domenica 24 febbraio 2013

Tre domande a Sarenco

La poesia visiva è stata e continua a essere solo trasgressione e sovvertimento dei codici, oppure, dopo più di cinquant'anni di vita, è riuscita a tracciare un percorso riconoscibile di rinnovamento dei linguaggi, producendo tangibili risultati nella trasformazione delle modalità comunicative? In altre parole, si è limitata a ribaltare le regole o ha efficacemente proposto alternative?
Come diceva il mio amico Gianni Bertini, con cui e con Paul De Vree ho pubblicato i primi dodici numeri di Lotta poetica: "La Poesia Visiva è la poesia dei vivi". Questo significa ovviamente che il poeta non è più seduto a tavolino al lume di candela scrivendo versi alla luna o sonetti all'amata che non gliela dava mai. Mallarmé e Marinetti hanno mostrato che la poesia poteva tranquillamente uscire (ma anche rientrare) dalle righe del libro, righe molto spesso desuete e morte prima di essere pensate. Con la nascita delle avanguardie storiche, l'esplodere delle guerre, la poesia perde definitivamente il suo atteggiamento consolatorio. Come dice Majakovskij: "Io lancio il mio verso come una parola d'ordine e di lotta". La poesia passa dalla rassegnazione alla lotta, dalla reazione alla rivoluzione. La Poesia Visiva è un avvenimento rivoluzionario, sia per quanto riguarda la "polis" che per quanto riguarda il "liber". Non rispetta più codici e regole; da una parte è un movimento aristocratico (soprattutto per quanto riguarda la comprensione da parte del pubblico), dall'altra è un movimento rivoluzionario in quanto non accetta più i dati di fatto. È volgare, aggressiva, ironica, dolce, tenera, furba come una volpe. È soprattutto ladra: si impossessa di tutto senza chiedere permesso alla SIAE o alla storia dell'arte, è anarchica e rifiuta la burocrazia e gli agenti delle tasse.

La rivista Lotta poetica, uno tra i più longevi esperimenti editoriali dedicati alla ricerca verbo-visuale nel panorama artistico italiano, ha rappresentato a lungo un canale privilegiato per la diffusione delle esperienze delle avanguardie artistiche dei nostri anni Settanta. Nel contempo la pubblicazione, nata da un'idea sua e di Paul De Vree, rispondeva anche all'esigenza di un confronto culturale aperto e di una critica militante in grado di contrapporsi ai meccanismi consolidati del mercato dell'arte e ai canali tradizionali di produzione culturale. Potrebbe descrivere le tappe più significative di questo itinerario?
Lotta poetica nasce da una evidente necessità: poiché le importanti riviste patinate pubblicate dai grandi editori si rifiutano anche di prendere in considerazione il nuovo fenomeno, fermandosi al lavoro tardo ermetico dei Novissimi e del Gruppo 63, gli autori più battaglieri e indipendenti, per necessità, decidono di fondare le loro riviste, le loro case editrici, le loro gallerie d'arte, senza chiedere il permesso a nessuno. La distribuzione è postale e circola in tutto quel mondo dove ci sono poeti veri, lasciati ai margini eterni da un potere politico-culturale che nulla concede ai "diversi" e agli "intelligenti veri", non a quelli che fanno gli intelligenti per professione. La marginalità storica della Poesia Visiva e dei suoi autori più rilevanti è la loro salvezza. Naturalmente sono stati anni di povertà economica (e lo sono ancora) e di emarginazione culturale, ma sono stati anche anni di grande creatività, di grandi amicizie, di grandi lotte, tradimenti, rotture e riappacificazioni. Se possiamo grossolanamente accettare come data di nascita della Poesia Visiva il 1963, sono passati cinquant'anni e la Poesia Visiva è ancora viva. Nessun movimento d'avanguardia artistico-culturale nel mondo ha mai potuto avere una vita più longeva (e sembra che non sia ancora finita).

Multiculturalismo e ricerca nomade di un'identità sfuggente, nella tensione tra intime dimensioni locali e affollati universi globali, sono tematiche fortemente presenti nei suoi lavori più recenti. Come si intrecciano l'interesse per l'arte e la cultura africana e l'attitudine al viaggio e alla scoperta nel suo operare artistico?
Il poeta è un nomade e un esploratore di paesi e di linguaggi. Il poeta ama l'Africa e il Centro Asia e tutti i posti dove la cosiddetta cultura non è ancora stata inglobata dalla macchina schiacciasassi della contemporaneità macroeconomica e vigliacca. La poesia è anche e soprattutto la scoperta e la valorizzazione del mondo delle civiltà emergenti, tenute per troppi secoli in schiavitù. La vera cultura si trova solo nei tuguri delle puttane nigeriane e non nei salotti borghesi della Milano-bene. La verità è nel viaggio. La verità è il viaggio.


Sarenco è nato a Vobarno, in provincia di Brescia, nel 1945. Nel 1963 si avvicina alle ricerche poetico visuali e stringe i primi contatti con gli artisti del fiorentino Gruppo 70. Il suo contributo al movimento si contraddistingue per il tono graffiante e caustico con cui elabora testi epigrammatici che associa ad immagini di provenienza varia, dal mondo della comunicazione a quello dell'arte. Servendosi delle tecniche del collage, dell'assemblage o della tela emulsionata ottiene opere di forte impatto, che utilizza come strumento di lotta politica e culturale. Fin dai primi anni della sua militanza nel mondo artistico svolge un'intensa attività editoriale e organizzativa. Fonda riviste (Amodulo nel 1968 e Lotta poetica nel 1971, che uscirà sotto la direzione di Paul De Vree e Sarenco fino al 1987) e case editrici (Edizioni Amodulo nel 1969, SAR.MIC nel 1972, insieme a Eugenio Miccini, e Factotum Art nel 1977). A Brescia, Sarenco apre spazi espositivi (galleria Sincron nel 1967, galleria Amodulo nel 1970 e nel 1972 Studio Brescia) all'interno dei quali promuove il lavoro di numerosi poeti visivi italiani e internazionali. Nello stesso periodo, sempre a Brescia, partecipa anche attivamente alla programmazione della galleria Centro di Paolo Berardelli. Ha curato numerose mostre dedicate alle ricerche poetico visuali e concrete e ha avuto un ruolo determinate nella nascita e nello sviluppo dell'Archivio Denza di poesia visiva di Brescia, curando anche la prima esposizione dedicata alla collezione, tenutasi nel 1970. Dal 1982 Sarenco intraprende numerosi viaggi in Africa, che lo porteranno ad instaurare un legame profondo con questa terra, tanto da decidere di trasferirsi per un lungo periodo in Kenya e di dedicarsi con grande entusiasmo alla promozione dell'arte e della fotografia africana. Da questo momento in poi l'Africa diventa protagonista all'interno della sua produzione artistica: l'opera più emblematica di questo suo nuovo percorso è senza dubbio l'installazione La platea dell'Umanità, presentata alla Biennale di Venezia del 2001. Il lavoro è composto dall'assemblage di oltre trecento opere: dipinti, disegni, tavole incise, sculture di grandi dimensioni realizzate a Malindi, in Kenya, da artisti e artigiani locali. Personaggio senza dubbio eclettico Sarenco si dedica nel corso degli anni anche alla sperimentazione video e sonora; nei suoi lungometraggi riprende l'idea del collage montando, senza un apparente intento narrativo, scene di diversa ambientazione e tematica. Scrive il suo primo soggetto cinematografico nel 1968, girandolo poi nel 1984 con il titolo Collage. L'anno successivo viene invitato a presentare la pellicola al Festival del Cinema di Venezia. A questa ne seguono altre cinque: In attesa della terza guerra mondiale nel 1985, Benvenuto grande cinema nel 1987, Pagana nel 1988, Safari nel 1990 e Performance nel 1993.
(Il testo della biografia di Sarenco è tratto, con adattamenti, dal sito della Fondazione Berardelli: fondazioneberardelli.org)

Per approfondire:

domenica 3 febbraio 2013

C'è casta e casta...

La correlazione tra l'impoverimento qualitativo della produzione artistica e il trend liberista-relativista che semplifica e confonde i due piani, ben distinti, del mercato e dei processi creativi è per molti versi evidente. Di conseguenza, sarebbe opportuno evitare ogni sovrapposizione tra questioni legate alla commercializzazione dell'arte e riflessioni di carattere estetico o filosofico. Le considerazioni che seguono vanno quindi interpretate come spunti dal carattere essenzialmente socio-economico: non hanno la pretesa di indicare riferimenti etici, né vogliono in alcun modo abbozzare orientamenti normativi, ma solo suggerire l'idea che soluzioni politiche a portata di mano (ma a dire il vero decisamente impopolari presso l'artworld liberal-conservatore, che ha ancora fiducia nei miti dell'autoregolamentazione dei mercati e del laissez-faire) potrebbero dare una scossa ad un settore troppo spesso asfittico e svigorito.
Le prospettive di emancipazione dal sistema speculativo legato alla commercializzazione dei prodotti artistici (e culturali in genere), in questi tempi di crisi economica, vanno inquadrate in due possibili scenari, entrambi alternativi al mercato chiuso e autoreferenziale oggi dominante: deprofessionalizzazione o regolamentazione. Il primo è apocalittico, ovviamente. Il secondo passa per l'abbattimento di tutti i privilegi economici. Perché a un artista affermato o a un gallerista di successo (come anche a un calciatore, a una star della televisione o a un qualsiasi professionista) dovrebbe essere riservata la possibilità di lauti guadagni e, nel contempo, garantiti i privilegi fiscali derivanti dalla completa assenza di una tassazione veramente progressiva? Tutti sono pronti a lamentarsi dei costi della politica e dell'immoralità della "casta" dei parlamentari e degli amministratori locali. Perché non si riserva lo stesso trattamento a tutte le "caste", anche a quelle più popolari? Infrangere un circolo chiuso di privilegiati è il primo requisito per l'allargamento del pubblico. Un simile discorso non si adatta certo alle piccole gallerie che fanno enormi sacrifici per sopravvivere e sono spesso tentate dall'evasione o agli artisti emergenti e ai critici esordienti pagati in nero. Il loro comportamento non può che essere biasimato, ma spesso è un meccanismo di difesa dall'iniquità del sistema. Pochi galleristi, pochi artisti e pochi collezionisti tengono in piedi una macchina speculativa in grado di funzionare grazie a una rigorosissima selezione all'ingresso. Possono farlo perché il prelievo fiscale, in questo difficile momento, non si pone l'obiettivo, almeno in piccola parte, della redistribuzione. Tassare gli acquisti milionari, come anche tutte le rendite finanziarie, sulla base di principi differenti da quelli applicati per le piccole economie di produzione porterebbe vantaggi alla parte sana delle professionalità in campo culturale e artistico. Di conseguenza un pubblico più vasto si avvicinerebbe all'arte alla portata delle sue tasche (come accade nelle fiere "affordable" ormai piuttosto diffuse) con palesi effetti di democratizzazione. In un contesto del genere sarebbe poi meno inverosimile pretendere da tutti gli operatori la massima trasparenza sul piano fiscale.