lunedì 27 gennaio 2014

Tre domande a Gian Maria Tosatti

In una recente conversazione con Jannis Kounellis presso il Museo Hermann Nitsch a Napoli, per il ciclo di incontri da te curato La costruzione di una cosmologia vol. 1, riflettendo sul ruolo e sull'identità dell'artista, hai evocato una presunta circolarità tra momenti storici. Sostanzialmente dalle tue parole emerge un parallelismo tra il secondo dopoguerra e l'Italia contemporanea: l'elemento che accomuna due generazioni di artisti, quella di Kounellis e la tua, è il tentativo di ricostruire i ponti rotti del dialogo sociale. Quali sono, a tuo parere, le armi da impugnare in questa "guerra non combattuta" e in che modo gli artisti possono portare la battaglia sul campo della dialettica e del confronto?
La circolarità, o meglio la ciclicità, è un movimento proprio della Storia. È come se, sempre, sulla scacchiera del tempo ci fossero tutti gli elementi. Solo il loro ordine cambia. Per cui, non si può credere che dopo la guerra arrivi un periodo di pace. C'è sempre guerra, in un'altra regione del tempo, in un'altra regione dello spirito. E c'è pace durante la guerra, quando le linee del fronte sono lontane. Così, come ho ricordato assieme a Kounellis, il nostro dopoguerra è stata, in realtà, la seconda fase di una guerra. Lo testimonia tutta la letteratura italiana post-bellica, da Silone, Fenoglio, Cassola... Era una guerra diversa, che cambiava strumenti, passava dalle armi pesanti ad armi più sottili, come il conformismo, l'immemorialità, ma era ancora guerra e guerra cruda. E dopo gli anni Cinquanta che cosa è successo, mi chiederai. Dopo di allora siamo diventati stanchi della guerra, come diceva Eduardo De Filippo in Napoli milionaria. E così abbiamo fatto finta di non vederla più. Ma così abbiamo solo abolito la guardia e la guerra ha fatto il suo corso scavalcandoci. In principio, ha provocato degli anticorpi, come ogni infezione che inizia a prendere il sopravvento. Dunque, abbiamo avuto una reazione nel '68. Ne abbiamo avuta una seconda, ma ormai debole e, appunto, malata, nel '77, e poi basta, sono arrivati gli anni '80 ed è stato un grande silenzio, in arte come in altro. Nel nostro campo c'è stata la Transavanguardia, che è una specie di "Ritorno all'ordine", ma più scarico ancora di quel che fu il primo all'epoca del fascismo, più debole, ancora più inutile. E poi c'è stata quella che Stefano Arienti, parlandone con me, ha definito "l'arte italiana che non esiste", e cioè quella degli ultimi 15 anni. Con questo non voglio dire che non ci siano stati gli artisti. Ci sono stati, come ci sono i vivi in un paesaggio di guerra, che però è per definizione un paesaggio di morte. Ecco, questa è l'eredità che la mia generazione si trova a raccogliere. E si badi bene che noi siamo i più deboli. Siamo figli di una guerra, siamo denutriti e lo siamo stati dalla nascita, e per certi versi non conosciamo altro scenario che la guerra, una guerra in cui siamo la parte che perde. Non abbiamo nemmeno la nostalgia della pace, del benessere, dell'equilibrio. Non li abbiamo mai conosciuti. Siamo i meno adatti ad opporci ad una guerra che ci è madre. Ma abbiamo la disperata necessità di mettere fine al silenzio perfetto che segue l'esplosione delle bombe. Un silenzio ermetico e insopportabile che dura da quando abbiamo orecchi. Un silenzio che non si riempie con la voce di uno, parlando, urlando... Si riempie e si surclassa solo col suono di un'orchestra. Solo una sinfonia, suonata da un'orchestra intera, può coprire quel silenzio, infrangerlo. Ecco perché ho così a cuore il tema generazionale. Ecco perché è nata La costruzione di una cosmologia. Perché se ognuno di noi continuerà a fare bene il suo lavoro, come dal canto suo lo ha fatto lo stesso Arienti o quelli che con lui hanno attraversato gli ultimi 15 anni, saremo ancora le stelle singole di un'arte italiana che non esiste, di un'arte italiana senza lettura e senza orientamento. Costruire una cosmologia significa rendere il cielo leggibile, render quelle stelle non solo punti luminosi, ma guide per la navigazione, elementi di interpretazione esoterica, riferimenti per un orientamento che vada oltre la piccola terra che abitiamo. In questo senso l'arte può diventare un elemento di trasformazione. Ma dev'essere l'arte di una generazione. Il lavoro di uno non basta. Non può bastare.
La guerra di cui parlo, comunque, è una guerra che non si combatte con lo scontro. Perché lo scontro riduce, sempre, fino ai minimi termini. E non è quel che dobbiamo fare. Sarebbe combattere dalla parte del "nemico". Non dobbiamo mai impoverire. Dobbiamo arricchire. Se le nostre case crollano nel silenzio delle bombe, noi non dobbiamo sganciare altre bombe, sparare altri missili. Dobbiamo scrivere le sinfonie per riempire il silenzio, per sfondarlo, annichilirlo. Dobbiamo arricchire, creare un suono invincibile, un'armonia irriducibile. E dobbiamo rendere ogni cittadino un musicista. Dobbiamo mettergli in mano uno strumento, ma non imponendoli, piuttosto, lasciandoceli rubare. Dobbiamo creare gli strumenti per leggere il presente, per immaginare il futuro. Dobbiamo costruirli come oggetti di uso quotidiano, che siano facili da usare, che possano essere maneggiati da tutti, che possano essere rubati da tutti. È lì che inizieremo a ribaltare le sorti di una guerra che è comunque infinita. Sarà quando vedremo le persone comuni usare gli strumenti che abbiamo costruito. Sarà quando l'uomo comune inizierà con quegli strumenti a diventare un creatore di bellezza. Ecco, allora, le sorti del conflitto saranno sovvertite. Useranno i nostri strumenti per suonare una musica che abbiamo immaginato o di più, inizieranno a trasformare quella musica in mille variazioni.
È così che gli artisti portano la battaglia, accendendo le stelle e mettendole in ordine. Creando una cosmologia. Ma la battaglia non la combattono i capitani, la combattono i soldati. Nell'Enrico V di William Shakespeare, un re stanco, a capo di un esercito stremato e in terra straniera, inferiore di numero e per armamenti, alla vigilia di una battaglia che potrebbe anche non avvenire proprio per l'insicurezza che potrebbe spingere gli inglesi a non proseguire la propria marcia verso il campo di battaglia, insomma, quel re, pronuncia il famoso discorso del giorno di San Crispino davanti ai suoi soldati. L'alba successiva si tiene la battaglia di Azincourt. Gli inglesi vincono. Ma ad aver portato la battaglia, ad averla resa possibile, sono state le parole di Enrico che Shakespeare ci riporta in poesia. Ecco, con la bellezza, la bellezza del discorso di San Crispino, Shakespeare-Enrico parla a uomini che la stanchezza ha ormai trasformato in singoli, preoccupati delle loro schiene dolenti e delle loro gambe pesanti. Il re poeta accende con le sue parole la stella che ogni soldato porta dentro di sé e la trasforma in una cosmologia, riporta i singoli John, James, George, Henry, ad essere il glorioso esercito britannico e di più, come dice lui "a band of brothers". E sono loro, non Enrico, loro, i soldati a fare le mosse giuste sul campo e a sbaragliare i francesi che partivano in rapporto di cinque contro uno. Ma senza la poesia, senza quel discorso, non ci sarebbe stata battaglia, non ci sarebbe stata vittoria.

Gianni Vattimo, nelle Gifford Lectures del 2010, proponeva una sua idea di verità come "evento dell'Essere sempre caratterizzato dal conflitto" e un conseguente programma etico di dissoluzione della realtà, finalizzato a superare la violenza insita in ogni pretesa di oggettività. Dal momento che sembri condividere l'idea di una dimensione conflittuale della contemporaneità, ti senti più vicino al pensiero conciliativo dell'ermeneutica o alla prospettiva di un nuovo realismo ontologico? Come si armonizza la visione post-apocalittica della figura dell'artista (si veda il tuo recente scritto Ritratto dell'artista dopo l'Apocalisse per Artribune), basata in un certo senso su un'estetica ancora fortemente postmodernista e su riferimenti culturali che spaziano da Quentin Tarantino a Werner Schwab, con l'ansia di riscoprire e di ricostruire un fondamento identitario che restituisca senso all'operare artistico, politico e sociale?
Mi fai una domanda molto complessa. È una domanda che vorrebbe farmi arrivare alle conclusioni mentre sono ancora al prologo. Sono felice di non saper rispondere. Se sapessi farlo, vorrebbe dire che il mio percorso personale e quello che sto facendo in seno alla mia generazione sarebbero falsi, sarebbero simulazioni a partire da una consapevolezza prestabilita e quindi non conquistata o per lo meno non da me, da noi. La prospettiva dell'ermeneutica e quella di un realismo ontologico si coniugano perfettamente nella prassi. Abitare il proprio cammino è il dispositivo che sta alla base di una dialettica complessa, ma integrale. I due tempi di cui tu parli, quello che appartiene alla figura post-apocalittica che ho descritto in una delle mie "riflessioni esoteriche per la ricostruzione di un'identità", che poi è appunto quella dell'artista dopo il postmodernismo, e quello della ricostruzione, sono consecutivi. O almeno dovrebbero esserlo. Il mio ragionamento in quel testo che citi, nasceva dalla definizione di una fotografia attuale da cui partire. Lo scenario e il soggetto. Definire entrambi è la prima cosa da fare. E continuare a farlo finché non siano realmente chiari. Poi però bisogna essere consapevoli che quello è uno scenario in movimento e quindi possiamo, per certi versi, anche interpretare i progressi e tentare di indovinare il successivo, di compiere delle proiezioni. E la mia lettura tende a vedere nel futuro immediato, un futuro che è già in atto nelle premesse, la ricostruzione di un concetto di comunità, che è la struttura basilare della società. Non si può ricominciare ad avere un'Italia culturale se non c'è una comunità culturale. Bisogna espandersi come fanno le onde di una goccia che costantemente cade in uno specchio d'acqua. Si generano cerchi concentrici in cui ognuno spinge più in là il precedente. Ma bisogna partire dal primo, dal più piccolo. Dalla comunità degli artisti. Bisogna che essa torni ad essere vitale al punto da trascinarsi dentro altre comunità prossime, come quelle degli amanti dell'arte, degli studenti: se infiammeremo quei gangli, allora essi espanderanno quella vitalità in tutto il corpo dello Stato. Così si costruisce una società della bellezza. Non facendo grandi opere di arte pubblica, ma parlando, accendendo l'interesse. E quando qualcosa accende il tuo interesse, per tornare alla tua domanda, diventa tuo, tua identità. Puoi immaginare qualcosa di più politico?

Come si colloca, all'interno dell'architettura concettuale della tua ricerca, che si dispiega spesso in ampi cicli tematici, il progetto Sette Stagioni dello Spirito, al quale stai attualmente lavorando?
Finisco per doverti dare la stessa risposta di prima. Se lo sapessi, non ci sarebbe bisogno di farlo. Sette Stagioni dello Spirito è una ricerca che mi è necessaria. Se voglio procedere verso la conoscenza dell'uomo devo crearmi delle occasioni. Così è questo progetto come lo sono gli altri conclusi o quelli ancora in corso. Volevo affrontare il tema dei limiti del bene e del male nell'uomo, un concetto talmente grande che non posso avere la pretesa di risolvere. Ma posso cercare di abitarlo. Tentare un primo attraversamento. E così è iniziato questo progetto. Per studiare l'uomo devo incontrare uomini, devo vivere le città che sono gli spazi per eccellenza creati dall'uomo. E tanto largo era l'ambito della mia ricerca, tanto grande (non per estensione, ma per identità) doveva essere la città in cui poter trovare gli elementi che cercavo e che immaginavo fossero disseminati fino agli estremi. Non era quindi una città estrema che cercavo, ma una città dallo spettro talmente ampio, da contenere gli estremi. Napoli è quella città. Mi ci ha portato Curzio Malaparte, un altro compagno post-apocalittico. E così ho iniziato dal suolo, dalla strada. Ho camminato per mesi lungo le strade che scendono al porto, salgono sulle colline, finché le finestre dei bassi non mi sono diventate familiari, finché la galassia di mondi che si aprono dietro ogni porta mi fosse nota. Adesso so chi abita dietro ogni tenda, conosco i suoni, le voci, di ogni strada. E in questo peregrinare ho iniziato a trovare i luoghi in cui creare un polo magnetico, un punto da cui poter riuscire a trovare l'armonia di intere sinfonie che sono la voce di alcune comunità. Finché non trovi quel punto, è come camminare nel mezzo di un'orchestra che suona. Tutto sembrerà distorto, imperfetto, a seconda di dove ci si mette. Ma c'è un punto in cui ogni suono giunge con la giusta intensità e il magma di accordi squilibrati rivela la sua costruzione perfetta. È il punto in cui di solito sale il direttore. Che sovente non è l'autore della musica, ma è solo qualcuno che cerca di "servire" quella musica, magari aiutando l'orchestra a gestire meglio i suoi equilibri, a bilanciare i suoi ritmi, in modo che la sinfonia riesca ad emergere limpida e a consentire a chi l'ascolta di conoscerla. Ecco, questo sono le mie sette tappe. Momenti in cui cerco di chiedere disperatamente chiarezza ad un ensemble umano, facendo il più possibile per aiutarlo a raggiugerla. Ed allora, se accade, io per primo conosco la voce di quella comunità umana e il suo segreto, io che sto in piedi sul limite della buca dell'orchestra e che ho dietro di me il golfo mistico di un'intera città, un paese, invisibile, perché al buio, ma attento sempre e comunque presente. Con quella platea io condivido la conoscenza che sono andato a cercare e che mi viene donata.
Questa meccanica appartiene a tutta la mia ricerca, ma in Sette Stagioni dello Spirito diventa estrema a sua volta. Ho smontato la struttura, tutte le protezioni. Ho rotto ogni protocollo. Sono andato per strada per davvero. E non importa che magari a sostenermi dandomi i soldi e l'incoraggiamento per costruire le opere, per comprare i materiali, siano fondazioni, musei, istituzioni. Anche a loro ho fatto saltare tutti i protocolli. Mi stanno dietro per miracolo. E di questo si tratta, perché ci sono persone che pur di seguirmi al di fuori di ogni griglia prestabilita, stanno facendo miracoli.
Dunque questo progetto è una conseguenza inevitabile di un cammino iniziato nove anni fa, quando ho cominciato a fare questo mestiere. Prima ho cercato l'artista che era in me. Poi ho cercato il mondo dell'arte con cui confrontarmi. E adesso vado in cerca del mondo vero, perché è a quello che l'arte si rivolge. E lo cerco per strada. Perché se voglio capire la vita la devo andare a cercare nei luoghi della vita.
Una volta, un altro artista, Alessandro Bulgini, in un periodo in cui tra noi non correva buon sangue, ebbe la serietà di venire a vedere una mia mostra. La prima mostra veramente importante che ho fatto. E mi disse: "Bene, adesso hai dimostrato di sapere la lezione alla perfezione. E ora che farai? Continuerai a ripeterla comodamente – perché in fondo è quello che gli altri ti chiederanno – o ti metterai in pericolo di vita di nuovo per muovere il primo passo nelle regioni in cui non c'è più una lezione già scritta, e così tu dovrai scriverla e impararla al contempo?". Ecco, quelle parole, da allora, mi sono state maestre. Questo progetto porta alle estreme conseguenze il mio essere artista. Ma sarebbe sbagliato dire che quelli precedenti non abbiano fatto lo stesso. Ogni passo successivo, però, deve sfondare l'estrema conseguenza del precedente. Essere un nuovo punto limite.
Quando sono arrivato a Napoli non avevo niente. Né un'idea, né una preparazione iniziale sul progetto stesso o sulla città. Di tutti i partner che ora ho, ce ne era solo uno, la Fondazione Morra, a cui dissi solo che sarei stato lì per due anni e avrei fatto sette opere di cui non avrei saputo nulla finché non le avessi iniziate e forse finite. Venivo a cercare qualcosa che non conoscevo, dunque non avevo niente da dichiarare prima, se non un intento e un metodo tutto da inventare.
Ecco. Questa è l'arte che ho in mente, un percorso di verità che non può conoscere maniera, gusto, estetica. È un corpo a corpo con la realtà. Come la guerra di cui abbiamo parlato. Il mio lavoro a Napoli sta cambiando degli equilibri. Modifica il modo che hanno alcune comunità di vivere il proprio ambiente, porta le istituzioni a recuperare dei patrimoni che prima erano in abbandono ed esposti al degrado. Tutti questi sono effetti collaterali, ma se guardi bene, sono la sostanza. Tutto questo, quando stai nella galleria, nel museo, nell'istituzione, è molto più difficile da fare. Ecco perché bisogna sfondare tutto, sfondare i muri di queste scatole e mischiarsi con la gente, scendere dai piedistalli, perché ormai è tanto tempo che più nessuno guarda verso l'alto. Però attenzione a non trasformarci in operatori sociali, a non mettere "la pratica prima dell'opera" o peggio, di credere che la pratica sia opera. Tutte queste trasformazioni devono essere una conseguenza del fare arte, devono essere conseguenze di un'opera che non deve mai cedere la sua purezza assoluta. Nessun percorso di "arte partecipativa" è più coinvolgente della Chambre à coucher di Van Gogh. Niente è più partecipativo del nostro tornare, quando siamo soli, con la mente, a quell'opera, quando ci sentiamo deboli, miserabili, vulnerabili. E tornando a quell'opera ci sentiamo fratelli di tutti quelli che a quell'opera tornano. La forza dell'opera è l'unica cosa che rende l'arte davvero partecipativa. Partecipativa è la verità da cui quella bellezza nasce. L'artista deve impararla e poi restituirla con l'opera. E più alta e pura (come un diamante) sarà l'opera più l'artista avrà ripagato l'investimento che una comunità ha fatto su di lui condividendo la ricchezza della propria verità.
In conclusione, Sette Stagioni dello Spirito mi sta facendo combattere sul campo la guerra di cui parlavamo prima. Ed è lì che bisogna andare, sul campo, equilibrando purezza dell'opera e verità della vita. Altrimenti siamo come capitani che se ne stanno nelle caserme a giocare a scacchi, simulando strategie perfette e inutili, o meglio, perfettamente inutili, mentre fuori qualcun altro sta mettendo a ferro e fuoco le strade, impoverendole. Usciamo in strada. È ora. Ecco come si colloca Sette Stagioni dello Spirito nell'architettura concettuale della mia ricerca. Ma anche questo l'ho imparato facendo. L'ho imparato stando fuori. Per strada. Esposto a tutti i venti. Dal prossimo progetto, imparerò che cosa viene dopo questa guerra civile. Se c'è la ricostruzione, bisognerà imparare a costruire.


Gian Maria Tosatti (Roma, 16/04/1980) è un artista visivo, fondatore e direttore dello studio Hôtel de la Lune. Dopo gli studi e un'attività di ricerca nel campo performativo, presso il Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera, Tosatti si trasferisce a Roma per intraprendere un percorso artistico nel territorio di connessione tra architettura e arti visive realizzando principalmente grandi installazioni site specific. Sono frutto di questa ricerca tutte le opere successive, installative, oltre ai due progetti: Devozioni e Landscapes, realizzati in collaborazione con la Fondazione Volume! Il primo è un ciclo di dieci grandi installazioni per spazi architettonici particolari, il secondo è un percorso di arte pubblica legato ai luoghi di conflitto urbano. Attualmente la ricerca dell'artista è legata a due nuovi progetti, Fondamenta, basato sull'identificazione degli archetipi dell'era contemporanea, e Le considerazioni sugli intenti della mia prima comunione restano lettera morta, ciclo dedicato agli enigmi che risiedono nella memoria personale e alle tracce che gli uomini lasciano alle loro spalle. All'interno del ciclo Fondamenta ha realizzato, con la collaborazione del National Park Service of the United States, il progetto I've already been here: due installazioni ambientali che occupano due edifici di proprietà del Governo americano a New York, diventate opere permanenti. Tra il 2013 e il 2015 Tosatti lavorerà al progetto Sette Stagioni dello Spirito, creando sette grandi installazioni ambientali in sette edifici della città di Napoli col supporto della Fondazione Morra e del Museo Madre.

Per approfondire:
tosatti.org