'infinito, e dunque non c'è tempo reale per lo sguardo di fermare un flusso di immagini, di poterle metabolizzare e cercare di ricavare un pensiero o una "teoria". Il tempo della presa di vista, che esigeva una temporalità ben specifica, è soppiantato dall'istantaneità delle info-immagini che viaggiano a velocità siderale. Dall'ordine del successivo si è passati all'ordine del simultaneo e questo genera anche nella teoria un trauma nella misura in cui l'elaborazione di un concetto o di un pensiero richiede un certo tempo. Vi è in atto una schizofrenia fra la velocità e la quantità delle manifestazioni artistiche e delle immagini che esse veicolano e un pensiero in grado di coagulare questo inarrestabile processo (o processione) di immagini fluttuanti, liquide.
Questo problema pone una domanda decisiva: in che misura le immagini veicolano substrati di ideologia? Siamo sicuri che la transapparenza delle immagini sia estranea a processi di alienazione e di formazioni ideologiche?
Ora, è indubbio che la storia di ogni società è anche storia delle immagini. Ieri: maschere, icone, specchi. Oggi: spettacoli, simulacri, pubblicità, virulenza delle immagini in ogni caso. Le immagini in generale sono fuochi nevralgici in cui si cristallizzano le forme di credenza e le ideologie che hanno caratterizzato le società. Dal momento che le immagini sono produzioni dell'uomo, allora esse sono passibili di una verifica sullo statuto della loro esistenza.
Perché l'ideologia è un insieme di rappresentazioni – uso qui il termine rappresentazione in chiave antropologica – sostanzialmente coerente di valori, credenze, miti, significati, attraverso cui gli uomini esprimono il loro rapporto con le condizioni d'esistenza. Attraverso l'ideologia, gli uomini sono inevitabilmente coinvolti in un rapporto immaginario che veicola aspetti conformisti, riformisti, conservatori, rivoluzionari, cinici, ecc. E l'arte non è indenne da questo processo.
Storicamente la funzione sociale dell'ideologia, diversamente dalla scienza, è stata quella di nascondere le contraddizioni reali, omogeneizzando sul piano dell'immagine le asperità e la violenza del sistema stesso. Occorre osservare che l'ideologia dell'assenza di ideologia del nostro tempo, è una condizione che corrisponde a forme di rappresentazione collettiva o di un'intera società. Essa supera i limiti dell'immagine individuale e investe interi strati della popolazione, trasversalmente.
È in tale  scenario che il culto del frivolo e del banale trovano la loro incarnazione spettacolare nelle opere di molta arte "contemporanea". Un culto, beninteso, in una società dove non c'è più nulla da aggiungere alle trasgressioni del passato, poiché essa ha assunto una connotazione reazionaria. Perché la trasgressione e i suoi sinonimi – l'estremo, l'ironia, il kitsch intenzionale – in un mondo dove essa è la bandiera dell'economia e dell'impostura politica del nostro tempo, non è che canone, norma, credo ufficiale propagato dai media a dosi omeopatiche e dal mondo dello spettacolo. In altre parole è una forma di distrazione e di dissuasione di massa. Il male, il negativo, che fino al recente passato venivano associati alla trasgressione, sono stati neutralizzati.
C'è un'altra realtà del negativo? C'è un altro spazio per la radicalità dell'esperienza? Ipotesi: il kitsch, l'estremo, l'ironia e i suoi derivati – il banale in tutti i casi – hanno preso il posto che un tempo aveva la dimensione normativa del bello. Oggi, c'è una diffusa pratica che sotto il nome di "ironia" e di "trasgressione" o di altri termini affini, tenta – riuscendovi spesso – di attaccare e neutralizzare tutti quei progetti ed esperimenti della modernità (incompiuta secondo Habermas, morta per altri) che dopo la caduta del muro di Berlino, vengono costantemente reduplicati, simulati, standardizzati, stereotipati, ridotti a luogo comune, infine banalizzati.
Da oltre un ventennio è in corso non solo nella politica e nell'economia – nell'economia soprattutto – una feroce riconversione della realtà a modelli assolutisti del governo del mondo, ma anche nel mondo dell'arte, poiché la parola arte negli ultimi decenni è sinonimo di comunicazione di massa.
Le mitologie del banale che accompagnano molte opere hanno vinto sull'idea di alterità dell'arte.
Si tratta, praticamente, non della fine dello shock, dell'estremo, dell'ironia in quanto tali, ma di uno spostamento decisivo del bersaglio di questa aggressione: da Manet a Mallarmé, da Dada ai surrealisti fino alle seconde avanguardie degli anni Sessanta e Settanta, erano tutte le metafisiche totalitarie e mercantili dell'arte che venivano aggredite e messe in gioco, col postmodernismo queste stesse figure della modernità sono diventate il bersaglio, lo scalpo da conquistare e consegnare all'ordine ideologico del nuovo impero.
La stessa "libertà" degli artisti è stata inglobata nella "libertà di opinione", mentre, sotto i nostri occhi, resta incerto se vi sia ancora una "libertà di verità" dell'arte.
Negli anni Venti del secolo scorso (1926) Brancusi non era "libero" di portare una scultura astratta negli Stati Uniti e subì un processo (si trattava del celebre Uccello nello spazio), oggi l'arte è "libera" da tutto e da tutti, ma servilmente innocua e soggetta alle promozioni dell'estremo e dello shock funzionale al voyeurismo populista. Quanto alla "critica", anch'essa ha negoziato il proprio statuto d'esistenza divenendo spesso vuota esegesi o astratta agiografia, poiché essa si muove fuori dalle strutture della storia data per defunta da ideologie decisioniste che fanno da corollario al postmodernismo.
Tutto ciò non è affatto strano. Ha una storia o una genealogia: alla fine delle vecchie ideologie della modernità che inglobavano l'arte come momento di rovesciamento del sistema sociale, si è sostituita l'ideologia a senso unico dello spettacolo del banale. L'arte moderna nata con i suoi poteri di negazione dell'impero del bello e dell'accademismo, muore per il ritorno dei suoi nemici sotto forme inedite.
La ribellione è diventata formula, la critica cronaca, la trasgressione vuoto rituale. La negazione ha cessato di essere creatrice. Non è l'arte che muore, ma il rapporto dialettico tra arte e società implicito nell'arte moderna. Questa è l'illusione della fine dell'arte. Perché con il pretesto di scioccare o di sovvertire per sovvertire, le opere d'arte sono diventate conformiste. L'arte moderna metteva in gioco procedure di differenza, l'arte postmoderna, postironica, postumana (come chiamarla?) mette in gioco procedure di indifferenza quale ultima fase del feticismo culturale.
Nel feticismo estremo dell'arte d'oggi non c'è più alcuna gerarchia dei valori, né storia, e ciò può esser un bene. L'opera banale, l'opera kitsch, l'opera scioccante, sfugge a ogni differenza: è pura letteralità. Incarna letteralmente il fantasma. Un'indifferenza che non viene dalla negazione – la negazione in fondo è ancora un valore, incarna l'opposizione – ma un'indifferenza che viene dall'astrazione feticistica. È un'indifferenza che passa per la fascinazione della violenza, dell'estremo, dello shock, che ratifica questa violenza gratuita, che è la violenza dei vincitori della storia. Quelli che possono permettersi il lusso di dire che la storia è finita. In altre parole è la fascinazione del banale.
Contro tutto ciò occorre rivitalizzare il pensiero critico così vituperato da certa "critica" giornalistica. Occorre fare scelte di posizione. Saper rifiutare il banale, prenderlo per quello che è: mera ideologia. Mezzo di distrazione di massa. E se è il caso non dare spazio a queste realtà che hanno monopolizzato lo spazio della critica d'arte e dell'immaginario.
C'è ben altro nell'arte. Occorre saper guardare. Non ci sono ricette. Ma lo sciocchezzaio è ben visibile. Che almeno questo gesto di rifiuto del banale sia esplicitato. Che venga fuori.
Non c'è più nulla da negoziare con l'universo del banale, questo immaginario in stile Walt Disney permanente che ha colonizzato il senso dell'opera schiavizzandone la potenza eversiva.
Con Debord penso che l'arte o c'è o non c'è. Non esiste un'opera che media la comunicazione per piacere o per strizzare l'occhio con un fare "ironico", ma che di fatto è un'ironia sterile, conformista, imbecille i cui rappresentanti oggi sono campioni dell'arte contemporanea.

Se la vita impone scelte e prese di posizione, l'arte sfugge alle identificazioni. Partendo dal presupposto che i criteri di gusto sono sempre soggettivi e che il valore di un'opera d'arte non è mai universale, è possibile una riflessione sull'utilità del giudizio che non imbocchi la strada pericolosa del moralismo o del feticismo?
Dobbiamo partire dal presupposto che l'arte è sempre arte di una determinata società. Il gusto e l'opera sono inscritti in essa. Una società che ha fatto del gusto una faccenda di "distinzione", come ha dimostrato Bourdieu, è una società basata su valori gerarchici. Tutto l'Ottocento era cosi. Il Novecento ha rotto il vaso del "buon gusto" e ha prodotto opere che vanno in una direzione controcorrente rispetto all'idea di gusto nata con la nascita dell'estetica come disciplina filosofica. La parola "gusto" è dialettica. Al gusto per le cose "belle" fa da contraltare il "disgusto" per le cose "brutte". Da questo punto di vista negli anni Novanta del secolo scorso e dopo la mostra Post Human il laido, l'abiezione, la scotofilia, la ricerca delle reliquie, ecc. sono diventati norma. Il disgusto, dice Bourdieu efficacemente, è l'esperienza paradossale del godimento estorto con la violenza. E per questo genere di godimento è stato preparato anche un pubblico, numeroso, sollecitato dalla domanda dello shock, che è una domanda di voyeurismo generalizzato e più in là di feticismo radicale. Di fronte a queste opere non ha più senso il gusto o il disgusto. Ma entra in gioco l'antropologia delle emozioni. La ricerca dello shock nasce dalla penuria di esperienza che la nostra società prescrive.
Certo è vero che il "gusto" è soggettivo, ma è altrettanto vero che quel che vi è di "soggettivo" in un individuo è mediato come le etichette dei prezzi che corredano le merci. In altre parole dovremmo capire quanta merce c'è in noi e in quale direzione ci conduce, senza che noi ne siamo consapevoli. Il gusto allora – ma anche certe scelte di ordine culturale – diventa una questione di aderenza a questo substrato che ogni individuo ha immagazzinato e lo ha in qualche modo preparato a determinate "scelte" di gusto.
Il trionfo del kitsch degli ultimi anni, ad esempio, è il trionfo della merce che c'è in noi, altrimenti non si spiegherebbe il successo e la benevolenza con la quale esso è tollerato o esposto come trofeo nelle gallerie pubbliche e private. Di questa merce alcuni artisti hanno fatto un capitale. In fondo cos'è il kitsch se non uno pseudo-evento? Negli anni Sessanta valeva la prescrizione ribelle "vietato vietare". Oggi vale la prescrizione "siate trasgressivi" o banali. È un'ingiunzione caldeggiata da sedicenti "critici", "curatori" in cerca di avventure o di successo, assoldati all'industria dell'intrattenimento. Il voyeurismo è un'arte di intrattenimento: sollecita le emozioni così come si sollecita un portatore di handicap che non è in grado di muoversi. Ecco perché quest'arte è così lontana dall'essere ribelle o critica. È l'arte dello shock in differita che ci introduce a ben altri shock come i crack economici in diretta.
Il kitsch è in qualche modo la nostra ontologia sociale a cui corrisponde una società cinica e spietata come la nostra. È il ghigno che ci accompagna col sorriso verso la catastrofe sociale. È una specie di paraurti mimico del fallimento del soggetto in una società di gangster, mafiosi, guerrafondai, faccendieri, bigotti, paranoici, ipocriti, populisti, razzisti (mai cosi numerosi dopo la Shoah)... C'è da stare allegri col kitsch!
Se i Puppy monumentali di Jeff Koons, come le bambole di Mariko Mori o i feticci tanatofili di un Gober o di un Hirst, per citarne solo alcuni, trionfano ovunque e soprattutto nei "templi" dell'arte, è perché c'è la replica "contemporanea" di una corsa in massa all'annientamento del valore estetico. Bisogna continuare a sterminare il valore estetico, già sterminato dopo la stagione pop. La banalizzazione, dunque, non è una pratica che guarda a un fine, essa è senza verità e senza ragione. Si ha un bel far finta di nulla di fronte al suo cospetto, tuttavia essa plasma le coscienze e le azioni degli uomini più di quanto questi credano di tenerla a distanza. Non avendo né coscienza né inconscio il banale diviene un'incognita che annulla qualsiasi inferenza di significato: forse significano qualcosa i Puppy di Koons o i gadget di altri artisti definiti ironici?
Tutti interrogano quest'arte banale per costituzione, la espongono, la celebrano, mai in quanto niente, sempre per farla parlare, per attribuirgli un valore che le opere stesse smentiscono. E questo risponde a una logica interna al capitalismo. Per un lungo periodo al capitale era sufficiente produrre merci, il consumo era automatico. Adesso occorre produrre i consumatori, occorre, dunque, produrre effetti speciali travestiti di significato spendibili sul mercato culturale. Senza questa domanda di senso, sostenuta dall'"ironia", dalla "provocazione" e da altre parole affini, e divenuta decisiva per la circolazione del senso, il potere economico che sta a monte dell'industria culturale sarebbe anch'esso un simulacro senza prospettiva.
Tutto questo sciocchezzaio è lì per nascondere che l'arte non ha altra funzione che quella di pubblicizzare la banalità che plasma la quotidianità. In quest'arte non si tratta più di rappresentare una realtà falsa o ipocrita, ma di celare attraverso l'evidenza imbecille della sua apparizione, il fatto che non c'è alcuna realtà da doppiare o da rappresentare. Perché, forse, questa presunta realtà non è mai esistita, se non come alibi per la rappresentazione. Quest'arte è fatta di puri segni in cui non vi è più traccia del vero e del falso, del bello e del brutto. Ruota come satellizzata attorno a un vuoto di cui cerca di dissimulare l'evidenza.
È quello che qualche anno fa si poteva vedere a una mostra di Louise Lawler, dove l'opera non contava più niente ed era lo spazio vuoto con le didascalie, i nomi dei curatori e dei collezionisti che costituivano l'unica "realtà" della mostra. Come dire: il "soggetto" dell'arte non è più nell'arte ma si è dileguato nel processo di circolazione dell'opera. Non restano che i segni simulati di questo processo. Cioè: niente.
Un esempio eclatante di questa desertificazione estetica, si ha nella virulenza con cui molti artisti (non tutti fortunatamente) ripropongono la scena della crocifissione. Nitsch e le sue sanguinarie crocifissioni di animali; Robert Gober e il suo Cristo acefalo con i capezzoli grondanti d'acqua; Damien Hirst con la sua "resurrezione" – uno scheletro in posa da crocifisso; Cattelan che crocifigge una donna; qualcun altro invece crocifigge una rana; Vik Muniz e il suo San Tommaso incredulo che ficca instancabilmente il dito nella ferita di Cristo; Marc Quinn col suo "angelo", cioè uno scheletrino inginocchiato con le mani in posa di preghiera; Marina Abramovic e la sua "Pietà" – quadro vivente della Pietà di Michelangelo; Andrès Serrano e le sue "crocifissioni"; Mark Wallinger e il suo Ecce Homo, un busto di giovane col filo spinato in testa... Effetto virale di questa stagione che usa e abusa del corpo di Cristo fino all'asfissia.
L'immagine di Cristo si propaga nell'immaginario degli artisti al modo di un'irrefrenabile nube tossica. La religione si disincarna, si mondanizza – papi, santi e madonne si possono fruire nei calendari, ecc. – mentre l'arte si reincarna nella pura fisicità di brandelli di corpo e negli oggetti, divorando i resti dei feticci abbandonati dalla religione cattolica. Schiere di fedeli stentano ormai a credere agli effetti magici del sangue raggrumato, delle ferite dei santi, dei ciuffi di capelli delle sante, dei frammenti di ossa, mentre gli artisti ne consumano gli scarti simbolici nella speranza di trovarvi un residuo di significato.
L'uso così massiccio della mortificazione del corpo, che trova il suo modello esemplare  nell'immagine del Cristo in croce, procede da una passione di morte: gusto per la putrefazione, come accade in Nebreda con i suoi autoritratti sovraccarichi di escrementi e di offese d'ogni specie, in Von Hagens con le sue "anatomie" – squartamenti di cadaveri riformulati in pose hollywoodiane, in tutte le riprese di S. Sebastiano eterna vittima delle frecce, ecc. Insomma, non c'è pace per il corpo. Su tale effetto serra cristologico l'attrazione per il cadavere ha un posto speciale: diviene un fatto in sé e non un invito a meditare sul senso dell'esistenza così come è accaduto per il barocco.
"Dio è morto", secondo Nietzsche, tuttavia il suo spettro aleggia sull'immaginario collettivo sotto forma di residuo di morte perseguito da molti artisti, condizione che gli ha tolto la possibilità di cancellare le sue tracce, di farci vivere l'occasione della glorificazione del silenzio, il silenzio di Dio. Cristo stesso non sa quanto la sua morte sia divenuta un oggetto di culto, una curiosità morbosa che alimenta tentazioni mortifere d'ogni specie, ben lontana dallo snobismo integrale dell'assenza. Ma, in fondo, Cristo crocifisso è l'originale, il prototipo, il modello insuperato di autodafé che ha segnato la nostra cultura, tutti gli altri dopo di lui sono dei replicanti o dei predatori della sua immagine crocifissa.
Di segno opposto, ma ugualmente sacrificale, il culto del corpo propagandato dalle immagini pubblicitarie, poiché promettono una felicità irraggiungibile, un ideale di bellezza sintetico, astratto, umanamente impossibile, che ratifica il fatto che esso è e resta un oggetto da cui si può trarre profitto. La massiccia esaltazione della vitalità del corpo oggi – seni e labbra siliconati, lifting facciali, body-building, ecc. – coincide col suo sacrificio e conferma l'intuizione di Freud secondo cui il corpo resta per l'uomo qualcosa da perfezionare (o redimere) e che va rifiutato in nome di un modello superiore – la redenzione, l'immagine pubblicitaria delle carni virginali dell'adolescente o dell'uomo ossessionato dal raggiungimento di uno stato di virilità integrale del corpo.
Allo stesso modo tale propensione al profitto ispira l'abbondante esplosione cristologica che salva l'opera dal nulla, dal rischio fatale che potrebbe non avere più alcun senso; ricorrendo allo sfruttamento intensivo del corpo di Cristo e di tutte le sue varianti, accede al significato e dunque l'opera può essere spesa sul mercato dell'arte. Il ricorso ossessivo alle immagini sacrificali non ha altra funzione che quella di operare un lifting nella carne rammollita dell'arte, dandogli un'apparenza simbolica di senso, un'immagine garantita dalla tradizione e accettabile universalmente. Si potrebbe dire che nelle opere a effetto serra cristologico, il prototipo di Cristo in croce sta alla ricerca del significato (o del simbolo) così come il corpo astratto delle modelle sta al corpo reale delle donne: un'icona irraggiungibile se non al prezzo della propria morte, com'è accaduto a quella fotomodella brasiliana morta nel 2007 di anoressia per inseguire la perfezione mortale dell'immagine.
Cosa fare di fronte a questo scenario nichilista dell'arte? Negli anni di Post Human Aldo Nove pubblicò un libro fatto di assurdità stratosferiche – Superwoobinda. Un libro-delirio, un libro tanto assurdo nel linguaggio quanto reale nelle situazioni che narrava. Volutamente sgrammaticato fino al non senso. Un libro inespressivo fino al "grado zero" della lingua, come si espresse Tommaso Ottonieri. Un libro che mostrava il deterioramento del linguaggio fagocitato dalla merce, dalla pubblicità, dallo schermo. Tuttavia quel libro diceva una cosa terribilmente seria che Sartre cinquant'anni fa espresse con queste parole: "Non ciò che hanno fatto di noi, ma ciò che noi facciamo di ciò che hanno fatto di noi"! Ecco Superwoobinda è stato questo tentativo di vomitare la merce che c'è in noi, mostrando d'un colpo gli effetti di una realtà che non andava riempita di effetti narrativi, di destrezze linguistiche, ma brutalmente esposta come un delirio: il delirio della nostra società di cui oggi siamo tutti testimoni oculari. È stato un libro "realistico" ante litteram, se si pensa quanto questa parola oggi sia così ricercata. Occorre, allora, distinguere il delirio prodotto dal reale e il delirio somministrato dal capitale. Ecco questa è una differenza decisiva per ogni lettura critica del presente e in questo caso delle opere d'arte e del loro significato sociale. Il rapporto fra capitale e linguaggio è decisivo per comprendere non soltanto i fenomeni relativi all'economia, ma anche per capire i fenomeni della cultura: quanta merce c'è in noi e dunque nelle opere? Ecco un punto di partenza. A meno che non siamo felici così come siamo. Ma non mi pare che si stia tanto bene.


Marcello Faletra è pittore, studioso di arte moderna e contemporanea e di filosofia. Insegna Fenomenologia dell'immagine all'Accademia di Belle Arti di Palermo. Ha tenuto seminari e conferenze presso fondazioni culturali e università italiane e straniere; ha curato mostre per enti pubblici e privati. Collabora a diverse riviste specializzate ed è redattore del periodico di arte e filosofia Cyberzone. Nel 2009 ha pubblicato per le Edizioni Solfanelli il libro Dissonanze del tempo. Elementi di archeologia dell'arte contemporanea.