domenica 22 dicembre 2013

Requiem (provvisorio) per l'avanguardia

Non è semplice comprendere perché il concetto di avanguardia appaia oggi, agli occhi di molti, superato e anacronistico, mentre dal punto di vista storico, sociale e antropologico sembrano invece ripresentarsi condizioni e fenomeni che ricordano, per molti versi, gli inizi del Novecento. L'arte è, in ogni epoca e in ogni luogo, strettamente interconnessa con la società che la produce: l'arte d'avanguardia ha instaurato un rapporto di reciproco condizionamento con l'era della modernità (non a caso l'espressione modernismo è spesso usata come sinonimo di avanguardia storica e artistica) intrattenendo profondi legami con il sociale. Il termine avanguardia, infatti, prima ancora di essere utilizzato per designare una determinata corrente artistica o letteraria, compare nel lessico politico per indicare le frange radicali e rivoluzionarie. Quali sono, dunque, gli aspetti specifici dell'avanguardia e in che modo essi possono essere collegati con le caratteristiche del contesto storico in cui essa si sviluppa?
Senza ombra di dubbio il primo elemento distintivo che emerge con forza è l'attivismo, il gusto per l'azione, per il movimento, per la mobilitazione di energie: il dinamismo è un ingrediente fondamentale della modernità e la contemporanea evoluzione della società non ha fatto che confermare questa tendenza. La rapidità dei mutamenti, il progresso incessante, l'accavallarsi degli eventi contribuiscono a rendere l'individuo, immerso nel flusso delle trasformazioni, sempre più reattivo, pronto al cambiamento, disposto ad adattarsi, così come a modificare l'ambiente circostante.
Altro imprescindibile connotato dell'avanguardia è l'antagonismo, che si manifesta in due forme principali: da un lato l'antagonismo nei confronti della tradizione, dall'altro l'antagonismo nei confronti del pubblico. La prerogativa dell'ostilità e la ricerca dello scontro sembravano scomparse con l'avvento della postmodernità; la volontà di straniarsi dalla norma aveva ceduto il posto, con il trascorrere dei decenni durante il secolo scorso, al disincantato abbandono nella bieca mediocrità, a un cinico e a volte compiaciuto accomodarsi fra gli agi del già noto, del consueto. Probabilmente proprio il venir meno, nella fase tarda della modernità, di ogni forma di antagonismo è alla base della contemporanea percezione distorta dell'attualità di un'arte d'avanguardia, che trova il suo principale fondamento nella banalizzazione dello sperimentalismo, nella vacua ricerca della novità e dell'originalità a ogni costo, dello shock, della trovata bizzarra e stupefacente. L'avanguardia non era aliena da ogni convenzione: anche la sua sregolata ingegnosità era sottoposta a una disciplina, rientrava in qualche modo in un più ampio apparato normativo. La frattura con la tradizione, nella rincorsa affannosa della discontinuità con l'esperito, è sbiadita lasciando gradualmente subentrare un gusto basato sul riciclaggio e sulla ripetizione. Secondo la logica dell'alternanza, dopo un estenuante ciclo di ansiosa sperimentazione, giunge la spossatezza, la consapevolezza dell'impossibilità del continuo superamento dei limiti del conosciuto; ma sarebbe ingenuo pensare che la ruota si sia fermata e che non stia continuando a girare. La generazione di artisti cresciuta negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso si è affidata alla convinzione che tutto fosse stato già fatto e ha sfruttato questo pretesto per costruire nuove forme di comunicazione incentrate sullo spostamento di dati già elaborati, decisamente meno impegnative dal punto di vista dell'estro e dell'inventiva. L'espandersi delle possibilità comunicative, la comparsa di nuovi mezzi per il trasferimento dei dati, la disponibilità di una crescente quantità di informazioni hanno contribuito allo svilupparsi del gusto per la citazione e la contaminazione. La tradizione è diventata un aggregato complesso di materiali, una fonte inesauribile di spunti, non più soltanto accademici, da cui attingere per la produzione artistica. Eppure oggi la nostalgia non è più un rimedio sufficiente per affrontare la profonda crisi sistemica in atto.
Un discorso analogo può essere fatto per l'altro tipo di antagonismo, anch'esso ampiamente condiviso dai movimenti d'avanguardia: l'ostilità nei confronti del pubblico. Un atteggiamento simile traeva origine dalla scarsa fiducia nella massa dei fruitori, spesso non reputati all'altezza di comprendere l'essenza e il significato profondo dell'arte d'avanguardia. Lo spirito settario e il carattere eminentemente aristocratico di molti intellettuali ribelli e anticonformisti potrebbero sfuggire a uno sguardo superficiale: la protesta del singolo e la rivolta individualistica presupponevano l'opposizione alla società in senso lato, che si delineava come un rivale da osteggiare. Si creavano invece vincoli di solidarietà nell'ambito più ristretto e circoscritto dei "diversi": l'avanguardia è stata necessariamente un fenomeno elitario. Così il modernismo, con il suo spirito sovversivo e il suo disprezzo per le ideologie, appariva a certa critica storico-sociologica di matrice marxista nient'altro che una degenerazione patologica della cultura borghese. Un'ipotesi non del tutto infondata, se si analizzano le convergenze tra la corrente decadentista, ad esempio, e il pensiero reazionario. L'artista-dandy o l'artista-bohémien erano prototipi di anticonformismo e di sovvertimento dei convenzionali codici di comportamento attraverso l'eccentricità, l'esibizionismo, la provocazione e la sfida. La volontà di destare scandalo era sintomatica del rifiuto da parte dell'artista d'avanguardia di degradarsi in seno alla massa: egli si sentiva superiore e non voleva confondersi con la folla. Derivava da una tale presa di posizione l'oscurità di tante opere moderniste: volontariamente incomprensibili, esse non potevano che diventare, nella maggioranza dei casi, impopolari. Collegato a questi problemi è il tema dell'alienazione: l'avanguardia voleva essere negazione della cultura ufficiale, quindi della cultura democratica e borghese; eppure essa poteva sussistere ed esprimersi esclusivamente all'interno della società liberale, frutto del capitalismo, che ammetteva la sua esistenza come eccezione. Ne derivava un paradosso: l'arte d'avanguardia rendeva involontariamente omaggio alla società democratica e borghese, accettando i suoi meccanismi e arrendendosi a essa, nonostante si proclamasse antidemocratica e antiborghese. I dilemmi dell'artista moderno, i suoi sogni di rivoluzione di fronte al disprezzo di ogni valore qualitativo e al naufragare della civiltà nel futile eccesso quantitativo, il suo isolarsi in uno stato di incontaminata esclusione, le sue utopie insieme retrospettive e anticipatorie erano semplicemente un tentativo di reazione di fronte all'affermarsi della cultura di massa, considerata una forma di pseudo-cultura. Tutto ciò tenderà poi a scomparire con il sopraggiungere della rinnovata sensibilità postmoderna, decisamente più arrendevole nei confronti degli sviluppi uniformanti della civiltà di fine millennio. Spersonalizzazione e standardizzazione non appariranno più come mostri: pur nella valutazione attenta dei fenomeni culturali popolari e di massa, gli artisti postmoderni riusciranno a evitare un incondizionato atteggiamento di condanna. In altre parole, l'artista surmoderno sarà perfettamente integrato nella società dell'immagine, che trasformerà il creativo in una pop star idolatrata dalla folla: niente di più lontano dalla concezione romantica del genio ribelle e incompreso. Il trend mitizzante è stato (ed è tuttora) incoraggiato soprattutto dal mercato dell'arte, che ha prosperato in epoca postmoderna, creando dal nulla, attraverso criteri estetici eterodiretti, il valore economico di "capolavori" sapientemente costruiti sulla base di meccanismi autoconvalidanti, del tutto indipendenti dalla qualità delle opere. Tuttavia oggi si possono riscontrare i primi segnali di inversione di tendenza: uno fra tutti, il rinnovato interesse per le figure di outsider, marginali, esclusi che certa critica (Massimiliano Gioni in testa, considerate le scelte per la sua Biennale) sembra voler recuperare, insieme a una rinvigorita consapevolezza del valore sociale dell'arte. D'altro canto, se attivismo e antagonismo non sono certo scomparsi insieme alle avanguardie storiche, non lo è neppure il prevalere dell'istinto, degli impulsi, di una sorta di volontà incosciente e automatica di reazione alla concezione classica e umanistica della razionalità come freno e inibizione. Il nichilismo e il desiderio di distruzione rientrano perfettamente nell'ottica di un dinamico contrasto: non-azione come rivolta ed evasione, rifiuto di costruire come resistenza alla banalizzazione.
Alain Touraine ha descritto la modernità come rivoluzione illuminata portata avanti dall'uomo contro la tradizione, come strumento critico; questa istanza di rinnovamento, più che la fiducia nel progresso e nella razionalità scientifica, ha caratterizzato l'avanguardia modernista. Quindi avanguardia e modernità poggiavano sulla base solida di un modello di società, con i suoi valori e con una propria identità. Cosa è accaduto quando questo modello è crollato? In un certo senso si può far coincidere l'avvento della postmodernità con la crisi dell'identità sociale moderna: l'individuo non si riconosce più in quello che è, ma in quello che consuma; abbandonato ogni valore, il soggetto si rinchiude in se stesso, con il solo obiettivo di perseguire i propri bisogni. Quella che emerge alla fine del secolo scorso è una civiltà senza storia, senza prospettive, senza progetti. Il deteriorarsi, a causa della loro esasperazione o del proprio affievolirsi, dei principi cardine dell'epoca moderna (dinamicità, progresso e trasformazione incessante), ha fatto sì che l'identità a essi correlata vacillasse. Si è così aperta la stagione della crisi, che ora è nel pieno della sua tragica evidenza, ma che sicuramente è preludio di nuovi progetti, nuovi valori, nuove prospettive.

mercoledì 6 novembre 2013

Tre domande a Francesco Arena

L'opera che ha concepito per il Padiglione Italia alla 55esima Biennale di Venezia, Massa sepolta (Burgos, Benedicta, Batajnica 02, Ivan Poljie), è una riflessione sui processi di spersonalizzazione, condotta a partire da uno dei simboli più fortemente evocativi della negazione dell'individuo: la fossa comune. Qual è il ruolo della memoria nel faticoso tentativo di arginare la dispersione dei riferimenti culturali attraverso il recupero della funzione identitaria dell'arte?
Ognuno di noi è fatto di memoria: siamo il risultato di uno stratificarsi di ere geologiche, di eventi minimi confluenti in rivoluzioni epocali. Il nostro sguardo è il frutto di distorsioni evolutive iniziate migliaia di generazioni fa. La memoria è la cultura, ogni nostro gesto è informato da essa; i riferimenti culturali non si perdono, cambiano, possono raffinarsi o imbarbarirsi. Evidentemente questo nostro tempo è un momento di imbarbarimento, ma è una fase obbligatoria e rientra nella ciclicità dei tempi che formano la storia.

All'interno dell'architettura di Vice versa, interamente costruita sui rispecchiamenti e sulle coppie oppositive, Pietromarchi ha scelto lei e Fabio Mauri per interpretare il tema della centralità della storia, vissuta attraverso il filtro del proprio corpo e delle esperienze personali. Nella performance di Fabio Mauri il gesto meccanicamente reiterato annulla l'individuo, riducendolo a manichino senz'anima, puro supporto per una divisa il cui portato ideologico è sovvertito dall'azione sconnessa di una nudità priva d'arbitrio. Nel suo lavoro, invece, la componente soggettiva è evocata in assenza dalla materia inerte, perché lo stesso corpo dell'artista diventa unità di misura per determinare la quantità di terra contenuta in ciascun pilastro che compone l'opera. Il suo è dunque un monumento alla tragedia, al ciclico ripetersi dell'orrore di masse trucidate e sepolte, oppure alla discontinuità introdotta dal procedimento artistico, espressione dell'ingegno individuale?
Masse Sepolte o Massa Sepolta è un tentativo di visualizzare formalmente degli accadimenti che apparentemente nulla hanno a che fare con la mia vita, ma mi riguardano in quanto riguardano l'umanità, il genere a cui appartengo. Naturalmente il mio confronto con queste vicende, essendo appunto il mio, passa attraverso quello che sono: non solo essere pensante, ma anche essere pesante. Percepiamo il mondo concettualmente, ma anche fisicamente. Il dolore, l'amore, la paura, la felicità sono i quattro poli verso cui la nostra esistenza si orienta: stati d'animo, ma anche stati fisici attraverso i quali guardiamo tutto quello che a noi è esterno. Per questo l'opera è un tentativo di risposta a domande complesse difficilmente formulabili per me verbalmente: la risposta stessa diventa un'altra domanda, anzi una valanga di domande, tante quanti gli sguardi di chi con l'opera si confronta. Sant'Agostino ha detto: "Io stesso sono diventato domanda". Il monumento è questo, un continuo domandare.

L'attenzione al dato di cronaca e lo studio accurato dei documenti sono costanti nel suo percorso artistico, che spesso unisce indagine storica e pensiero critico. Come riesce a evitare il rischio dell'appiattimento sulla citazione e sulla retorica del passato?
Il dato di cronaca è un'entità interessante perché, in quanto dato, dovrebbe essere inoppugnabile, però nella trasmissione della memoria o della cronaca solitamente è proprio il dato che si trasforma, cambia. Il dato è un punto fermo nella sua imprevedibilità, mutevole come il mio peso, a seconda se ingrasso o dimagrisco, o l'altezza di mia figlia, che ha tre anni e quindi cresce. La ciclicità di cui dicevo prima, il ripetersi degli eventi, è ciò che mi interessa, non quando è accaduto. La citazione va contestualizzata, rielaborata, altrimenti è un vuoto manierismo.


Francesco Arena nasce a Torre Santa Susanna (Brindisi) nel 1978, vive e lavora a Cassano delle Murge (Bari). La sua ricerca prende le mosse dagli episodi di carattere politico e sociale che hanno caratterizzato la cronaca italiana degli ultimi decenni, i cui fatti, troppo spesso taciuti o nascosti, vengono reinterpretati e indagati attraverso le forme sintetiche dell'approccio scultoreo. Ad Arena sono state dedicate diverse mostre personali come: Francesco Arena - The story behind, Nogueras Blanchard, Barcellona; Onze mille cent quatre-vingt sept jours, Frac Champagne-Ardenne, Reims; Trittico 57, Project Room, Museion, Bolzano; Orizzonte con riduzione di Mare, Monitor, Roma; Com'è piccola Milano, Peep Hole, Milano; Art Statement, Art Basel, con Galleria Monitor, Roma; Cratere, De Vleeshal, Middelburg; 3,24 mq, Nomas Foundation, Roma. L'artista ha inoltre partecipato a diverse collettive, tra cui: Throw a rock and see what happens, Casa Encendida, Madrid; La storia che non ho vissuto. Testimone indiretto, Castello di Rivoli Museo d'Arte Contemporanea, Rivoli, Torino; The revolution must be made little by little | part 2: The Squaring of the Circle, Galeria Raquel Arnaud, San Paolo; Sotto la Strada la Spiaggia, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; Il bel paese dell'arte, GAMEC, Bergamo; Pleure qui peu rit qui veut - Premio Furla 2011, Palazzo Pepoli, Bologna; Temporaneo - Contemporary art in the evolving city, organizzata da Nomas Foundation e IMF Foundation, Roma; SI, Sindrome Italiana, Magasin, Grenoble; La scultura italiana del XXI secolo, Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano; Practicing Memory - In the time of an all-engaging present, Fondazione Pistoletto, Biella; Linguaggi e Sperimentazioni. Giovani artisti in una collezione contemporanea, Mart, Rovereto, Trento; Les sculptures meurent aussi, Kunsthalle Mulhouse, Mulhouse. Nel 2009 ha ottenuto il Premio Fondazione Ermanno Casoli, Fabriano, e il Premio LUM per l'Arte Contemporanea, I Edition, LUM, Libera Università Mediterranea, Bari, con una residenza presso Villa Arson, Nizza. Nel 2011 l'artista è stato selezionato tra i finalisti per il Premio Furla, Palazzo Pepoli, Bologna. Come vincitore del premio New York, infine, ha svolto una residenza in città della durata di quattro mesi (dicembre 2012 – marzo 2013).

domenica 3 novembre 2013

Una passione d'acciaio

Da circa tre decenni Sergio e Maria Longo, insieme ai due figli Andrea e Brunella e con la consulenza scientifica del professor Bruno Corà, collezionano opere d'arte contemporanea. Molti degli artisti presenti nella loro raccolta, una delle più importanti in Italia, hanno avuto modo di conoscere Sergio Longo presso il centro di servizio siderurgico da lui diretto: sono stati seguiti e aiutati nelle fasi di produzione e di lavorazione dei materiali per la realizzazione delle loro opere e così, in molti casi, è nato un rapporto di amicizia e si è creata la giusta intesa per una proficua collaborazione. Dimostrando una sensibilità da mecenate, l'imprenditore, coadiuvato dalla competente guida di Corà, ha commissionato nel tempo a personalità tra le più significative del panorama artistico contemporaneo opere in situ e installazioni per il giardino dell'abitazione di famiglia a Cassino. Il nucleo originario della collezione risale ai primi anni Novanta e comprende una decina di pezzi: tra le opere più significative l'imponente cubo in legno di larice di Sol LeWitt, la leggera poesia in granito dei Grigi che si alleggeriscono verso oltremare di Giovanni Anselmo, un marmo di Michelangelo Pistoletto (impassibile nella vertigine della caduta), la solida Postazione in brecciato di Mondragone di Antonio Gatto, la Grande stele di Vittorio Messina (che guarda verso il vicino colle dell'abbazia di Montecassino e nello stesso tempo evoca il passato bellico della città), le sculture in acciaio COR-TEN o ferro di Eliseo Mattiacci e di Renato Ranaldi. Ben presto, intorno all'attività dell'Associazione Longo, si è sviluppato un articolato programma di iniziative in collaborazione con gli istituti di alta cultura presenti nel territorio tra Cassino e Frosinone: l'Università degli Studi, l'Accademia di Belle Arti e il Conservatorio di Musica. Tale rete di relazioni ha consentito di avviare una serie di importanti avvenimenti espositivi, convegni di studio e momenti formativi che hanno visto l'entusiastica partecipazione degli studenti e di un pubblico motivato e interessato. La collezione Longo, in continua espansione, è diventata un polo attrattivo, funzionando da collante in una realtà culturale che ha gradualmente interessato un bacino di utenti sempre più vasto, superando i confini del territorio cassinate, grazie anche alla strategica posizione a metà strada tra Roma e Napoli.
In questi ultimi mesi il progetto più ambizioso e a lungo perseguito dalla famiglia Longo è finalmente diventato realtà: la costituzione di un museo di arte contemporanea a Cassino. L'inaugurazione del CAMUSAC, lo scorso 12 ottobre, è una tappa fondamentale in un lungo percorso sostenuto da una grande passione e dalla volontà di mettere a disposizione di chiunque condivida l'amore per l'arte un luogo fisico in cui poter liberamente ammirare le opere raccolte negli anni. Gli spazi del museo, frutto della riconversione di ex-ambienti industriali, sono stati resi perfettamente confacenti alla nuova destinazione d'uso dall'architetto Giacomo Bianchi. La mostra Infinito riflesso. Enrico Castellani - Shigeru Saito, a cura di Bruno Corà, è l'evento che inaugura la nascita del CAMUSAC - Cassino Museo Arte Contemporanea: il giovane scultore giapponese Shigeru Saito, in Italia da qualche anno e grande ammiratore del lavoro di Castellani, propone una selezione di suoi lavori recenti ispirati ad altrettante opere storiche del Maestro. Le realizzazioni in metallo dell'artista nipponico rappresentano l'esito di uno studio attento dei volumi di alcuni capolavori del grande pittore italiano: ad esempio, nella scultura Composito, pesanti lamiere d'acciaio sono piegate e incastrate tra loro come i fogli dello Spartito di Castellani, geniale struttura in carta che deve la sua forma perfetta all'intreccio dei fogli. La principale attrattiva del CAMUSAC rimane però la sorprendente collezione Longo: una parte consistente delle oltre duecento opere che la compongono è presentata al pubblico attraverso una prima, rappresentativa selezione operata dal professor Corà. Nelle sale del nuovo museo è possibile ammirare, ad esempio, le torri in acciaio verniciato di Sol LeWitt, gli aerei di Alighiero Boetti, un meraviglioso assemblaggio di Jannis Kounellis, una tela con neon di Mario Merz, una corteccia di cuoio di Giuseppe Penone, l'emozionante scultura antropomorfa in acciaio di Antony Gormley Capacitor, un grande acquerello di Luigi Ontani, nonché una serie di opere riconducibili alla Nuova Scuola Romana nata nell'ex-pastificio Cerere: due belle composizioni di Nunzio e una tela di Piero Pizzi Cannella negli spazi interni; fuori, nel piazzale adiacente, quattro geometrie in acciaio COR-TEN di Marco Tirelli e l'imponente processione circolare immobile di Giuseppe Gallo, dal titolo Punto fermo. Il vicino giardino privato dell'abitazione dei Longo, che può essere visitato su richiesta, si è inoltre arricchito di nuove acquisizioni, in aggiunta al primo nucleo della raccolta: tra tutte spicca l'intervento di Beverly Pepper, che ha disegnato con la pietra serena il suo Onphalon direttamente sul prato, ma colpiscono anche le sculture di Pedro Cabrita Reis, Diego Esposito, Hossein Golba e Mimmo Paladino.
Mentre oggi in Italia è impossibile non constatare, con enorme rammarico e con la speranza che presto la situazione possa cambiare, come lo Stato e le amministrazioni pubbliche sembrino non avere la forza e le risorse per garantire un'offerta culturale adeguata, non si può che accogliere con favore una simile, lungimirante, iniziativa, con la consapevolezza però che l'intervento dei privati, per quanto lodevole, non potrà mai supplire alla carenza di un progetto organico, complessivo e strutturato per le politiche culturali nel nostro Paese. Intanto questo piccolo ma straordinario museo assume le sembianze di un'isola felice in una terra desolata.

sabato 5 ottobre 2013

L'identità urbana tra arte e artificio

Fino al 13 ottobre il De Appel Arts Centre di Amsterdam ospita la mostra Artificial Amsterdam, curata dal cubano Gerardo Mosquera (tra i fondatori della Biennale dell'Avana) e dallo storico dell'arte olandese Rieke Vos. Diversi artisti che vivono o hanno vissuto per un periodo nella capitale olandese, o che hanno con la città un legame particolare, forniscono la propria visione di una realtà urbana complessa e sfaccettata. Amsterdam, con i suoi contrasti e i suoi mille volti, ben si presta a una riflessione su come l'arte possa contribuire a modificare la percezione di un contesto metropolitano, innescando dinamiche di costruzione identitaria e smontando stereotipi largamente diffusi. Le opere in mostra invitano a osservare la città da una molteplicità di punti di vista e a mettere in discussione miti e convenzioni, per riscoprire e ripensare il territorio, trasformando la città stessa in una grande opera d'arte collettiva. Così alla dimensione abitativa, oppure a quella turistica, si sovrappongono modalità differenti di entrare in relazione con gli spazi urbani: l'approccio degli artisti è a volte intimo e personale, a volte spontaneo e inaspettato, in alcuni casi profondamente razionale, in altri emotivo e viscerale. Il film di Lawrence Weiner Plowmans Lunch, prodotto dal De Appel Arts Centre nel 1982, mescola una caricaturale e canzonatoria rappresentazione del dibattito sull'arte e sulle teorie estetiche a bozzetti di vita di individui eccentrici alla ricerca di una via di fuga sulle acque di Amsterdam. La video animazione di Cristina Lucas crea una spiazzante corrispondenza tra le composizioni geometriche e razionali di Mondrian e l'erotica sensualità della danza, evocativa delle atmosfere del Red Light District. Ed van der Elsken costruisce un suggestivo ritratto di Amsterdam negli anni Ottanta, filmando luoghi e personaggi incontrati girovagando nel cuore della città. Kuang-Yu Tsui si interroga sull'eterna lotta tra gli olandesi e il mare con la sua innata ironia, giocando con i codici di comportamento e i cerimoniali sociali. Mounira Al Solh, dopo aver visitato per diversi giorni Amsterdam in compagnia di un gruppo di persone scarsamente alfabetizzate, crea una particolare guida della città, che mette in evidenza l'influenza del linguaggio scritto nell'esperienza e nella percezione del territorio. Il monumentale disegno murale di Jan Rothuizen, realizzato per la sala centrale del De Appel, racconta la storia dell'edificio che oggi ospita il centro per le arti, un tempo sede del club Fantasio, uno tra i più importanti locali underground olandesi, dove si esibirono note band come i Pink Floyd.
Lo sguardo degli artisti crea sempre una frattura, uno squarcio nell'ordinario: da questa polifonia di visioni emerge un'immagine di Amsterdam come vivace centro culturale, che contribuisce a rinnovare e amplificare la sua attrattività. Questo tipo di iniziative infatti, al di là dell'intrinseco valore culturale, esercita un'evidente azione positiva di rinforzo nel processo di qualificazione del territorio, per esempio rimodellando l'offerta turistica in relazione alle esigenze emergenti, armonizzando la realtà amministrativa con i cambiamenti sociali in atto, aggiornando le strategie di vendita sulla base delle richieste del mercato e dei nuovi trend di gusto. Esiste una versione "artificiale" di Amsterdam, creata dalle campagne di marketing, costruita sulle bellezze storiche e architettoniche della città, sul fascino dei suoi canali, sui capolavori di Van Gogh, sugli zoccoli e sui mulini a vento, sulla vita notturna e sulla politica di tolleranza verso le droghe leggere. Ma non c'è immaginario urbano, anche se stratificato, che possa resistere inalterato nel tempo: la formula più riuscita ha comunque la necessità di adeguarsi alle inevitabili modificazioni antropologiche che si succedono nel corso della storia. L'arte e la cultura in generale hanno un ruolo di primo piano nella delicata manovra necessaria per coniugare l'universo contemporaneo e il passato, i mutamenti del presente e la conservazione della memoria. Non si può essere cittadini del mondo senza consapevolezza identitaria: l'integrazione e il multiculturalismo passano necessariamente per una prospettiva glocale. In assenza di un legame culturalmente fondato con i luoghi di appartenenza è impossibile che un popolo riesca a dotarsi degli strumenti necessari per aprirsi all'esterno. Forse proprio la disaffezione, il disinteresse e l'indifferenza nei confronti di una ricchissima tradizione culturale sono tra i motivi che condannano tanti italiani (purtroppo anche una parte della nostra classe dirigente e intellettuale) all'isolamento e al provincialismo. Da questo punto di vista si potrebbe imparare molto da realtà cosmopolite come quella olandese.

venerdì 13 settembre 2013

Tre domande ad Andrea Bruciati

Critico e curatore da sempre attento alle nuove generazioni, nel 2013 lei ha fatto parte delle giurie o dei comitati di valutazione di alcuni dei più importanti concorsi e premi italiani per giovani artisti: il Premio Celeste, il Premio Combat, il Premio Francesco Fabbri (ancora in corso), per non parlare del Premio Moroso, nato da una sua idea e giunto ormai alla quarta edizione. Non crede che, da un certo punto di vista, questa tipologia di concorsi possa rappresentare un laboratorio prezioso per elaborare una teoria del valore fondata su criteri estetici aggiornati e innovativi rispetto a quelli rappresentativi ormai obsoleti, oltre che per riflettere sul ruolo dell'artista e sulle finalità del suo operare?
Ho sempre inteso il mio lavoro come prassi per la ricerca e l'idea di cantiere e laboratorio ha sin dal 2002 qualificato lo spazio che ero andato a gestire a Monfalcone, struttura che ho plasmato su questo indirizzo. Pertanto l'idea di valore, di per sé metamorfico, e di conseguenza il ruolo dell'artista e delle sue finalità si sono sempre intrecciate alla formulazione di un dizionario che doveva essere esaminato attraverso una critica continua e indefessa. Le modalità legate alla valutazione di un concorso sono anch'esse in movimento, come lo è la valutazione di un artista anche in funzione della sua crescita professionale. Poi, nello specifico dei premi, ognuno nasce con delle sue peculiarità, i suoi obiettivi ultimi differiscono così come le aspettative che questo comporta: quest'insieme di fattori per me li rende dei terreni impervi ma sempre stimolanti, sia per lo scouting e l'aggiornamento, sia per la possibilità di un confronto esperienziale e scientifico davvero unico. Si tratta in fondo di una sfida al mio concetto di valore che deve necessariamente essere posto in gioco, e difeso o modificato a seconda delle giurie e degli iscritti. Ho sempre creduto che la qualità dell'opera fosse il punto vettoriale su cui si imposta l'intero dibattito e questa è stata sempre una mia forza in sede di analisi, e pertanto di giudizio.

In seguito alle numerose esperienze come giurato, si sarà posto più volte il problema dell'adozione di criteri docimologici espliciti e condivisi nella valutazione del lavoro artistico. Pur nella consapevolezza dell'impossibilità di un giudizio oggettivo, non sarebbe auspicabile impiegare strumenti di selezione (ormai ampiamente diffusi in tutti i settori: dalla valutazione scolastica, ai concorsi pubblici, al reclutamento nel mondo del lavoro) che mirino all'imparzialità? Per fare un semplice esempio, riterrebbe possibile l'utilizzo, nel contesto di un concorso artistico, di griglie di valutazione con indicatori e descrittori chiari a cui attenersi in maniera uniforme? In tal caso, che peso darebbe a parametri come il curriculum e le esperienze professionali?
Dalle mie esperienze sul campo posso dire che questi strumenti docimologici possono offrire delle indicazioni e dei parametri importanti ma, seppur intenzionalmente oggettivi, non possono mai essere in ultima analisi sufficienti per l'individuazione dell'artista migliore. Potrà sembrare strano ma spesso mi sono trovato a dover confutare un potenziale vincitore, emerso dai dati quantitativi, che non rispondeva in realtà ad una eccellenza: per tutti quello era un artista buono ma per nessuno il migliore e questo gli consentiva di scalare le classifiche provvisorie. Curriculum ed esperienze professionali sono di certo importanti e vengono esaminati con il giusto rilievo ma personalmente non mi piace burocratizzare un percorso attraverso griglie di valutazione con indicatori e descrittori analiticamente spietati: sono degli indizi ma non possono garantire una valutazione che di per sé è sempre molto più ricca e complessa, stratificata e recondita, come è giusto che sia un'opera d'arte.

Nelle sue motivazioni per le selezioni, pubblicate sul sito del Premio Celeste, ha affermato: "Le istanze demagogiche che vogliono standardizzare dal basso la pretesa artisticità delle proposte (voce spesso insistente sul web) non bastano o non sono sufficienti a decretare la qualità, se non il successo di un'opera". Se però si considera che i gusti collettivi e l'adesione ai movimenti culturali sono spesso determinati da complessi e durevoli processi evolutivi che non coinvolgono soltanto gli intellettuali, ma anche il pubblico più vasto, viene da chiedersi se non si debba talvolta prestare ascolto alle voci insistenti che provengono dal basso. Il suo ideale corrisponde a un modello di cultura aristocratica o diffusa?
Il mio ideale corrisponde ad un modello democratico ma non demagogico: la mia esperienza come Direttore mi ha sempre portato ad ascoltare il pubblico e le sue necessità o problematicità. Ritengo che sia importante prestare attenzione a coloro che si interessano e argomentano il loro portato culturale perché io stesso credo nell'autocritica come metodo fondante e sano per rimanere in contatto con le istanze costruttive del presente. Caratterialmente ho sempre schivato le famose "voci di paese", omertose e sclerotizzanti, che non implicano responsabilità alcuna da parte dei delatori ma che spesso sono espressione di frustrazioni recondite e mancanza di coraggio.
Mi piace mettere le mani in pasta e difendo le mie scelte mettendomi sempre in gioco con me stesso, anche se mi rendo conto che questo non è glamour o politicamente corretto e mi avvicina più a Don Chisciotte che al curatore cool del momento.


Andrea Bruciati è nato a Corinaldo (AN) nel 1968. Si è laureato in Storia dell'Arte con una tesi su Lucio Fontana e Piero Manzoni ed è stato a capo della GC.AC – Galleria Comunale d'Arte Contemporanea di Monfalcone (GO) dal 2002 al 2011. Attualmente ricopre il ruolo di direttore artistico di ArtVerona. Collabora con varie testate specializzate e partecipa attivamente alla discussione sul ruolo di una rete nazionale di ricerca e formazione per l'arte contemporanea. Si interessa a tal proposito anche della promozione internazionale delle giovani generazioni che operano nella Penisola e alla diffusione dei nuovi media.

mercoledì 11 settembre 2013

L'arte del dialogo

Più di qualcuno (Ludovico Pratesi su Flash Art, Luca Rossi su Artribune) ha rimproverato a Bartolomeo Pietromarchi la scelta di aver invitato quattordici artisti per il suo Padiglione Italia alla 55esima Biennale di Venezia, dichiarando che avrebbe preferito una dieta ancor più rigorosa dopo la caotica scorpacciata dell'edizione passata. Simili considerazioni hanno trovato appiglio nel confronto con gli altri padiglioni nazionali, che puntano i riflettori nella maggior parte dei casi su uno o al massimo due artisti veramente significativi. Eppure il Padiglione Italia è da sempre un caso a sé: è consuetudine che il Paese che ospita la Biennale sia rappresentato da una grande mostra collettiva, capace di documentare gli sviluppi dell'arte italiana con un preciso disegno curatoriale. Lo spazio alle Tese delle Vergini, inoltre, per le sue stesse dimensioni (1800 metri quadri), è difficilmente pensabile come adatto a una personale; i padiglioni stranieri hanno in media una superficie quattro volte più piccola e una struttura decisamente più adatta, sul piano funzionale, per ospitare uno o pochi artisti, come in genere avviene. Da questo punto di vista la coppia Penone-Vezzoli, proposta da Ida Giannelli nel 2007, può essere considerata un'eccezione, come il progetto "fuori misura" di Sgarbi nel 2011, sul versante opposto.
Al di là delle polemiche sui numeri, il Padiglione Italia di Pietromarchi sembra funzionare alla perfezione: riesce a guidare i visitatori in un complesso itinerario attraverso le differenti e stratificate identità dell'arte italiana di oggi. Ma soprattutto lascia emergere con forza quella dimensione relazionale, quella predisposizione al confronto, al rispecchiamento e al dialogo che costituisce un prerequisito irrinunciabile per una ricerca consapevole e strettamente legata alla percezione della realtà e del presente. Pietromarchi ha saputo mettere in comunicazione le diverse attitudini, linguaggi e modalità operative del variegato panorama artistico italiano, ma ha voluto nello stesso tempo evidenziare una continuità fatta di derivazioni e corrispondenze tra i maestri riconosciuti e le giovani promesse. Così la memoria e l'eredità storica sono individuate come nodo centrale intorno al quale può svilupparsi la relazione dialettica tra passato e presente, senza la quale verrebbe meno ogni progettualità. Le mille contraddizioni della cultura italiana, dal divario tra Nord e Sud all'asprezza dello scontro politico e ideologico, si materializzano in opere il cui punto di forza è la capacità di conciliare le differenze. La sintesi scaturisce dall'attrito tra le coppie oppositive, che trasforma questioni irrisolte in solide basi per la realizzazione di un faticoso ma (purtroppo ancora) necessario processo di costruzione identitaria. Il rapporto tra il singolo e la collettività, punto dolente in un paese in cui i piccoli egoismi e gli interessi di parte hanno da sempre prevalso sul bene comune (si pensi al male endemico dell'evasione fiscale), è ampiamente investigato in questo Padiglione Italia. Delle sette coppie di temi sui quali gli artisti sono stati chiamati a interrogarsi criticamente, almeno la metà implica una riflessione profonda sulle relazioni intercorrenti tra l'individuo e la comunità. Prima fra le declinazioni di tale antinomia, la problematica rivisitazione del nesso tra corpo e storia è il filo rosso che unisce la riproposizione della performance Ideologia e Natura (1973) di Fabio Mauri e il rigore dei pilastri colmi di terra di Francesco Arena, monumenti alla memoria di tutte le stragi della contemporaneità. Le fotografie di Luigi Ghirri e l'installazione olfattiva di Luca Vitone, centrate sul tema del paesaggio nella duplice accezione di veduta e luogo, offrono l'occasione per un'analisi attenta delle modalità di rappresentazione del territorio: dalla narrazione per frammenti dei contesti urbani e naturali, che rivelano nella molteplicità dei dettagli la pluralità dei punti di vista, agli itinerari intimi suggeriti da un profumo capace di sostituire la visione nel disegnare spazi dal forte valore simbolico. La tensione tra estraneo e familiare caratterizza, invece, i lavori di Flavio Favelli e Marcello Maloberti: rielaborazioni a metà tra l'ironico e il poetico di tracce biografiche e memorie personali, mescolate a suggestioni tipiche della cultura popolare italiana. Le strutture di Gianfranco Baruchello e il pavimento di Elisabetta Benassi riportano la scissione tra particolare e generale all'interno di una logica ordinatrice e razionale, capace di collocare frammenti apparentemente scollegati all'interno di un sistema: la necessità di catalogazione e l'incontenibile potenza visionaria dell'inconscio si manifestano come due aspetti complementari della creatività artistica. Le due stanze dedicate ai binomi suono/silenzio e prospettiva/superficie, la prima occupata dalle opere di Massimo Bartolini e Francesca Grilli, la seconda da quelle di Giulio Paolini e Marco Tirelli, spostano l'attenzione sui meccanismi che regolano l'operare artistico e sull'interazione tra l'opera e l'ambiente che la ospita. Di grande impatto emotivo il percorso tra le solenni macerie in bronzo ideato da Bartolini e scandito dalle parole/musiche di Giuseppe Chiari. Tirelli e Paolini si cimentano in uno studio sublime e minuzioso delle dinamiche universali che regolano la visione e la percezione dei fenomeni sensibili: il loro contributo è tra i più ambiziosi, perché rivela la dimensione illusoria dell'arte, perennemente sospesa sul confine sottile e precario che separa la realtà dalla finzione. Per finire, nel giardino del Padiglione, dedicato al dualismo tragedia/commedia, sono collocati il lavoro probabilmente più incisivo e quello nel complesso meno convincente di Vice versa. La trovata di Sislej Xhafa disorienta, incuriosisce, ma non lascia il segno. La "scultura a perdere" di Piero Golia è invece geniale nella sua semplicità, immediata nel generare la reazione del pubblico, rigorosa nell'operazione concettuale, che agisce direttamente sulla tanto dibattuta questione del valore dell'opera d'arte. La verifica dello scarto tra valore simbolico e valore economico, in questo caso annullato dall'azione del pubblico attraverso una sorta di rovesciamento paradossale di ogni logica di mercato, va oltre la provocazione e suggerisce alternative concrete alle forme tradizionali di finanziamento, compravendita e scambio delle opere d'arte. La stessa operazione di crowdfunding realizzata da Pietromarchi ha dimostrato che possono esistere pratiche di condivisione divergenti rispetto alle consuete modalità di fruizione pubblica e privata dell'arte. Può darsi che proprio il diffondersi di un modello di committenza esteso e partecipativo possa favorire il superamento di quell'approccio puramente "economico" al lavoro artistico (ancora molto diffuso) che vuole le valutazioni di ordine culturale subordinate al valore monetario di un'opera. In un suo recente articolo per La Repubblica, Maurizio Ferraris ha scritto: "I bisogni di bellezza e di emozione sono molti, ed è un peccato che si possano realizzare solo in oggetti immediatamente consumabili. In questo senso, il crowdfunding viene a riparare una ingiustizia oggettiva nel mondo delle arti". Nel caso di Vice versa la raccolta fondi ha contribuito in maniera significativa a sostenere le produzioni degli artisti e le attività di promozione, comunicazione e mediazione culturale collegate alla mostra. Purtroppo, con il moltiplicarsi delle iniziative e con il diffondersi della "moda" del finanziamento dal basso, di tanto in tanto, di fronte a progetti particolarmente deludenti, è lecito il sospetto che, più che di crowdfunding, si tratti di "crowdfooling".

mercoledì 4 settembre 2013

Tre domande a Maurizio Spatola

Il complesso mosaico della poesia sperimentale del secondo dopoguerra è costituito da una molteplicità di tasselli, ognuno dei quali ha contribuito al superamento dei confini tra i codici espressivi delle differenti discipline artistiche. Sulla base della sua personale esperienza come editore, cronista e osservatore, in che modo componenti così diverse hanno interagito (tra dinamiche di differenziazione e tentativi di sintesi) per generare infine la profonda trasformazione del linguaggio e delle modalità comunicative che si è verificata tra il 1950 e il 1980?
Il travalicamento dei confini tra i linguaggi espressivi e comunicativi delle diverse forme d'arte era già stato suggerito e praticato dalle avanguardie storiche, in particolare dai futuristi italiani e russi e dai dadaisti. A ben guardare l'inizio di questa trasformazione si può intravedere già nella poesia Voyelles di Arthur Rimbaud (1871) e nel famoso Coup de dés di Stéphane Mallarmé (1897). E a indicare la necessità di percorrere questa via è anche Wassily Kandinsky in uno dei suoi interventi all'interno dell'antologia del Blaue Reiter (1912).
In cosa consiste la differenza con ciò che accade a partire dagli anni Cinquanta, con le profonde novità non solo sul piano della scrittura, ma anche su quello dell'arte visiva, ad esempio con l'Informale e poi con la Pop Art? Secondo quanto affermava l'americano Dick Higgins sviluppando il concetto di "Intermedia", che fece da perno all'attività del movimento Fluxus di cui fu tra i fondatori (con George Brecht e George Maciunas), questa rivoluzione nei e fra i linguaggi delle diverse arti non era che la conseguenza delle profonde trasformazioni sociali in atto: "Siamo vicini all'alba di una società senza classi nella quale la suddivisione rigida in categorie non avrà più senso".
Diversamente dai precedenti storici, i "nuovi" poeti, pittori, musicisti, ecc. non prendevano spunto da movimenti teoricamente organizzati, ma nascevano spontaneamente, spesso all'insaputa gli uni degli altri, ma creando opere analoghe, in vari paesi del mondo: ne è un esempio classico la poesia concreta, nata contemporaneamente, attorno alla metà degli anni Cinquanta, in Brasile (Noigandres), Svizzera (Eugen Gomringer), Germania (Franz Mon), Italia (Carlo Belloli), trovando nel 1958 in Max Bense, docente a Stuttgart, un lucido teorizzatore, in particolare nel suo impegnativo saggio Aesthetica, pubblicato in Italia nel 1974 dall'editore Bompiani, nella traduzione di Giovanni Anceschi.
In Italia, i primi segnali di questa interazione, o contaminazione, tra i diversi linguaggi artistici, si avvertono nella prima metà degli anni Sessanta in riviste quali "Bab Ilu" (Bologna), "Malebolge" (Reggio Emilia), in cui c'era lo zampino di mio fratello Adriano che nella seconda gettò sul campo di battaglia, con Giorgio Celli e Corrado Costa, l'idea del Parasurrealismo; ma anche nella romana "Ex" di Emilio Villa e nella napoletana "Linea Sud" fondata dagli scrittori Mario Diacono e Stelio Maria Martini con il pittore Mario Persico. Intanto a Firenze nasce il Gruppo 70 di Eugenio Miccini, Luciano Ori e Lamberto Pignotti ("Techne"), a Genova Anna e Martino Oberto pubblicano "Ana eccetera", mentre Ugo Carrega e Vincenzo Accame danno alle stampe il primo numero di "Tool". E a Torino, nel 1959, esce il primo numero di "Antipiugiù", rivista fondata da Arrigo Lora Totino e altri; lo stesso Lora Totino curerà nel 1966 l'antologia di poesia concreta Modulo, oltre a fondare lo "Studio di informazione estetica" con il pittore Sandro De Alexandris e il musicista Enore Zaffiri. Sul versante prettamente artistico un precedente importantissimo è rappresentato dal MAC, Movimento d'Arte Concreta (che nel nome si rifaceva al "concretismo" di Van Doesburg e Kandinsky), fondato nel 1948 a Milano da Attanasio Soldati, Gillo Dorfles e Bruno Munari e a cui aderirono in seguito personaggi come Gianni Bertini, Plinio Mesciulam, Luigi Veronesi, Carla Accardi, Piero Dorazio e Achille Perilli.
Ma l'avvenimento più importante, che consacra questo nuovo atteggiamento degli artisti di ogni genere, è l'incontro internazionale Parole sui muri a Fiumalbo, sull'Appennino modenese, nell'agosto 1967, organizzato da mio fratello con Corrado Costa e Claudio Parmiggiani, con la complicità del visionario sindaco Mario Molinari, al quale presi parte anch'io, non ancora ventunenne. Poco prima i tre fratelli Spatola avevano assemblato, a Torino, il primo numero dell'Antologia sperimentale Geiger (che nel titolo, preso dal contatore della radioattività, esprimeva appunto il concetto di contaminazione) raccoglitore non casuale di questo bailamme di esperienze, anche contraddittorie, ma feconde. Ciò che mi colpisce maggiormente, nei miei ricordi degli esplosivi accadimenti letterari e artistici di quegli anni, è l'assenza quasi totale di ostilità o competizione tra quanti esprimevano e praticavano modalità differenti, o addirittura divergenti, di inedite forme espressive. Atteggiamento collaborativo che si dissolse presto, ahimè.

Dopo la realizzazione della prima antologia Geiger, frutto della collaborazione tra i fratelli Spatola, nasce nei primi mesi del 1968, tra Bologna e Torino, la casa editrice omonima, che avrebbe operato per tutto il decennio successivo all'insegna dello sperimentalismo poetico e artistico. Risale all'anno successivo la prima edizione del fondamentale saggio di suo fratello Adriano: Verso la poesia totale. Che ricordo conserva di quei giorni?
L'idea delle Edizioni Geiger prese forma e si sviluppò rapidamente nell'autunno-inverno del 1967, subito dopo l'incontro di Fiumalbo e sull'onda del successo riscontrato, seppure in ambito ristretto ma internazionale, dalla prima Antologia sperimentale, sulle cui particolari modalità di realizzazione, mantenute identiche per tutti i numeri successivi, rimando all'introduzione di Geiger 1 nel mio sito archiviomauriziospatola.com (sezione "Edizioni Geiger" punto 11). Il vulcanico motore creativo di questa come di altre iniziative era sempre mio fratello Adriano, ma senza il contributo, non solo pratico, dei suoi due giovani fratelli la Casa editrice non avrebbe preso piede. I primi due libri, Il pesce gotico di Giorgio Celli e A test di Franco Vaccari (un poeta-scienziato e un pittore fotografo), videro la luce rispettivamente a Bologna e Modena, uscendo da una tipografia. I due successivi, O Babel di Adriano Malavasi e A capo di Gregorio Scalise, furono invece realizzati a Torino con il metodo artigianale dell'Antologia: le singole pagine vennero sì stampate in una piccola tipografia ma i libri furono assemblati manualmente dal sottoscritto e dal fratello sedicenne Tiziano sul tavolo della sala da pranzo dei genitori, alquanto sbigottiti da quell'inusitato trambusto. Questi quattro libri sono riprodotti integralmente nel mio sito e nelle singole presentazioni si possono trovare dettagli curiosi sul nostro modus operandi.
Dall'aprile del 1968 la sede delle Edizioni Geiger, registrate a mio nome presso la Camera di Commercio, venne stabilita definitivamente a Torino, prima presso l'abitazione dei nostri genitori, poi dal gennaio 1969 (data del mio matrimonio) presso la mia. Fu un inizio frenetico, in poco più di un anno pubblicammo una ventina di titoli, promuovendo una seconda collana "poesia", accanto alla prima, che avevamo denominato, in modo programmatico, "sperimentale", come l'Antologia da cui avevamo preso le mosse. Più chiaro di così il progetto non poteva essere: la ricerca sui nuovi linguaggi espressivi dei vari generi letterari e artistici, a livello internazionale, segnalata dai ticchettii del nostro speciale rilevatore Geiger, costituiva l'humus di fondo del nostro piccolo ma infaticabile lavorio. Entrammo così a far parte di quella che già nel 1971 venne definita "esoeditoria", in un convegno organizzato a Trento (vedi nel mio sito la sezione "Archivio", punto 18). Non eravamo i soli a dare spazio alle voci alternative, in qualche caso con pretese "rivoluzionarie" nell'accezione politica del termine (vedi la rivista "Lotta poetica" del bresciano Sarenco), ma quel sentimento collaborativo e amichevole che aveva contrassegnato gli anni Sessanta andò via via affievolendosi, per dare campo alla concorrenza, non solo sul piano delle idee.
Noi procedemmo per la nostra strada, soprattutto dopo il passaggio della sede operativa nel casale di Mulino di Bazzano, nella provincia parmense, dove Adriano s'era trasferito da Roma nel 1971 con la sua compagna di vita e di esperienze letterarie Giulia Niccolai. Da questo momento la mia vita cambiò: avendo un lavoro a Torino piuttosto impegnativo fui obbligato a divenire un "editore pendolare", con non pochi sacrifici (mia moglie non ne era molto contenta), mentre mi sobbarcavo nella mia abitazione la gestione amministrativa e commerciale della casa editrice. Con l'uscita nel marzo '72 del primo numero della rivista di poesia "Tam Tam", diretta da Adriano e Giulia, l'arco di attività delle Edizioni Geiger si espanse e raggiunse il suo apice: in un decennio pubblicammo oltre centoventi libri e ventiquattro numeri di "Tam Tam". E nel 1978 apparve il primo numero della rivista di poesia fonetica in audiocassette "Baobab", diretta da Adriano e pubblicata dall'editore musicale Ivano Burani di Reggio Emilia. Dal 1981 mio fratello proseguì da solo le pubblicazioni di "Tam Tam", altri trentatré numeri più una sessantina di libri editi come supplementi della rivista. Dal 1981 al 1984 Adriano diresse anche la rivista "Cervo volante" per l'editore romano Etrusculudens (Tommaso Cascella). La sua morte nel novembre 1988, a soli 47 anni, pose fine a tutto.
La pubblicazione nel 1969 da parte dell'editore Rumma di Salerno del saggio Verso la poesia totale (riedito poi con aggiornamenti nel 1978 a Torino da Paravia in una collana diretta dal Prof. Luciano Anceschi, maître à penser di Adriano), costituisce certo una pietra miliare nella poetica e nel pensiero filosofico di mio fratello. Sì, anche filosofico, in quanto su filosofi come Sartre, Husserl, Marx, Wittgenstein, Horkheimer e Adorno, senza contare Voltaire, si erano innestate, sin da giovanissimo, le radici del suo "ragionar". La data della prima edizione di Verso la poesia totale è in un certo senso simbolica: nell'agosto del 1969 esce infatti l'ultimo numero di "Quindici", la rivista romana che per tre anni era stata la "voce" del Gruppo 63, alla quale Adriano e Giulia avevano dato un notevole contributo, appartenendo entrambi a quel movimento sin dalle sue origini. La frattura fra "impegnati" e "letterati" che aveva imposto la chiusura di "Quindici" e posto fine all'esperienza del Gruppo 63 era stata vissuta da Adriano in modo traumatico, ma la decisione di dedicarsi soprattutto alla ricerca dell'autentico ruolo della poesia e dei poeti stava già diventando per lui il punto cruciale della sua esistenza. In questa direzione va interpretata la stesura del saggio, che offre un panorama completo delle esperienze internazionali su forme alternative di scrittura visuale, dalla poesia visiva alla concreta, con ampi accenni ai precedenti storici. Come lo stesso Adriano riconosce, il concetto di "poesia totale" non è farina del suo sacco, affondando le sue radici non solo nel movimento Fluxus e dintorni, ma in precedenti illustri dadaisti (Marcel Duchamp, Man Ray) e surrealisti, in particolare nell'amato André Breton, del quale mio fratello condivideva l'idea del poeta come sciamano.

Nel suo scritto Etica, rigore, anarchismes nella poetica di Adriano Spatola, pubblicato tre anni fa sulla rivista Testuale, afferma che, dopo gli eventi degli ultimi anni Sessanta, la poesia totale: "Sarebbe divenuta per Adriano una forma mentis, che ne avrebbe contrassegnato non solo il lavoro poetico, ma il comportamento stesso, fino nei minimi gesti quotidiani". Crede che l'instancabile ricerca di suo fratello mirasse a un'ideale fusione di arte e vita? Può la vita seguire i percorsi dell'immaginazione, oppure è l'arte a dover fare inevitabilmente i conti con la realtà?
Domanda da un milione di dollari. La fusione fra arte e vita non ha certo caratterizzato solo l'esistenza di mio fratello Adriano, ma tranne rare eccezioni, non ha mai significato la confusione tra i due piani. Sono migliaia gli artisti (poeti, scrittori, pittori, scultori, musicisti, attori, drammaturghi, architetti, ecc.) sulla cui tomba si potrebbe tranquillamente scrivere l'epitaffio: "Una vita per l'Arte". Caravaggio, Mozart, Verdi, Baudelaire, Rodin, Pirandello, Gassman, Gaudí, Niemeyer, Proust, Kerouac, Tagore, Garcia Lorca, solo per fare qualche esempio di ogni categoria, non hanno forse vissuto fino in fondo la loro creatività sino a farne parte integrante della propria esistenza? Adriano Spatola è stato uno fra coloro che hanno portato alle estreme conseguenze la loro fatica per affermare un'idea nuova dell'arte (nel suo caso la poesia), senza compromessi e senza bramosie di successo o di guadagno, anche se qualche piccola soddisfazione di questo genere se l'è tolta pure lui (vedi partecipazione al Maurizio Costanzo Show poco prima di morire). Giulia Niccolai, sua compagna nell'avventura di "Tam Tam" e di vita dal 1968 al 1979, ne ha così descritto la sofferenza in modo per me mirabile: "La poesia è stata per Adriano il solo ruolo possibile, il suo tormento va attribuito all'incapacità di scalfire la convinzione granitica di questa sua scelta, di capire quale errore egli avesse commesso [...] La sua poesia può essere letta come una sfida al limite dello svuotamento del significato della poesia stessa, e la sua diciamo battaglia contro i 'monumenti' della poesia, va comunque sempre considerata alla luce del suo sforzo di penetrare nell'insondabilità della comunicazione. Questo il filo di rasoio sul quale egli scelse di portare avanti la sua ambiziosa provocazione. E se la giustizia letteraria passa attraverso le intenzioni, quel molto di sforzo pagato da ogni poeta, Adriano l'ha pagato con la vita".


Maurizio Spatola è nato nel 1946 a Stradella (Pavia) e vive attualmente a Sestri Levante, sulla Riviera Ligure. Ha studiato al liceo classico "Galvani" di Bologna, a due passi dall'Osteria di via dei Poeti, frequentata dai futuri protagonisti dell'avanguardia letteraria bolognese. Interrotti gli studi universitari di filosofia e intrapresa a Torino la carriera giornalistica, ha lavorato a lungo per l'Editrice La Stampa e in seguito come freelance per diversi periodici.
Ha fondato con il fratello Adriano, nel 1968, le edizioni Geiger, di cui ha curato le note antologie sperimentali. Le edizioni Geiger, attive fra l'Emilia e il capoluogo piemontese nel campo della sperimentazione artistica e letteraria, hanno pubblicato, artigianalmente e in tirature limitate negli anni Settanta e Ottanta, libri e riviste, la più nota delle quali è il periodico di poesia Tam Tam, diretto da Adriano Spatola e Giulia Niccolai.
Poesie concrete e visuali di Maurizio Spatola sono state pubblicate fra il 1967 e il 1972 nell'antologia integrante il libro di Ezio Gribaudo Il peso del concreto (Torino 1968) e sulle riviste Chicago Review (USA), Ovum 10 (Uruguay), La Battana e Signal (Yugoslavia), Approches e Doc(k)s (Francia), Mec, Pianeta, Quindici e Tool (Italia). Suoi scritti sulla poesia d'avanguardia sono apparsi su alcuni quotidiani e varie riviste letterarie.
Nel 2001 ha perso l'uso della vista. Nonostante ciò, convinto che la realtà e l'esistenza stessa siano il prodotto di un paradosso patafisico, continua ad occuparsi di poesia visuale e arti visive.

Per approfondire:

martedì 27 agosto 2013

Un freak show disperato e necessario

Il Palazzo Enciclopedico di Massimiliano Gioni è una mostra che conduce sulle vette più alte dell'estrema sintesi totalizzante, in cui l'opera d'arte diventa immagine del mondo capace di condensare l'intera conoscenza umana, ma che costringe a procedere in funambolica sospensione sul baratro della paranoia, per ricordare quanto facilmente il desiderio di sapere possa trasformarsi in ossessione e la più profonda consapevolezza condurre alla follia. La 55esima Biennale di Venezia è così insieme celebrazione del sogno della conciliazione dell'individuo con l'universo e malinconica constatazione del fallimento destabilizzante di ogni sforzo compiuto in tale direzione dall'uomo. Mai come in epoca postmoderna i dubbi sull'effettiva perfettibilità dell'essere umano sono stati così forti: Il Palazzo Enciclopedico, pur raccogliendo opere che spaziano dall'inizio del secolo scorso a oggi (in molti casi di autori non in vita), propone una riflessione fortemente contemporanea e si interroga sul senso stesso dell'operare artistico, sulla capacità di rappresentazione simbolica dell'immagine, sul significato dei diversi tentativi di sistematizzazione e archiviazione del patrimonio visivo (dalla collezione al museo) e, in definitiva, sull'inebriante compito, imposto dal modello dell'esposizione biennale, di raccogliere in uno spazio limitato l'infinito potenziale espressivo e creativo dell'umanità.
La presenza di tanti eccentrici e stravaganti "freak", selezionati per fare da contraltare, con i loro incubi colorati e con le loro manie rituali, alla monumentale purezza di opere come l'installazione di Walter De Maria Apollo's Ecstasy (1990), che conclude significativamente il percorso dell'Arsenale, oppure come l'omaggio a Pasolini di Richard Serra (1985), non a caso posto alla fine della progressione espositiva del Padiglione Centrale ai Giardini, può in un primo momento far sembrare paternalistico l'atteggiamento di Gioni. Dopotutto il suo testo critico per il ricco catalogo della mostra termina con una citazione di Beuys: "Ogni uomo possiede il Palazzo più prezioso del mondo nella sua testa" e numerosi sono i richiami alla necessità di riscoprire l'ostinazione e l'integrità dei tanti autodidatti e outsider che si sono dedicati e continuano a dedicarsi alla ricerca artistica in maniera silenziosa, spesso isolata, senza curarsi della totale indifferenza del pubblico, del mercato e della critica. Ma è sufficiente uno sguardo meno superficiale per comprendere che la volontà di riabilitazione manca del tutto o, quanto meno, va collocata sullo sfondo, come diretta conseguenza di un'innegabile simpatia per il marginale e l'escluso. L'ambigua celebrazione di bizzarri bricoleur, le velate polemiche nei confronti del mercato e della dimensione dell'intrattenimento, gli insistiti tentativi di de-sublimazione volti a scardinare la riduzione dell'arte alla tautologia del capolavoro, l'attrito determinato dalla vicinanza forzata tra oggetti eterogenei (opere d'arte tout court e altre forme espressive) celano più plausibilmente una rassegnazione di fondo, che Gioni forse tenta di reprimere, o almeno di non rendere evidente, ma che si materializza suo malgrado in un monito e una sfida.
Il monito è rivolto a chi persegue un fine ultimo, a chi utilizza l'espressione artistica come ponte verso l'infinito, a chi continua a credere nel progresso lineare e nelle soluzioni definitive, a chi ricerca con ostinazione certezze. I tarocchi di Aleister Crowley, la pittura medianica di Hilma af Klint e di Augustin Lesage, i disegni mistici di Frédéric Bruly Bouabré, il bestiario fantastico di Levi Fisher Ames, il privatissimo mondo di bambole di Morton Bartlett, gli arazzi ricamati in manicomio da Arthur Bispo do Rosàrio, gli uccelli di carta e cartone di James Castle, i modelli di edifici di Peter Fritz scoperti da Oliver Croy, le immagini di guarigione di Emma Kunz, le fioriture fantastiche di Anna Zemànkovà, le bandiere vudù haitiane o i disegni-dono degli Shaker, sono sì presentati in virtù del loro potere di seduzione, che senza dubbio riuscirà a stregare un certo pubblico (quello più sensibile al fascino del mistero, dell'inusuale, del macabro, della diversità: Stefano Castelli ha severamente paragonato Il Palazzo Enciclopedico a un'antologia di letture "alternative" di un liceale nella sua fase trasgressiva), ma il discolo saccente e provocatore che alberga nella parte più istintiva dell'animo di Gioni ha probabilmente voluto rivolgere uno sberleffo a chi pretende che esistano criteri estetici oggettivi, difendendo così la sua idea di arte "sferica", "pervasiva" e "onnicomprensiva" (per usare le parole di Germano Celant e di Adriana Polveroni). Dopo aver dunque ammonito contro il rischio di trascendere le innate esigenze ordinatrici e razionalizzatrici, sconfinando nella pura follia, Gioni lancia la sua sfida, che consiste nel lasciare inesorabilmente aperte le domande che da qualche decennio occupano con invadenza la riflessione filosofica e critica sul ruolo e sullo statuto dell'arte. Qualcuno (il mercato, la critica, il pubblico con i suoi gusti personali) può arrogarsi il diritto di stabilire chi meriti la definizione di artista? Cosa è arte e cosa non lo è? Un fruitore comune, non particolarmente edotto riguardo alla storia dell'arte e al panorama contemporaneo, sarebbe in grado di distinguere i dilettanti dagli artisti per professione in questo Palazzo Enciclopedico, senza l'aiuto delle didascalie? Vale allora il motto di Ben Vautier: "Tutto è arte"? Oppure il suo corrispettivo nichilista, paventato da Munari? L'arte è morta, come hanno suggerito tanti pensatori, da Hegel a Danto? La critica a ogni criterio di valore in quanto storicamente fondato e non assoluto ha solide radici filosofiche, ma, se rivolta al mercato, assume la doppiezza di un biasimo di facciata, che finisce per risolversi in un tollerante (se non apologetico) accomodamento. L'impossibilità del giudizio rende ogni giudizio intercambiabile e accettabile: nulla ha sostituito i criteri estetici ormai obsoleti e il pubblico non ha a disposizione consolidati strumenti di valutazione. Deve quindi affidarsi a scelte eterodirette: un'opera è bella perché qualcuno ha detto così, non perché la si riconosce in quanto bella. Questo relativismo parassitario, in cui un'aristocratica cerchia di trend-maker determina arbitrariamente i gusti collettivi in funzione dei propri interessi economici, è una pesante tara ereditata da un'epoca che va lentamente sfumando. In questa fase di transizione e di incertezza Gioni evita di proporre risposte risolutive, ma sviscera il problema in ogni suo aspetto, facendo il punto della situazione. Il suo sguardo disincantato e ironico, il suo malcelato protagonismo e il suo essere palesemente invischiato in un sistema che non ha mai smesso di criticare dall'interno (non senza una punta di ipocrisia) gli hanno impedito di avventurarsi su sentieri più impervi e propositivi. Il suo Palazzo Enciclopedico rimane una costruzione ambiziosa e fragile, un labirinto ricco di stimoli, un viaggio alla scoperta di sé e dell'altro.
Tra gli infiniti rimandi e rispecchiamenti che è possibile rintracciare nella complessa matassa di connessioni intrecciata da Gioni, con grande attenzione agli equilibri e alle simmetrie, il binomio mente/corpo si evidenzia come nodo centrale intorno al quale si dipanano da un lato le immagini interiori del Libro rosso di Jung e la maschera di Breton di Iché, dall'altro la "mostra nella mostra" a cura di Cindy Sherman, che parte dalla fisicità anatomica per indagare i meccanismi della percezione e della rappresentazione del sé. In una sala al centro dell'Arsenale l'artista statunitense ha raccolto oltre duecento opere di una trentina di colleghi, tra cui Jimmie Durham, Duane Hanson, Charles Ray, Paul McCarthy, Enrico Baj. Ma anche i lavori di Marisa Merz e Maria Lassnig, che hanno entrambe meritato il Leone d'oro alla carriera, tornano sul problema dell'autoconsapevolezza, con atteggiamenti e modalità opposte: la prima con forme organiche ieratiche e immateriali, rivelazioni d'interiorità, la seconda con il suo approccio carnale alla pittura. Nella sala di Carl Andre e Morton Bartlett, nel Padiglione Centrale ai Giardini, sono messi a confronto l'artista che si mette a nudo sul piano personale, campionando in Passport (1970) il proprio stato d'animo, e l'uomo comune che nasconde nel privato la propria passione "creativa", mantenendo per tutta la vita il più assoluto riserbo sulle sue sculture. Questa stessa tensione tra esterno e interno è tema ricorrente in molti altri lavori, dal video Blindly (2010) di Zmijewski, in cui un gruppo di non vedenti proietta su tela il proprio mondo interiore, alle immagini endoscopiche dell'addome di un paziente riprese da un robot chirurgico nel film Da Vinci (2012) di Yuri Ancarani. Da un ulteriore punto di vista, lo scontro si gioca nel contrasto, vivissimo in un presente caratterizzato dalla proliferazione e dal consumo vorticoso di immagini, tra iconofilia e iconoclastia. La dimensione immediatamente rappresentativa è ampiamente documentata da un vasto repertorio di opere, spesso ambiziose, snocciolate in forma di "libro-wunderkammer (molto) illustrato" (l'espressione è rubata a Pericle Guaglianone): dalla Genesi a fumetti di Robert Crumb, alla scultura iperrealista di John DeAndrea. Nel contempo, lavori come la rilettura di Klein da parte di Pamela Rosenkranz, oppure i monocromi neri stampati in digitale da Wade Guyton, testimoniano la volontà di un eclettico bilanciamento da parte del curatore: al figurale puro si contrappone l'estetica fondata sulla sottrazione, che nelle sue forme più radicali si realizza nella smaterializzazione dell'opera d'arte (è il caso di Tino Sehgal, premiato con il Leone d'oro come migliore artista). In conclusione, al di là di qualche spunto volto a evidenziare evidenti richiami e ricercati parallelismi, non è possibile confezionare una convincente e definitiva esegesi della mostra di Gioni, che, come ogni enciclopedia, rifiuta una lettura sequenziale e invita a percorsi individuali di ricerca.

mercoledì 31 luglio 2013

Tre domande ad Achille Pace

Le sue opere evocano l'immagine del labirinto e il mito di Teseo e Arianna. Il filo è dunque allusione simbolica a un itinerario o a un percorso da seguire per orientarsi nella complessità del reale?
Ritengo che il mio "filo" sia molto di più. Nel 1960 ne ho chiarito bene tutte le valenze simboliche nella mia dichiarazione di poetica che recita: "Il filo, oltre che essere realtà oggettiva, è anche carico di significati simbolici. Esso indica: discorso logico, misura, precarietà, equilibrio, costruzione, rapporto, relazione, comunicazione, vita e morte. Può esprimere il piano, il concavo, il convesso, la lentezza, la tensione, lo spazio. Può essere razionale o irrazionale, statico, dinamico, crescita, fine. Il filo segue momento per momento la nostra esistenza e ne testimonia, con il suo itinerario, i pericoli, la gracilità, il rigore, la forza, il pensiero in tutte le sue manifestazioni. Essendo il filo un oggetto, è dunque fuori di noi ma ha anche in noi, nel nostro inconscio, profonde radici che ci fanno essere, in definitiva, quello che siamo". In occasione dell'omaggio al mio lavoro, inserito nella manifestazione Autumn Contamination, tenuta a Campobasso dal 24 novembre 2011 al 4 dicembre dello stesso anno, negli spazi della AxA Palladino Company, il critico molisano Tommaso Evangelista ha formulato uno scritto che mi ha colpito per la particolare acutezza e sensibilità di lettura della mia opera: "La caratteristica principale dei lavori di Pace è l'uso del filo come traccia soggettiva e minimale che cerca di sovvertire le investigazioni analitiche più rigorose dell'arte concettuale per affermare un ordine del simbolico inteso quale spazio ipotetico di confronto tra segno e materia. Il filo, come elemento cardine di una sintassi personale, non è solo traccia che si sostituisce allo scorrere del pennello, ma anche metafora del gesto e, per traslato, del pensiero. [...] Le conformazioni labirintiche ottenute su un piano pittorico altamente suggestivo nelle gradazioni cromatiche si giovano di una serie di figure retoriche (di ritmo, di costruzione, di significato, di pensiero) esaltate dalle pause e dalle fratture. L'artista, quindi, con la sua (cre)azione non fa che esaltare i residui di una caduta dell'arte nella traccia che da 'accidente' diventa orma veritativa semplice ed elementare: la traccia (personale) immobile unita al concetto temporale di scia porta alla formazione di linee/itinerari che non sono nient'altro che estreme riduzioni dell'oggetto-mondo pensato".

Nel testo critico per la sua personale a Spoleto del 1977, Vanni Scheiwiller individuava nella sua poetica una netta concordanza di temi con l'Arte Povera. Se il segno, sostanziato dalla materia, è strumento espressivo d'identità, allora la povertà del mezzo nel suo lavoro non è forse stato un argomento troppo poco investigato?
Sono lieto che lei mi ponga questa domanda. In effetti sarebbe sufficiente rispondere senza neppure commentare nulla, ma semplicemente mostrando una qualsiasi delle mie opere a partire dal 1956. Essa si commenterebbe da sola. La povertà del mezzo usato e la ristrettezza dell'intervento segnico sulla superficie della tela, consistente in un campo neutro, di solito monocromo di un tono variabile dal grigio al nero fumo, inserisce la tipologia delle mie opere nel filone dell'arte minimal e dell'arte povera, anche se quest'ultimo aspetto viene poco evidenziato dalla critica militante attuale che preferisce attribuirmi il ruolo di "poeta del filo". Credo che il critico d'arte che con maggior convinzione abbia interpretato la mia pittura come espressione di "arte povera" sia stato proprio Vanni Scheiwiller, che nello scritto da lei citato afferma: "La poetica di Pace anticipa senza clamore i concettuali, la minimal, l'arte povera e, in genere, il post-informale come recupero del controllo, del rigore e della logica esistenziale nei confronti di un irrazionale esistenziale informale". Anche Silvana Sinisi ha voluto evidenziare la povertà del mezzo usato nel mio lavoro, descrivendo il processo creativo che è alla base della mia poetica minimale. Ma il rappresentante della critica d'arte storica che ha saputo esprimere il giudizio sul mio lavoro per me più significativo, è senza dubbio Giulio Carlo Argan. È indicativa la sintesi concettuale con la quale, in poche parole, ha descritto la mia essenza artistica nella presentazione al catalogo della mostra del Gruppo Uno alla Galleria Quadrante di Firenze, nel 1963: "I sinuosi ma esatti percorsi del filo nei campi opachi e deserti dei quadri di Pace tessono lo spazio da uno a infinito". E ancora, due concetti sintetici che sono due pietre miliari, con i quali definisce la mia pittura come: "Minimi di quantità, massimi di qualità". Anche in questi due termini c'è implicito tutto il concetto di arte povera.
Ogni mia opera testimonia un bisogno intimo di espressione d'arte all'unisono con la mia sensibilità. Ho voluto scegliere un mezzo umile, povero, ma ricco di natura, di ricerca e di sperimentazione del nuovo. È così che il mio filo sarebbe diventato la mia poetica. Il filo come scelta di materia che doveva tradursi in segno: "segno-materia". La tecnica richiede controllo, momento per momento nel suo farsi spazio-forma. Lo spazio deve essere la nostra viva presenza, la quantità, qualità e valore. Basterebbe mostrare alcuni stralci critici e i giudizi che in passato i rappresentanti più accreditati della critica storica hanno espresso sul mio lavoro per evidenziare la completa sintonia ed analogia con la tendenza poverista. Oggi l'arte povera è promossa dal suo critico più riconosciuto, che è Germano Celant. Se ci soffermiamo un momento a indagare tra le premesse sostanziali richieste agli artisti del suo gruppo, si può vedere che tutte si ritrovano, ma con un decennio di anticipo, nelle opere che ho iniziato già dal 1956. La povertà del mezzo è sempre stata una mia costante. Fin dagli inizi del mio percorso artistico ho privilegiato materiali poveri, semplici, naturali. Ho usato semplice terra, raccolta nei campi, legni trovati casualmente, stoffe senza valore, come juta e tela di cotone, da cui estraevo i fili che utilizzavo per creare immagini e creare i ritmi di tempo e di spazio. Ciò accadeva già alla fine degli anni Cinquanta, ancor prima che si cominciasse a parlare di arte povera, corrente nella quale mi sono automaticamente trovato coinvolto, non per seguire una moda ma perché rispondente esattamente alla mia poetica e alla mia spiritualità. Certo resta incomprensibile come in tanti anni non ci sia stata una consapevolezza, un coinvolgimento che inserisse il mio lavoro nel contesto di una tendenza che è l'emblema della mia poetica. Né si può pensare che il mio nome sia tanto sconosciuto da giustificare certe "distrazioni". Io mi aspetto sempre, in verità, che un varco si possa aprire.

La razionalità stringente del suo approccio alla pittura implica in qualche modo un superamento dello spontaneismo informale di matrice espressionista e surrealista, che interpretava il gesto artistico come immediata rappresentazione di istinti, passioni e conflitti. L'arte non è dunque solo sentimento, ma anche ragione?
I miei itinerari vogliono rappresentare un viaggiare nel mondo della conoscenza in uno spazio libero con alcuni punti di riferimento, esatti, ma senza limiti. Nel fare arte la presenza fisica e spirituale dell'artista deve essere forte e libera, senza riserve. Ho scelto il filo di cotone come mezzo che potesse sostituire il segno tracciato dalla mano con la matita: le vecchie modalità espressive non reggevano più.
La mia esperienza di operatore e artista si è mossa sempre attraverso la riflessione sulla storia dell'arte e la realtà esistenziale che personalmente mi attiene. A tal riguardo, ho sempre cercato la possibilità di far corrispondere le mie capacità alla storia, senza mai trascurare di essere spontaneo, autentico e libero. Mi ha informato il pensiero esistenziale, fenomenologico. Ho scelto il filo come continuità spazio temporale. Quello che nel pensiero esistenziale è "caduta", come nel caso di Pollock, nel mio caso è controllo, come superamento dell'informale, senza rinnegare quanto di esistenziale ha espresso nella fenomenologia dell'arte moderna. Sul piano formale le componenti fenomenologiche e razionali sono contraddizioni creative tipiche della cultura del nostro tempo, dovute alla caduta delle strutture europee e al grande conflitto mondiale. L'artista vuole rappresentare il suo interiore turbamento tra pensiero logico e atto esistenziale. Questa sospensione dell'essere tra ragione ed esistenza è ancora valida oggi e ben si addice alla sensibilità ed intelligenza creativa di molti artisti. Io sono spontaneamente portato all'esistenzialità del nostro tempo. La razionalità non risolve il concetto di superamento ma si sovrappone in maniera contraddittoria all'informale. Tutte le tecniche oggi sono valide, purché esprimano lo stato di vaga esistenza della realtà e di disorientamento del nostro tempo. Il pensiero esistenziale è umiltà e coraggio della propria coscienza. Non c'è creatività se l'artista non produce prima un "vuoto". Solo in questa condizione di spirito, la parola, il segno e l'immagine sono "veri". Nel linguaggio dell'arte, per dire la parola "giusta" devi trovarti nella condizione "giusta". All'inizio della Commedia, Dante si è trovato nel vuoto e "smarrito". Dopo, la parola è stata quella giusta. Anche Dante ha dovuto pescare nel suo inconscio.


Achille Pace è nato a Termoli nel 1923 e si è trasferito a Roma dodici anni più tardi: nella Capitale si è formato artisticamente assorbendo da un lato le suggestioni espressioniste della Scuola di via Cavour e dall'altro l'insegnamento di Giulio Turcato, che insieme agli artisti del Gruppo Forma interpretava la pittura come "fatto mentale". A queste contrapposte influenze si somma l'osservazione del lavoro degli espressionisti tedeschi e soprattutto di Klee nel lungo soggiorno svizzero a metà degli anni Cinquanta. Sono di questo periodo le prime mostre personali a Lugano, Arau, Ascona e Locarno. Una volta rientrato in Italia, la sua ricerca è incoraggiata da Giulio Carlo Argan: a partire dal 1960 rigore operativo e semplicità della materia si fondono nell'opera di Pace per dare vita a quella tecnica fondata sull'utilizzo del filo di cotone che diventerà il suo segno distintivo.
Il 1960 è anche l'anno in cui inizia il lungo percorso come direttore e animatore del Premio Termoli: grazie all'impegno profuso ha saputo donare alla sua Regione una manifestazione d'arte contemporanea capace di portare il Molise fuori dal tradizionale isolamento, in un costruttivo dialogo con la cultura italiana ed europea. La sua instancabile attività di consulente e di operatore non si è limitata all'organizzazione delle mostre annuali, ma ha condotto nel tempo alla costruzione della Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea di Termoli e di una pregevole collezione che, tra premi acquisto e donazioni, vanta un patrimonio di circa cinquecento opere in grado di testimoniare gli sviluppi della ricerca artistica in Italia nell'ultimo cinquantennio.
Nel 1962, durante i lavori del Premio Termoli, su invito di Argan e della dottoressa Palma Bucarelli, Pace pone le basi per la formazione di quello che sarà il Gruppo Uno, coinvolgendo prima Frascà e Santoro e in seguito, a Roma, Biggi, Carrino e Uncini. Il gruppo di artisti appena formato persegue il superamento delle correnti informali, per rifondare il linguaggio visivo in termini razionali. Per due volte Pace è stato invitato a partecipare alla Biennale di Venezia e una terza volta al progetto speciale della Biennale dal titolo Il tempo del Museo Venezia, nel 1980. Ha esposto in diverse edizioni della Quadriennale di Roma. Sue opere sono entrate a far parte delle collezioni della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, della Galleria Civica di Torino, Castello di Rivoli, dell'Ente Quadriennale di Roma e di numerose altre sedi civiche e museali.

Per approfondire:
Il testo integrale dell'intervista è stato pubblicato sul numero monografico della rivista ArcheoMolise a cura di Dora Catalano e Roberta Venditto, Pittura in Molise: luoghi e personaggi (Vincenzo Merola, Il filo e il labirinto. Intervista ad Achille Pace in ArcheoMolise n. 16, anno V, luglio/settembre 2013).

sabato 22 giugno 2013

Una dissonante polifonia identitaria

Tra crisi economica e crisi dei valori, tra pensiero debole e ideologia, tra deterritorializzazione e localismo, tra antipolitica e corruzione, l'Italia del nuovo millennio è alle prese con un interminabile processo di ristrutturazione dell'identità, che tende ad assumere caratteri peculiari, conseguentemente alla specificità della situazione nazionale. L'identità contemporanea degli italiani è dinamica, come e più di ieri: si definisce in una costante manovra di costruzione e decostruzione, evolvendosi con il rinnovarsi dei riferimenti. Nel suo volume del 1995 Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori democratici, pubblicato da Feltrinelli, Carlo Tullio-Altan utilizzava per il nostro Paese la metafora della polifonia dissonante, sostenendo la contraddittorietà dell'identità etnica italiana, la sua variabilità e imprevedibilità. La debolezza dei processi di mitopoiesi, di costruzione di immagini archetipiche e di valori simbolici, ha determinato disfunzioni che hanno profondamente segnato il nostro costume nazionale, sia sul versante istituzionale, sia su quello della moralità pubblica e privata. La carenza, sul piano dell'ethos, del senso dello Stato e di valori democratici e universalistici si evidenzia come il principale punto debole nell'elaborazione collettiva dell'etnicità italiana, a cui si aggiunge la sopravvivenza di anacronistiche forme legate al principio del genos. Tali lacune hanno determinato l'insorgere di un insieme disomogeneo di valori, spesso tra loro in contrasto, in una pluralità conflittuale: per questo motivo nel contesto italiano alcuni caratteri della postmodernità (frantumazione, incoerenza, contaminazione) sono apparsi in maniera forse ancor più evidente che altrove. Nella costruzione dell'identità collettiva l'istituzione gioca un ruolo di fondamentale importanza poiché indirizza, pena la sanzione o il mancato riconoscimento, verso determinati valori socialmente accettati. Nel contesto italiano il riferimento istituzionale è sempre stato debole, dal momento che i principi di fedeltà e di lealtà nei confronti dello Stato hanno avuto grandi difficoltà ad affermarsi. Gli italiani hanno dunque varcato la soglia della surmodernità privi non solo di verità filosofiche e metafisiche, ma anche di spirito pubblico, trovandosi doppiamente disorientati ad affrontare i disagi delle rivoluzionarie mutazioni in atto.
La scarsa propensione a perseguire il bene comune ed una più spiccata predilezione per il conseguimento dell'interesse privato si spiegano con anni di trasformismo sistematico: un simile modello politico, di ascendenza giolittiana, piuttosto che correggere la fiacca vita morale dei cittadini, ha preferito adoperare tale fattore negativo al fine di consolidare il proprio potere, attraverso la pratica clientelare. Le conseguenze dell'intrinseca debolezza dello Stato sono di vasta portata: si delinea una situazione socio-politica che ha forti ripercussioni sulla cultura e sulla produzione artistica. Senza contare che, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, altri fattori intervengono a sconvolgere il già fragile assetto del nostro Paese. Il fenomeno del '68 porta a galla il profondo disagio giovanile di fronte alla corrente pratica politica: le nuove generazioni sono consapevoli delle inedite problematiche indotte dall'impressionante processo di sviluppo economico-tecnologico e delle loro conseguenze dirompenti sugli equilibri consolidati. La loro risposta è la mobilitazione e la protesta, segnali del riaffiorare di quel filone di giacobinismo eversivo che più di una volta ha caratterizzato le vicende della storia nazionale. La reazione dissidente di sinistra e l'egoistica accettazione delle consuetudini clientelari e del sistema partitico di gestione privatistica degli interessi pubblici hanno, in ogni caso, origine comune. Proprio la carente sensibilità nei confronti della razionale conduzione della cosa pubblica, la mancanza di senso dello Stato e di rispetto per l'interesse collettivo, la confusione tra le libertà naturali (i diritti del cittadino) ed un imprecisato spirito anarchico ed individualistico hanno generato da un lato il carattere anelastico della tradizione e dall'altro la disperata fuga in avanti delle avanguardie, nel segno dell'utopia. Nel tentativo di tracciare un profilo storico comparato delle identità nazionali europee, nel testo del 1999 Gli italiani in Europa, il già citato Carlo Tullio-Altan sosteneva che proprio: "Da queste due caratteristiche concomitanti deriva la duplice tendenza sia al conflitto ideologico senza mediazioni costruttive, sia ai compromessi di basso profilo fra interessi opposti, a spese delle risorse dello stato. [...] Queste distonie del sistema Italia, che si riproducono periodicamente dall'Unità in poi, sono largamente dipendenti dai limiti organici del nostro ethos, e cioè dalla scarsa condivisione e partecipazione a quei valori di convivenza e di solidarietà che rappresentano la spina dorsale della coscienza identitaria di un popolo".
La debolezza e l'inefficienza delle strutture pubbliche hanno avuto come primaria conseguenza la svalutazione della dimensione collettiva del vivere sociale, ma nello stesso tempo, per compensazione, hanno stimolato la capacità dei singoli di affrontare i problemi della vita in un'ottica individualistica, dotandoli di grande ingegno e dell'abilità di affrontare e risolvere ogni difficoltà con destrezza e in totale autonomia. Le ragioni storiche del limite dell'ethos italiano possono essere rintracciate nella somma complessa di diversi fattori. In primo luogo va ricordato l'avvicendarsi degli insediamenti più disparati sul nostro territorio, che, in momenti successivi, ha ospitato differenti popoli, subendo più volte la loro presenza come dominatori. Il divario tra le regioni settentrionali, prossime ai paesi in cui la tradizione democratica ha avuto origine e si è sviluppata in forme più avanzate, e quelle meridionali non ha certo contribuito a limitare la differenziazione e la disomogeneità. Inoltre un peso notevole va assegnato alla compresenza di due correnti di pensiero sociale, entrambe caratterizzate da una forte connotazione fideistica e radicate in profondità nella coscienza civile degli italiani, ma spesso inconciliabili fra loro: il cattolicesimo controriformista e la tendenza socialista ed anarchica. Fino al raggiungimento dell'unificazione del Paese, l'influenza del clero sulle masse contadine e sull'aristocrazia dominante era stata indiscussa; a partire dalla metà del XIX secolo una nuova forza sociale, con i suoi problemi e le sue convinzioni, si affacciò nel panorama italiano: l'emergente classe operaia e bracciantile. Gli ideali di cui si erano fatti portatori i lavoratori delle regioni industriali erano incompatibili con il conservatorismo religioso diffuso nella parte meridionale del paese, più arretrata dal punto di vista economico ed ancora dipendente in maniera esclusiva dall'agricoltura per la sussistenza. Dal canto suo il pensiero razionalistico di stampo liberale e democratico restava una prerogativa di una ristrettissima minoranza cittadina, che, pur avendo un notevole peso elettorale, non poteva certo determinare in maniera ampia e diffusa l'accettazione ed il riconoscimento di determinati valori civili in tutti gli strati della popolazione. L'unione di queste e simili concause ha cagionato per la multiforme e variegata realtà italiana la privazione dei principi dell'ordine sociale e della collaborazione ai fini dell'interesse generale. Per questo motivo il caso italiano rappresenta una particolare eccezione tra i paesi democratici europei, avendo maturato in ritardo ed in maniera incompleta un'identità collettiva.
Attraverso questa consapevolezza è possibile acquisire utili strumenti per la piena comprensione dei fenomeni culturali contemporanei e per un'analisi più attenta della produzione artistica italiana. Ogni intellettuale e ogni artista, anche colui che più si eleva e si distingue dalla folla, è infatti singolo individuo, ma anche, in una qualche misura, inevitabilmente, cittadino.

sabato 1 giugno 2013

Solo un trucco

La verità è che La grande bellezza è al di sotto delle aspettative. Regia pretenziosa.
(Federica Polidoro, Cannes Updates: La grande bellezza, la grande attesa, la grande delusione. Sottotono l'ultimo Sorrentino, schiacciato dal giogo di Fellini, da artribune.com)

Sorrentino se la prende anche con il mondo dell'arte contemporanea, con una ridicola performance di una bambina urlante che getta secchi di vernici colorate su una tela in un garden party affollato di cadaveri agghindati a festa, e una visita del nostro Gambardella, nella sua veste di cronista mondano, ad una mostra fotografica di autoritratti allestita nell'emiciclo di Villa Giulia. Anche qui, pur nella sua lettura eccessivamente paradossale e grottesca, Sorrentino ha messo il coltello nella piaga, denunciando quel senso di stanchezza che da qualche tempo circola tra i vernissage capitolini, dove la dimensione sociale sembra aver preso il sopravvento su quella culturale.
(Ludovico Pratesi, Una grande bellezza sprecata, da exibart.com)

La grande bellezza è un film molto ambizioso, ma di straordinaria profondità: una pellicola incredibilmente autentica, sofferta e, per certi versi, coraggiosa. La tiepida (quando non fredda) accoglienza che molta critica (soprattutto italiana) ha riservato all'ultima fatica di Sorrentino dimostra quanto scomodi e accidentati siano i percorsi di senso lungo i quali il regista napoletano ha deciso di avventurarsi. Tra l'altro, il film è stato decisamente snobbato anche dalla giuria di Cannes ed è uscito a mani vuote dal Festival. Quanto agli ambienti intellettuali del nostro Paese, è lecito supporre che in molti casi abbiano bollato come "pretenzioso" il lavoro di Sorrentino perché messi di fronte ad uno specchio che non rifletteva l'immagine desiderata. Il realismo crudo, cinico e spietato del Garrone di Reality era stato in qualche modo tollerato perché colpiva il "popolo", la "massa". La grande bellezza non risparmia le élite, per questo motivo il film non riesce ad essere ben digerito neppure dal pubblico per il quale è stato girato. L'amorevole disappunto di Sorrentino (che ricorda la bella intervista di Simonetta Fiori al professor Asor Rosa, pubblicata da Laterza con il titolo Il grande silenzio nel 2009) è stato percepito come un pugno diretto al volto da quell'aristocrazia compiaciuta e invischiata nei rituali mondani, sinceramente interessata a mantenere in vita l'equazione che associa la cultura a un insignificante e innocuo passatempo. Oggi, nel momento in cui il silenzio colpevole degli intellettuali fa più rumore, è troppo facile liquidare la lucida presa di posizione di Sorrentino accusandolo di essere troppo "felliniano". Altro che felliniane evasioni! La grande bellezza è una doccia fredda di realtà, appena addolcita dal velo poetico rassicurante della citazione. Il risentimento della critica più vicina al mondo delle arti visive è in fondo comprensibile. Sorrentino ha voluto letteralmente "far sbattere la testa" all'artworld contro il muro delle sue ipocrisie. Come non sorridere amaramente ascoltando il geniale dialogo tra il protagonista e l'equivoco personaggio interpretato da Anita Kravos, per l'occasione pseudo-artista performativa? Sarebbe sufficiente questa sola scena, memorabile ed esilarante, per evidenziare e stigmatizzare le fin troppo reali e abituali pratiche di ricezione e diffusione acritica del vuoto, in assenza di contenuti. Bisognerebbe riflettere con autoironia su un ritratto così impietoso, non chiudere gli occhi o voltarsi dall'altra parte. In fondo, è tutto un trucco, solo un trucco (per usare le parole di Jep Gambardella): anche la disillusione di Sorrentino.

lunedì 13 maggio 2013

Tre domande a Sergio Lombardo

A partire dagli anni Ottanta la sua ricerca artistica, prima con la pittura stocastica e poi con le Mappe, è fondata su un approccio scientifico. Ogni elemento, nelle sue opere, è definito con perizia matematica: le proporzioni fra i colori, la continuità e la discontinuità fra linee rette e curve, il grado di ordine e disordine, la luminosità delle tinte. La complessità delle strutture da lei elaborate persegue valori estetici irraggiungibili in modo ingenuo. Dal suo punto di vista ogni decisione formale o cromatica deve essere sottoposta a prova sperimentale e rispondere a complesse leggi di ottimizzazione? Il Surrealismo e l'Informale sono definitivamente superati?
Preliminarmente vorrei puntualizzare che l'approccio scientifico ha caratterizzato il mio lavoro fin dall'inizio. E infatti proprio il mio scetticismo sul metodo arbitrario dei "poeti" mi ha portato a creare degli "stimoli", come i Monocromi del 1958-61, per mezzo dei quali cercavo di provocare il pubblico, e in particolare i critici d'arte, a chiarire con una risposta certa ciò che fosse arte e ciò che non lo fosse. I Monocromi escludevano alla radice ogni possibilità di essere arte in senso "poetico" e quindi si proponevano come arte, anche se in negativo e per assurdo, solo in senso "scientifico".
Questo intento programmatico, che non ho mai più tradito, mi impedisce di eseguire scelte arbitrarie o di gusto, atteggiamento che ho chiamato "astinenza espressiva dell'artista". Le scelte arbitrarie, invece, cerco di stimolarle nel pubblico. La pittura stocastica, infatti, induce il pubblico a "scegliere" inconsciamente contenuti percettivi instabili da attribuire ai miei stimoli visivi senza senso.
Il Surrealismo e l'Informale hanno seguito un metodo di ricerca diametralmente opposto al mio, perché hanno accanitamente perseguito l'espressività arbitraria dell'artista. All'interno delle avanguardie storiche il Futurismo e il Surrealismo sono correnti antitetiche. La figura dell'"ingegnere" in quanto scienziato è idealizzata nell'estetica futurista, in contrasto e polemica con l'estetica surrealista che, al contrario, idealizzava il "pazzo" credendolo più "spontaneo". Sulla scorta di un mal compreso Freud, il surrealista Breton equiparava il pazzo, o anche il paziente sottoposto alla "regola fondamentale" in psicoanalisi freudiana, direttamente al poeta. Lo stesso Freud, tuttavia, negò l'equivalenza "paziente=poeta" proposta da Breton, dicendo a Dalì che nel Surrealismo, seppure vi si potesse riconoscere "l'inconscio", tuttavia non si trovava alcun indizio di "coscienza". Nella psicologia dell'arte freudiana il valore dell'analisi, similmente al valore poetico dell'artista, consiste nel rendere fruibili i contenuti dell'inconscio anche a livello di coscienza per mezzo dell'"interpretazione" o per mezzo della "sublimazione". Per l'ingegnere futurista, che costruisce aerei e macchine da corsa "più belle della Vittoria di Samotracia [...] La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo" (Filippo Tommaso Marinetti, Fondazione e Manifesto del Futurismo, Le Figaro, 1909).
La via surrealista fu portata alle estreme conseguenze attraverso l'esperienza artistica dell'americano Jackson Pollock, il quale, lanciatosi alla ricerca delle radici inconsce del poeta spontaneo, andò talmente all'indietro nella scala evolutiva da trovarsi la strada sbarrata dalla scimmia, dal bambino, dal pazzo e dall'allucinato, indubbiamente più "spontanei" di lui.
La via futurista ha portato all'esplorazione del Cosmo, ai Satelliti Artificiali, alle Navi Spaziali, all'ingegneria dei sistemi complessi, all'invenzione del Web, del Computer, del calcolo dei processi stocastici, a movimenti artistici come Pop Art, Concettualismo, Installazione, Performance, Happening, Eventualismo (Sergio Lombardo, L'irruzione della realtà nell'arte e nella psicoanalisi, Rivista di Psicologia dell'Arte, n. 8, 1997).

Durante l'inaugurazione della sua recentissima mostra presso l'Officina Solare di Termoli (CB), presentando le sue nuove composizioni automatiche di pavimenti stocastici, ha affermato: "A volte mi chiedono, probabilmente a causa della razionalità stringente del mio lavoro, se io sia un appassionato giocatore di scacchi. Rispondo sempre che, invece, amo giocare a dadi". Anche nel metodo più rigoroso permane un elemento di irrazionalità, che sfugge al controllo dell'artista, il quale deve fare i conti con l'aleatorietà degli eventi. Qual è il ruolo del caso nei processi creativi?
La psicologia della creatività divide il processo creativo in due fasi contrapposte: la fase della produzione di risposte originali in assenza di critica (che ricorda il metodo surrealista o la "regola fondamentale" di Freud) e la fase della selezione della risposta più adatta (che ricorda l'interpretazione psicoanalitica e la sublimazione). Gli evoluzionisti sostengono che la natura usa un metodo anch'esso in due fasi contrapposte: la produzione di errori casuali e la selezione del più adatto (c'è evoluzione quando un errore risulta per caso più adatto degli eventi senza errori).
Le macchine creative hanno un'Intelligenza Artificiale che genera risposte casuali attraverso i numeri random, servendosi di procedure stocastiche, per poi selezionare fra tutte le risposte ottenute quella in grado di risolvere il problema. All'interno dell'Intelligenza Artificiale si pone il seguente problema: come velocizzare la procedura e rendere più intelligente il sistema? Si può trovare una procedura di randomizzazione in cui il caso risolutivo è anche quello più frequente? Questo problema equivale alla Teoria della Complessità ed è identico al problema psicologico di chi scommette al gioco dei dadi nel momento in cui sta per fare un lancio.

Attività artistica e ricerca teorica e sperimentale pura sono i due versanti del suo operare, inscindibili e da sempre coltivati con instancabile dedizione. Quali sono stati i traguardi scientifici più rilevanti raggiunti in più di trent'anni di attività con il Centro Studi Jartrakor e attraverso la pubblicazione della Rivista di Psicologia dell'Arte?
Lei mi chiede di svelare l'assassino del romanzo giallo per evitare di leggerlo. La risposta è contenuta nell'ultima mostra in cui sono state esposte delle nuove procedure automatiche per la composizione di pavimenti stocastici.


Sergio Lombardo è nato a Roma nel 1939. Dopo gli studi classici e di giurisprudenza si è dedicato alla ricerca artistica e alla psicologia sperimentale dell'estetica. Come artista ha fatto parte dell'avanguardia storica internazionale e della Scuola Romana degli anni Sessanta. È fondatore della Teoria Eventualista, da cui è nato un movimento artistico e teorico basato su metodi sperimentali. Il suo lavoro artistico è caratterizzato da programmatica discontinuità e può essere raggruppato in periodi o cicli ben distinti: Monocromi (1958-1961); Gesti Tipici (1961-1963); Uomini Politici Colorati (1963-1964); Supercomponibili (1965-1968); Sfera con sirena (1968-1969); Progetti di Morte per Avvelenamento (1970-1971); Concerti di Arte Aleatoria (1971-1975); Specchio Tachistoscopico con Stimolazione a Sognare (1979); Pittura Stocastica (1980-2013); Pavimenti Stocastici (1995); Mappe (1996-2002).
Dal 1977 è Direttore del Centro Studi Jartrakor, che svolge attività di ricerca sperimentale sulla Psicologia dell'Arte. In questa veste collabora con le più importanti cattedre universitarie e con i musei di tutto il mondo. Dal 1979 è Direttore della Rivista di Psicologia dell'Arte. Dal 1982 è professore presso l'Accademia di Belle Arti di Roma nell'insegnamento di Teoria della Percezione e Psicologia della Forma. Dal 1985 è membro dell'Associazione Internazionale di Estetica Empirica. Nel 1995 gli è stata conferita la nomina di Accademico dell'Università Internazionale di Mosca.
Ha esposto presso il Museo Nazionale d'Arte Moderna di Tokyo (1967), il Jewish Museum di New York (1968), il Centre Georges Pompidou di Parigi (1969, 1995), i musei di Mosca, San Pietroburgo, Varsavia, Stoccolma, Johannesburg. Nel 1970 ha ottenuto una sala personale al Padiglione Centrale della Biennale di Venezia. Nel 1995 ha allestito una retrospettiva presso il Museo d'Arte Contemporanea dell'Università di Roma "La Sapienza".

Per approfondire: