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venerdì 13 settembre 2013

Tre domande ad Andrea Bruciati

Critico e curatore da sempre attento alle nuove generazioni, nel 2013 lei ha fatto parte delle giurie o dei comitati di valutazione di alcuni dei più importanti concorsi e premi italiani per giovani artisti: il Premio Celeste, il Premio Combat, il Premio Francesco Fabbri (ancora in corso), per non parlare del Premio Moroso, nato da una sua idea e giunto ormai alla quarta edizione. Non crede che, da un certo punto di vista, questa tipologia di concorsi possa rappresentare un laboratorio prezioso per elaborare una teoria del valore fondata su criteri estetici aggiornati e innovativi rispetto a quelli rappresentativi ormai obsoleti, oltre che per riflettere sul ruolo dell'artista e sulle finalità del suo operare?
Ho sempre inteso il mio lavoro come prassi per la ricerca e l'idea di cantiere e laboratorio ha sin dal 2002 qualificato lo spazio che ero andato a gestire a Monfalcone, struttura che ho plasmato su questo indirizzo. Pertanto l'idea di valore, di per sé metamorfico, e di conseguenza il ruolo dell'artista e delle sue finalità si sono sempre intrecciate alla formulazione di un dizionario che doveva essere esaminato attraverso una critica continua e indefessa. Le modalità legate alla valutazione di un concorso sono anch'esse in movimento, come lo è la valutazione di un artista anche in funzione della sua crescita professionale. Poi, nello specifico dei premi, ognuno nasce con delle sue peculiarità, i suoi obiettivi ultimi differiscono così come le aspettative che questo comporta: quest'insieme di fattori per me li rende dei terreni impervi ma sempre stimolanti, sia per lo scouting e l'aggiornamento, sia per la possibilità di un confronto esperienziale e scientifico davvero unico. Si tratta in fondo di una sfida al mio concetto di valore che deve necessariamente essere posto in gioco, e difeso o modificato a seconda delle giurie e degli iscritti. Ho sempre creduto che la qualità dell'opera fosse il punto vettoriale su cui si imposta l'intero dibattito e questa è stata sempre una mia forza in sede di analisi, e pertanto di giudizio.

In seguito alle numerose esperienze come giurato, si sarà posto più volte il problema dell'adozione di criteri docimologici espliciti e condivisi nella valutazione del lavoro artistico. Pur nella consapevolezza dell'impossibilità di un giudizio oggettivo, non sarebbe auspicabile impiegare strumenti di selezione (ormai ampiamente diffusi in tutti i settori: dalla valutazione scolastica, ai concorsi pubblici, al reclutamento nel mondo del lavoro) che mirino all'imparzialità? Per fare un semplice esempio, riterrebbe possibile l'utilizzo, nel contesto di un concorso artistico, di griglie di valutazione con indicatori e descrittori chiari a cui attenersi in maniera uniforme? In tal caso, che peso darebbe a parametri come il curriculum e le esperienze professionali?
Dalle mie esperienze sul campo posso dire che questi strumenti docimologici possono offrire delle indicazioni e dei parametri importanti ma, seppur intenzionalmente oggettivi, non possono mai essere in ultima analisi sufficienti per l'individuazione dell'artista migliore. Potrà sembrare strano ma spesso mi sono trovato a dover confutare un potenziale vincitore, emerso dai dati quantitativi, che non rispondeva in realtà ad una eccellenza: per tutti quello era un artista buono ma per nessuno il migliore e questo gli consentiva di scalare le classifiche provvisorie. Curriculum ed esperienze professionali sono di certo importanti e vengono esaminati con il giusto rilievo ma personalmente non mi piace burocratizzare un percorso attraverso griglie di valutazione con indicatori e descrittori analiticamente spietati: sono degli indizi ma non possono garantire una valutazione che di per sé è sempre molto più ricca e complessa, stratificata e recondita, come è giusto che sia un'opera d'arte.

Nelle sue motivazioni per le selezioni, pubblicate sul sito del Premio Celeste, ha affermato: "Le istanze demagogiche che vogliono standardizzare dal basso la pretesa artisticità delle proposte (voce spesso insistente sul web) non bastano o non sono sufficienti a decretare la qualità, se non il successo di un'opera". Se però si considera che i gusti collettivi e l'adesione ai movimenti culturali sono spesso determinati da complessi e durevoli processi evolutivi che non coinvolgono soltanto gli intellettuali, ma anche il pubblico più vasto, viene da chiedersi se non si debba talvolta prestare ascolto alle voci insistenti che provengono dal basso. Il suo ideale corrisponde a un modello di cultura aristocratica o diffusa?
Il mio ideale corrisponde ad un modello democratico ma non demagogico: la mia esperienza come Direttore mi ha sempre portato ad ascoltare il pubblico e le sue necessità o problematicità. Ritengo che sia importante prestare attenzione a coloro che si interessano e argomentano il loro portato culturale perché io stesso credo nell'autocritica come metodo fondante e sano per rimanere in contatto con le istanze costruttive del presente. Caratterialmente ho sempre schivato le famose "voci di paese", omertose e sclerotizzanti, che non implicano responsabilità alcuna da parte dei delatori ma che spesso sono espressione di frustrazioni recondite e mancanza di coraggio.
Mi piace mettere le mani in pasta e difendo le mie scelte mettendomi sempre in gioco con me stesso, anche se mi rendo conto che questo non è glamour o politicamente corretto e mi avvicina più a Don Chisciotte che al curatore cool del momento.


Andrea Bruciati è nato a Corinaldo (AN) nel 1968. Si è laureato in Storia dell'Arte con una tesi su Lucio Fontana e Piero Manzoni ed è stato a capo della GC.AC – Galleria Comunale d'Arte Contemporanea di Monfalcone (GO) dal 2002 al 2011. Attualmente ricopre il ruolo di direttore artistico di ArtVerona. Collabora con varie testate specializzate e partecipa attivamente alla discussione sul ruolo di una rete nazionale di ricerca e formazione per l'arte contemporanea. Si interessa a tal proposito anche della promozione internazionale delle giovani generazioni che operano nella Penisola e alla diffusione dei nuovi media.

martedì 5 marzo 2013

Fenomenologia del capolavoro

Per quanto si possa guardare con interesse al trend filosofico "realista" e alla prospettiva di un "ritorno all'ontologia", non è possibile fare a meno di riconoscere che molti fenomeni legati alla ricezione di massa dei prodotti culturali siano fondati su una costruzione sociale più che su un criterio oggettivo di gusto. L'idea condivisa che un oggetto artistico sia un "capolavoro" passa necessariamente per dinamiche di mitizzazione che sono profondamente antirealiste. Non a caso gli anni Sessanta e Settanta (i decenni centrali della postmodernità) sono stati gli anni dei più pervasivi fenomeni di costume e hanno creato miti inossidabili (i Beatles o la Pop Art, per fare un paio di esempi). Oggi le dinamiche d'exploitation hanno accorciato sempre più i tempi di vita di "miti", "star" e "hit", diffondendo la percezione che non esistano più "capolavori", ma mode passeggere. In realtà la produzione culturale è diventata più ricca e più varia, con un'esplosione di contenuti collegata alla democratizzazione del sapere e all'accessibilità dei mezzi di produzione, anche a livello amatoriale. Sono cambiate profondamente le modalità di fruizione e troppo spesso, purtroppo, opere di grande valore restano voci nel deserto. Bisogna però ammettere che l'esistenza della "costruzione sociale/capolavoro" non è legata alla qualità dei prodotti artistici, ma al grado di condivisione sociale dei gusti. Le difficoltà che quest'epoca incontra nella produzione di capolavori sono probabilmente sintomi di una graduale emancipazione dalla massificazione culturale postmoderna. La costruzione di percorsi estetici individuali è forse il risultato dello spaesamento generato dalla ricchezza dell'offerta e dalla sovraproduzione, ma è pur sempre una forma di reazione all'impoverimento culturale. Per questo motivo, nella consapevolezza della perdurante irrilevanza dell'intrattenimento mainstream, la critica (in ogni settore) dovrebbe incentivare la creazione di percorsi paralleli e alternativi, più che cercare con ostinazione i "capolavori". Compito difficile, perché richiede la capacità di sapersi orientare nella ricchezza e nella varietà del complesso panorama contemporaneo, abbandonando le "classifiche". Compito nello stesso tempo ingrato, perché rende viaggiatori solitari, mentre gran parte del pubblico continua a subire passivamente il rating e si orienta verso i prodotti sul podio. Non si tratta, dunque, né di cavalcare le tendenze, né di crearne di nuove: solo di aprirsi alla complessità del reale.

domenica 3 febbraio 2013

C'è casta e casta...

La correlazione tra l'impoverimento qualitativo della produzione artistica e il trend liberista-relativista che semplifica e confonde i due piani, ben distinti, del mercato e dei processi creativi è per molti versi evidente. Di conseguenza, sarebbe opportuno evitare ogni sovrapposizione tra questioni legate alla commercializzazione dell'arte e riflessioni di carattere estetico o filosofico. Le considerazioni che seguono vanno quindi interpretate come spunti dal carattere essenzialmente socio-economico: non hanno la pretesa di indicare riferimenti etici, né vogliono in alcun modo abbozzare orientamenti normativi, ma solo suggerire l'idea che soluzioni politiche a portata di mano (ma a dire il vero decisamente impopolari presso l'artworld liberal-conservatore, che ha ancora fiducia nei miti dell'autoregolamentazione dei mercati e del laissez-faire) potrebbero dare una scossa ad un settore troppo spesso asfittico e svigorito.
Le prospettive di emancipazione dal sistema speculativo legato alla commercializzazione dei prodotti artistici (e culturali in genere), in questi tempi di crisi economica, vanno inquadrate in due possibili scenari, entrambi alternativi al mercato chiuso e autoreferenziale oggi dominante: deprofessionalizzazione o regolamentazione. Il primo è apocalittico, ovviamente. Il secondo passa per l'abbattimento di tutti i privilegi economici. Perché a un artista affermato o a un gallerista di successo (come anche a un calciatore, a una star della televisione o a un qualsiasi professionista) dovrebbe essere riservata la possibilità di lauti guadagni e, nel contempo, garantiti i privilegi fiscali derivanti dalla completa assenza di una tassazione veramente progressiva? Tutti sono pronti a lamentarsi dei costi della politica e dell'immoralità della "casta" dei parlamentari e degli amministratori locali. Perché non si riserva lo stesso trattamento a tutte le "caste", anche a quelle più popolari? Infrangere un circolo chiuso di privilegiati è il primo requisito per l'allargamento del pubblico. Un simile discorso non si adatta certo alle piccole gallerie che fanno enormi sacrifici per sopravvivere e sono spesso tentate dall'evasione o agli artisti emergenti e ai critici esordienti pagati in nero. Il loro comportamento non può che essere biasimato, ma spesso è un meccanismo di difesa dall'iniquità del sistema. Pochi galleristi, pochi artisti e pochi collezionisti tengono in piedi una macchina speculativa in grado di funzionare grazie a una rigorosissima selezione all'ingresso. Possono farlo perché il prelievo fiscale, in questo difficile momento, non si pone l'obiettivo, almeno in piccola parte, della redistribuzione. Tassare gli acquisti milionari, come anche tutte le rendite finanziarie, sulla base di principi differenti da quelli applicati per le piccole economie di produzione porterebbe vantaggi alla parte sana delle professionalità in campo culturale e artistico. Di conseguenza un pubblico più vasto si avvicinerebbe all'arte alla portata delle sue tasche (come accade nelle fiere "affordable" ormai piuttosto diffuse) con palesi effetti di democratizzazione. In un contesto del genere sarebbe poi meno inverosimile pretendere da tutti gli operatori la massima trasparenza sul piano fiscale.

venerdì 11 gennaio 2013

Tre domande a Luc Fierens

Uno dei presupposti della Mail Art è l'assenza di finalità commerciali: una comunità di artisti, ai quali non interessa entrare a far parte di un sistema istituzionale, dà vita a una rete per lo scambio di esperimenti poetici, libera da ogni condizionamento economico. La riqualificazione dell'arte in tempi di crisi passa per la deprofessionalizzazione o per la regolamentazione del mercato?
L'esigenza di creare una comunità per la circolazione e lo scambio di Mail Art (è il caso ad esempio di Eternal Network, la rete ideata da Robert Filliou) nasce in parte dal rifiuto del sistema ufficiale dell'arte, inteso come una struttura gerarchica e piramidale fondata sulle accademie, le scuole d'arte, i musei, i premi e le competizioni. Penso che il sistema sia in parte cambiato anche grazie a esperimenti non ufficiali, nati dalla collaborazione tra spazi alternativi, artisti e poi anche curatori indipendenti. Per esempio, il modello di esibizione aperta progettato per alcune esposizioni di Mail Art (penso al pionieristico progetto Omaha Flow Systems, curato nel 1973 da Ken Friedman, in cui ogni visitatore poteva portare a casa un'opera di suo gradimento, a patto di sostituirla con un lavoro di sua creazione) ha cambiato l'intero spettro delle possibilità per esporre arte al di fuori del mercato. Non parlerei, a tal proposito, di un approccio amatoriale o di deprofessionalizzazione, ma della nascita di un sistema alternativo. Anche poeti visuali come Carrega, Sarenco e Miccini cooperarono alla fondazione di spazi alternativi (Mercato del Sale, Studio Brescia); Pignotti e altri parteciparono diverse volte ai festival Fluxus di Charlotte Moorman a New York. Questo tipo di rivitalizzazione dell'arte implicava un approccio professionale e così accade anche adesso. Tuttavia le regole di mercato non sono stabilite dagli artisti, ma dalla speculazione, che nel contesto contemporaneo ha raggiunto i suoi massimi livelli: è sufficiente considerare il modo in cui un collezionista indipendente come Saatchi ha potuto condizionare il mercato. Forse è tempo di interrogare ancora questo sistema, agendo al suo interno come dentro un "cavallo di Troia". Mi sembra opportuno citare, a proposito del complesso rapporto tra attivismo e sistema dell'arte durante la crisi, le parole pronunciate in occasione di un'intervista per SHAREpro da Stefano Taccone, curatore indipendente napoletano che ho conosciuto al Mivhs, a Casavatore: "Fino a che punto l'artista attivista deve sfruttare in maniera parassitaria il sistema e fino a che punto, vice versa, deve mantenersi lontano da esso? Adottando la prima opzione può beneficiare dei suoi apparati a mo' di cassa di risonanza, ma rischia anche di farsi addomesticare dal sistema stesso e di funzionare come un anticorpo utile a neutralizzare i linguaggi del dissenso. Adottando la seconda opzione evita di oliare gli ingranaggi della megamacchina, ma rischia di condannarsi all'oblio, alla sparizione. Michel Foucault considera la sparizione una forma di resistenza, il che può anche essere vero, ma rimane su di un piano solitario, solipsistico ed infine elitario. È una resistenza per pochi in quanto strutturalmente impossibilitata a fare proseliti. Le vertenze connesse alle questioni di categoria sono solo un aspetto del più ampio fenomeno dell'arte attivista e – d'altra parte – in quanto rivendicazioni condotte da artisti – o comunque da operatori culturali – rappresentano senz'altro qualcosa di afferente all'attivismo ma non necessariamente e non sempre all'arte. Forse dovremmo distinguere tra arte attivista ed attivismo d'artista".

In che modo l'interesse per l'attitudine D.I.Y. ("Do it yourself"), tipica degli anni Ottanta, condiziona la sua ricerca? Nel suo lavoro prevale la componente rétro-nostalgica oppure la volontà di dialogare con la realtà e di rapportarsi al presente?
Per me l'attitudine D.I.Y. significa preferire il contenuto piuttosto che la tecnica. In questo modo posso utilizzare ogni strumento disponibile per diffondere le mie idee e rendere possibile la comunicazione. Si viene a creare così una connessione immediata con la realtà, perché i miei collage non nascono su Photoshop o per mezzo di copia e incolla digitali, ma derivano da una ricerca concreta di fotografie reali e non ritoccate con strumenti informatici che, combinate tra loro, diano vita a una nuova immagine. Spesso confronto immagini provenienti da epoche diverse, dagli anni Settanta ad oggi, per evidenziare i punti di contatto tra passato e presente e per rendere possibile un dialogo in grado di interrogare la realtà. Probabilmente la tecnica più congeniale ai poeti visivi è proprio il collage, come sostiene Melania Gazzotti: "Tale mezzo espressivo non solo offre la possibilità di raccordo tra linguaggi e codici diversi, ma permette anche il recupero della manualità nella creazione. L'artista realizza, infatti, in prima persona, una serie di operazioni dal prelievo al montaggio, attivando anche l'aspetto ludico caratteristico di questa tecnica. Inoltre, la scelta del collage e di materiali e supporti non convenzionali accresce l'attenzione verso la plasticità della scrittura e la sua collocazione spaziale, esaltando la concretezza e la fisicità del linguaggio" (Rivoluzione in parole. Nascita e sviluppo della poesia visiva in Italia in La parola nell'arte, catalogo della mostra a cura di Gabriella Belli presso il MART di Trento e Rovereto, Milano, Skira, 2007). Il collage ha recentemente ritrovato energia, grazie al contributo di artisti del XXI secolo. Sono anche convinto che l'impatto della protesta del '68 sia stato in parte recuperato grazie alla recente grande ondata di contestazioni, che darà slancio a un nuovo ciclo di azioni e reazioni, evoluzioni e rivoluzioni. Mi interessa rendere visibile tutto ciò nei miei lavori, che sono anche collegati ai miei progetti realizzati tramite e-mail, social media e mostre in gallerie e spazi alternativi, insieme a molti artisti e attivisti che lavorano e hanno lavorato in passato con Eternal Network. Non potrei lavorare in maniera individuale nella mia torre d'avorio: sono parte di una "architettura sociale", per usare le parole di Sal Randolph. Si tratta di creare "situazioni". Ad esempio, come mail artist e poeta visuale ho deciso nel 2002 di lavorare all'interno di Free Manifesta, che era un modello di collaborazione (on-line, off-line e in situ a Francoforte) tra diverse reti alternative connesse a situazioni reali.

Quando l'arte si occupa della società, inevitabilmente agisce sui codici comunicativi e apre nuove prospettive per l'interazione tra gli individui, modificando il linguaggio corrente. Quali sono le più significative e innovative strategie per la trasmissione dei significati introdotte dalla pratica della poesia visiva, a partire dagli anni Sessanta?
La diffusione dei mezzi di comunicazione di massa ha modificato profondamente il linguaggio, ampliando le sue potenzialità e incrementando la sua forza comunicativa attraverso l'associazione con l'immagine. I messaggi trasmessi dai mass media sono caratterizzati da una dimensione intersemiotica. Per come si è sviluppata a partire dagli anni Sessanta fino a oggi, la comunicazione di massa utilizza prevalentemente il canale visivo: passa attraverso gli occhi. Negli spazi pubblici come in quelli privati, si avverte una continua ricerca di attenzione, che punta all'occhio in ogni momento. La poesia visiva ha dimostrato la propria abilità nel saper creare un nuovo linguaggio poetico attraverso la combinazione di parola e immagine e ha così restituito la poesia, rendendola "visibile", alla società contemporanea. Gli esperimenti e i progetti di "poesia totale" di Adriano Spatola e di Sarenco hanno rappresentato vere e proprie forme di resistenza, fondate sulla ferrea volontà di partecipazione alle dinamiche sociali e sulla discussione aperta riguardo al significato dell'operare poetico. Considero inoltre la poesia visiva come estensione del principio del détournement (prima di Adbusters e dopo i situazionisti): rendere visibile il reale messaggio dei mass media. L'insieme di queste esperienze ha contribuito a generare uno spazio aperto di riflessione tra letteratura e arte, creando i presupposti per il proliferare di libri d'artista, zine, network di mail artist, installazioni (ancor prima della diffusione dell'arte concettuale), performance, intermedia (da Higgins in poi) e festival indipendenti. Intellettuali e artisti come Chiari, Moorman, Pignotti, Spatola e De Vree, ma anche riviste come Lotta Poetica e Doc(k)s, hanno influenzato le più recenti sperimentazioni nell'ambito della poesia elettronica (computer poetry, webpoetry, videopoetry). In definitiva, come scrive Valerio Deho: "Poesia concreta, poesia visiva, e in generale tutte le ricerche logo-iconiche, ma anche i vasti confini dell'Impero Fluxus, hanno riempito l'arte e la letteratura di parti comuni in nome di una libertà che è essenzialmente comunicazione con gli altri e partecipazione alla costruzione di significati che un'arte consapevole sempre richiede" (L'oggetto della poesia, ovvero la poesia dell'oggetto in Poesia oggetto, catalogo della mostra presso il Museo dell'Assurdo, Castelvetro di Modena, 2005).


Luc Fierens è collagista e poeta-provocatore visivo, è attivo in una rete di interrelazioni tra artisti nell'ambito della Poesia Visiva, dell'Arte Postale e di Fluxus. Le sue diverse espressività mettono l'accento su linguaggio e immagine come materia prima di esplorazione di forme alternative di comunicazione. In quest'ottica ha promosso un dialogo transnazionale, a partire dal 1984 e già prima della diffusione di Internet, mediante progetti di arte postale (Social-Art, Cornucopiae) e pubblicazioni (Postfluxpostbooklets). Attualmente la sua ricerca continua come "architettura sociale" con artisti con i quali scambia, trasmette e finalizza arte e progetti di collaborazione via posta ed e-mail e con i quali organizza incontri, performance, pubblicazioni e mostre. I suoi lavori e le pubblicazioni si trovano in archivi di grande interesse (Archivio Sackner - Miami, Artpool - Budapest), biblioteche (MoMA, Università di Buffalo), musei (MART - Trento e Rovereto) e diverse collezioni private (Fondazione Berardelli - Brescia).

Per approfondire:

martedì 5 giugno 2012

La noia è il peggior nemico

Quanto a lungo è necessario osservare e studiare un'opera d'arte per comprenderne pienamente le molteplici sfumature di senso? La risposta è soggettiva e dipende da diversi fattori quali l'acume critico dello spettatore, la stratificazione e l'effettiva portata del significato dell'opera, il contesto di fruizione e il bagaglio di conoscenze pregresse. In ogni caso, esclusa l'ipotesi che ci si trovi di fronte a una crosta, quasi mai saranno sufficienti i pochi secondi di attenzione che il pubblico in media riserva al lavoro degli artisti. Come non è sufficiente una rapida lettura per apprezzare la buona poesia e non basta un primo ascolto distratto per cogliere la complessità armonica della musica sinfonica. La soglia temporale della concentrazione non è però l'unica variabile rilevante. Un analfabeta non riuscirà mai a godere della bellezza dei versi più sublimi: per chi non è in grado di leggere, trascorrere del tempo sui libri, osservando segni incomprensibili, sarà un'attività noiosa e improduttiva. Allo stesso modo, la contemplazione di un'opera d'arte può generare noia nel pubblico per almeno un paio di motivi: il fruitore preparato potrà annoiarsi osservando lavori deboli e derivativi, ma anche la mostra più interessante potrà annoiare un pubblico incompetente. Risulta evidente l'importanza dello studio, delle conoscenze storiche, della padronanza dei diversi codici della comunicazione e, in generale, della ricchezza del patrimonio culturale affinché le sfide poste all'intelletto dalla creazione artistica non risultino "noiose".
Nei tempi dell'organizzazione mecenatistica della committenza (quel modello che Sacco chiama "Cultura 1.0") esisteva una concezione aristocratica dell'arte che rimuoveva completamente il problema della "noia". Durante l'età di Augusto, ad esempio, Orazio e gli altri autori del circolo di Mecenate scrivevano per una cerchia ristretta di destinatari, tutti dotati di una vasta cultura letteraria, e non si curavano di raggiungere un pubblico più ampio ma impreparato. Tra il XIX e il XX secolo, la transizione dal modello pre-industriale di produzione culturale all'organizzazione basata sul mercato (l'industria culturale, che Sacco chiama "Cultura 2.0") porta con sé sicuramente istanze di democratizzazione, ma contemporaneamente pone l'artista di fronte alle esigenze di un pubblico non sempre competente: una platea che, quindi, rischia di "annoiarsi" non solo di fronte a opere di scarso valore, ma anche a contatto con lavori troppo complessi. L'artista professionista è condizionato dalle leggi dell'economia: il mercato stabilisce i prezzi in base al gradimento e ai gusti delle masse e si viene a creare la pericolosa equazione che connette valore e prezzo. Così, se il nemico da combattere è la noia, i più comuni stratagemmi per attirare l'attenzione e il favore del pubblico diventano la provocazione, il kitsch e lo shock.
Oggi sembra che una maggiore attenzione all'approfondimento e all'argomentazione, un atteggiamento di apertura al dibattito intorno alle modalità di elaborazione del sapere e una sana attitudine alla ricerca seria e disciplinata non siano più prerogativa dei produttori "professionali" di contenuti. Il ruolo sociale dell'artista viene messo in discussione dalle nuove tecnologie, dalla connettività e dalle infinite risorse del web. Il rischio più grande di questo inedito modello di produzione e distribuzione dei contenuti è quello di una fruizione superficiale causata dall'eccedenza di informazioni. Comunque l'esercizio costante e appassionato dell'ingegno è il migliore antidoto alla noia.