mercoledì 31 luglio 2013

Tre domande ad Achille Pace

Le sue opere evocano l'immagine del labirinto e il mito di Teseo e Arianna. Il filo è dunque allusione simbolica a un itinerario o a un percorso da seguire per orientarsi nella complessità del reale?
Ritengo che il mio "filo" sia molto di più. Nel 1960 ne ho chiarito bene tutte le valenze simboliche nella mia dichiarazione di poetica che recita: "Il filo, oltre che essere realtà oggettiva, è anche carico di significati simbolici. Esso indica: discorso logico, misura, precarietà, equilibrio, costruzione, rapporto, relazione, comunicazione, vita e morte. Può esprimere il piano, il concavo, il convesso, la lentezza, la tensione, lo spazio. Può essere razionale o irrazionale, statico, dinamico, crescita, fine. Il filo segue momento per momento la nostra esistenza e ne testimonia, con il suo itinerario, i pericoli, la gracilità, il rigore, la forza, il pensiero in tutte le sue manifestazioni. Essendo il filo un oggetto, è dunque fuori di noi ma ha anche in noi, nel nostro inconscio, profonde radici che ci fanno essere, in definitiva, quello che siamo". In occasione dell'omaggio al mio lavoro, inserito nella manifestazione Autumn Contamination, tenuta a Campobasso dal 24 novembre 2011 al 4 dicembre dello stesso anno, negli spazi della AxA Palladino Company, il critico molisano Tommaso Evangelista ha formulato uno scritto che mi ha colpito per la particolare acutezza e sensibilità di lettura della mia opera: "La caratteristica principale dei lavori di Pace è l'uso del filo come traccia soggettiva e minimale che cerca di sovvertire le investigazioni analitiche più rigorose dell'arte concettuale per affermare un ordine del simbolico inteso quale spazio ipotetico di confronto tra segno e materia. Il filo, come elemento cardine di una sintassi personale, non è solo traccia che si sostituisce allo scorrere del pennello, ma anche metafora del gesto e, per traslato, del pensiero. [...] Le conformazioni labirintiche ottenute su un piano pittorico altamente suggestivo nelle gradazioni cromatiche si giovano di una serie di figure retoriche (di ritmo, di costruzione, di significato, di pensiero) esaltate dalle pause e dalle fratture. L'artista, quindi, con la sua (cre)azione non fa che esaltare i residui di una caduta dell'arte nella traccia che da 'accidente' diventa orma veritativa semplice ed elementare: la traccia (personale) immobile unita al concetto temporale di scia porta alla formazione di linee/itinerari che non sono nient'altro che estreme riduzioni dell'oggetto-mondo pensato".

Nel testo critico per la sua personale a Spoleto del 1977, Vanni Scheiwiller individuava nella sua poetica una netta concordanza di temi con l'Arte Povera. Se il segno, sostanziato dalla materia, è strumento espressivo d'identità, allora la povertà del mezzo nel suo lavoro non è forse stato un argomento troppo poco investigato?
Sono lieto che lei mi ponga questa domanda. In effetti sarebbe sufficiente rispondere senza neppure commentare nulla, ma semplicemente mostrando una qualsiasi delle mie opere a partire dal 1956. Essa si commenterebbe da sola. La povertà del mezzo usato e la ristrettezza dell'intervento segnico sulla superficie della tela, consistente in un campo neutro, di solito monocromo di un tono variabile dal grigio al nero fumo, inserisce la tipologia delle mie opere nel filone dell'arte minimal e dell'arte povera, anche se quest'ultimo aspetto viene poco evidenziato dalla critica militante attuale che preferisce attribuirmi il ruolo di "poeta del filo". Credo che il critico d'arte che con maggior convinzione abbia interpretato la mia pittura come espressione di "arte povera" sia stato proprio Vanni Scheiwiller, che nello scritto da lei citato afferma: "La poetica di Pace anticipa senza clamore i concettuali, la minimal, l'arte povera e, in genere, il post-informale come recupero del controllo, del rigore e della logica esistenziale nei confronti di un irrazionale esistenziale informale". Anche Silvana Sinisi ha voluto evidenziare la povertà del mezzo usato nel mio lavoro, descrivendo il processo creativo che è alla base della mia poetica minimale. Ma il rappresentante della critica d'arte storica che ha saputo esprimere il giudizio sul mio lavoro per me più significativo, è senza dubbio Giulio Carlo Argan. È indicativa la sintesi concettuale con la quale, in poche parole, ha descritto la mia essenza artistica nella presentazione al catalogo della mostra del Gruppo Uno alla Galleria Quadrante di Firenze, nel 1963: "I sinuosi ma esatti percorsi del filo nei campi opachi e deserti dei quadri di Pace tessono lo spazio da uno a infinito". E ancora, due concetti sintetici che sono due pietre miliari, con i quali definisce la mia pittura come: "Minimi di quantità, massimi di qualità". Anche in questi due termini c'è implicito tutto il concetto di arte povera.
Ogni mia opera testimonia un bisogno intimo di espressione d'arte all'unisono con la mia sensibilità. Ho voluto scegliere un mezzo umile, povero, ma ricco di natura, di ricerca e di sperimentazione del nuovo. È così che il mio filo sarebbe diventato la mia poetica. Il filo come scelta di materia che doveva tradursi in segno: "segno-materia". La tecnica richiede controllo, momento per momento nel suo farsi spazio-forma. Lo spazio deve essere la nostra viva presenza, la quantità, qualità e valore. Basterebbe mostrare alcuni stralci critici e i giudizi che in passato i rappresentanti più accreditati della critica storica hanno espresso sul mio lavoro per evidenziare la completa sintonia ed analogia con la tendenza poverista. Oggi l'arte povera è promossa dal suo critico più riconosciuto, che è Germano Celant. Se ci soffermiamo un momento a indagare tra le premesse sostanziali richieste agli artisti del suo gruppo, si può vedere che tutte si ritrovano, ma con un decennio di anticipo, nelle opere che ho iniziato già dal 1956. La povertà del mezzo è sempre stata una mia costante. Fin dagli inizi del mio percorso artistico ho privilegiato materiali poveri, semplici, naturali. Ho usato semplice terra, raccolta nei campi, legni trovati casualmente, stoffe senza valore, come juta e tela di cotone, da cui estraevo i fili che utilizzavo per creare immagini e creare i ritmi di tempo e di spazio. Ciò accadeva già alla fine degli anni Cinquanta, ancor prima che si cominciasse a parlare di arte povera, corrente nella quale mi sono automaticamente trovato coinvolto, non per seguire una moda ma perché rispondente esattamente alla mia poetica e alla mia spiritualità. Certo resta incomprensibile come in tanti anni non ci sia stata una consapevolezza, un coinvolgimento che inserisse il mio lavoro nel contesto di una tendenza che è l'emblema della mia poetica. Né si può pensare che il mio nome sia tanto sconosciuto da giustificare certe "distrazioni". Io mi aspetto sempre, in verità, che un varco si possa aprire.

La razionalità stringente del suo approccio alla pittura implica in qualche modo un superamento dello spontaneismo informale di matrice espressionista e surrealista, che interpretava il gesto artistico come immediata rappresentazione di istinti, passioni e conflitti. L'arte non è dunque solo sentimento, ma anche ragione?
I miei itinerari vogliono rappresentare un viaggiare nel mondo della conoscenza in uno spazio libero con alcuni punti di riferimento, esatti, ma senza limiti. Nel fare arte la presenza fisica e spirituale dell'artista deve essere forte e libera, senza riserve. Ho scelto il filo di cotone come mezzo che potesse sostituire il segno tracciato dalla mano con la matita: le vecchie modalità espressive non reggevano più.
La mia esperienza di operatore e artista si è mossa sempre attraverso la riflessione sulla storia dell'arte e la realtà esistenziale che personalmente mi attiene. A tal riguardo, ho sempre cercato la possibilità di far corrispondere le mie capacità alla storia, senza mai trascurare di essere spontaneo, autentico e libero. Mi ha informato il pensiero esistenziale, fenomenologico. Ho scelto il filo come continuità spazio temporale. Quello che nel pensiero esistenziale è "caduta", come nel caso di Pollock, nel mio caso è controllo, come superamento dell'informale, senza rinnegare quanto di esistenziale ha espresso nella fenomenologia dell'arte moderna. Sul piano formale le componenti fenomenologiche e razionali sono contraddizioni creative tipiche della cultura del nostro tempo, dovute alla caduta delle strutture europee e al grande conflitto mondiale. L'artista vuole rappresentare il suo interiore turbamento tra pensiero logico e atto esistenziale. Questa sospensione dell'essere tra ragione ed esistenza è ancora valida oggi e ben si addice alla sensibilità ed intelligenza creativa di molti artisti. Io sono spontaneamente portato all'esistenzialità del nostro tempo. La razionalità non risolve il concetto di superamento ma si sovrappone in maniera contraddittoria all'informale. Tutte le tecniche oggi sono valide, purché esprimano lo stato di vaga esistenza della realtà e di disorientamento del nostro tempo. Il pensiero esistenziale è umiltà e coraggio della propria coscienza. Non c'è creatività se l'artista non produce prima un "vuoto". Solo in questa condizione di spirito, la parola, il segno e l'immagine sono "veri". Nel linguaggio dell'arte, per dire la parola "giusta" devi trovarti nella condizione "giusta". All'inizio della Commedia, Dante si è trovato nel vuoto e "smarrito". Dopo, la parola è stata quella giusta. Anche Dante ha dovuto pescare nel suo inconscio.


Achille Pace è nato a Termoli nel 1923 e si è trasferito a Roma dodici anni più tardi: nella Capitale si è formato artisticamente assorbendo da un lato le suggestioni espressioniste della Scuola di via Cavour e dall'altro l'insegnamento di Giulio Turcato, che insieme agli artisti del Gruppo Forma interpretava la pittura come "fatto mentale". A queste contrapposte influenze si somma l'osservazione del lavoro degli espressionisti tedeschi e soprattutto di Klee nel lungo soggiorno svizzero a metà degli anni Cinquanta. Sono di questo periodo le prime mostre personali a Lugano, Arau, Ascona e Locarno. Una volta rientrato in Italia, la sua ricerca è incoraggiata da Giulio Carlo Argan: a partire dal 1960 rigore operativo e semplicità della materia si fondono nell'opera di Pace per dare vita a quella tecnica fondata sull'utilizzo del filo di cotone che diventerà il suo segno distintivo.
Il 1960 è anche l'anno in cui inizia il lungo percorso come direttore e animatore del Premio Termoli: grazie all'impegno profuso ha saputo donare alla sua Regione una manifestazione d'arte contemporanea capace di portare il Molise fuori dal tradizionale isolamento, in un costruttivo dialogo con la cultura italiana ed europea. La sua instancabile attività di consulente e di operatore non si è limitata all'organizzazione delle mostre annuali, ma ha condotto nel tempo alla costruzione della Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea di Termoli e di una pregevole collezione che, tra premi acquisto e donazioni, vanta un patrimonio di circa cinquecento opere in grado di testimoniare gli sviluppi della ricerca artistica in Italia nell'ultimo cinquantennio.
Nel 1962, durante i lavori del Premio Termoli, su invito di Argan e della dottoressa Palma Bucarelli, Pace pone le basi per la formazione di quello che sarà il Gruppo Uno, coinvolgendo prima Frascà e Santoro e in seguito, a Roma, Biggi, Carrino e Uncini. Il gruppo di artisti appena formato persegue il superamento delle correnti informali, per rifondare il linguaggio visivo in termini razionali. Per due volte Pace è stato invitato a partecipare alla Biennale di Venezia e una terza volta al progetto speciale della Biennale dal titolo Il tempo del Museo Venezia, nel 1980. Ha esposto in diverse edizioni della Quadriennale di Roma. Sue opere sono entrate a far parte delle collezioni della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, della Galleria Civica di Torino, Castello di Rivoli, dell'Ente Quadriennale di Roma e di numerose altre sedi civiche e museali.

Per approfondire:
Il testo integrale dell'intervista è stato pubblicato sul numero monografico della rivista ArcheoMolise a cura di Dora Catalano e Roberta Venditto, Pittura in Molise: luoghi e personaggi (Vincenzo Merola, Il filo e il labirinto. Intervista ad Achille Pace in ArcheoMolise n. 16, anno V, luglio/settembre 2013).