venerdì 13 settembre 2013

Tre domande ad Andrea Bruciati

Critico e curatore da sempre attento alle nuove generazioni, nel 2013 lei ha fatto parte delle giurie o dei comitati di valutazione di alcuni dei più importanti concorsi e premi italiani per giovani artisti: il Premio Celeste, il Premio Combat, il Premio Francesco Fabbri (ancora in corso), per non parlare del Premio Moroso, nato da una sua idea e giunto ormai alla quarta edizione. Non crede che, da un certo punto di vista, questa tipologia di concorsi possa rappresentare un laboratorio prezioso per elaborare una teoria del valore fondata su criteri estetici aggiornati e innovativi rispetto a quelli rappresentativi ormai obsoleti, oltre che per riflettere sul ruolo dell'artista e sulle finalità del suo operare?
Ho sempre inteso il mio lavoro come prassi per la ricerca e l'idea di cantiere e laboratorio ha sin dal 2002 qualificato lo spazio che ero andato a gestire a Monfalcone, struttura che ho plasmato su questo indirizzo. Pertanto l'idea di valore, di per sé metamorfico, e di conseguenza il ruolo dell'artista e delle sue finalità si sono sempre intrecciate alla formulazione di un dizionario che doveva essere esaminato attraverso una critica continua e indefessa. Le modalità legate alla valutazione di un concorso sono anch'esse in movimento, come lo è la valutazione di un artista anche in funzione della sua crescita professionale. Poi, nello specifico dei premi, ognuno nasce con delle sue peculiarità, i suoi obiettivi ultimi differiscono così come le aspettative che questo comporta: quest'insieme di fattori per me li rende dei terreni impervi ma sempre stimolanti, sia per lo scouting e l'aggiornamento, sia per la possibilità di un confronto esperienziale e scientifico davvero unico. Si tratta in fondo di una sfida al mio concetto di valore che deve necessariamente essere posto in gioco, e difeso o modificato a seconda delle giurie e degli iscritti. Ho sempre creduto che la qualità dell'opera fosse il punto vettoriale su cui si imposta l'intero dibattito e questa è stata sempre una mia forza in sede di analisi, e pertanto di giudizio.

In seguito alle numerose esperienze come giurato, si sarà posto più volte il problema dell'adozione di criteri docimologici espliciti e condivisi nella valutazione del lavoro artistico. Pur nella consapevolezza dell'impossibilità di un giudizio oggettivo, non sarebbe auspicabile impiegare strumenti di selezione (ormai ampiamente diffusi in tutti i settori: dalla valutazione scolastica, ai concorsi pubblici, al reclutamento nel mondo del lavoro) che mirino all'imparzialità? Per fare un semplice esempio, riterrebbe possibile l'utilizzo, nel contesto di un concorso artistico, di griglie di valutazione con indicatori e descrittori chiari a cui attenersi in maniera uniforme? In tal caso, che peso darebbe a parametri come il curriculum e le esperienze professionali?
Dalle mie esperienze sul campo posso dire che questi strumenti docimologici possono offrire delle indicazioni e dei parametri importanti ma, seppur intenzionalmente oggettivi, non possono mai essere in ultima analisi sufficienti per l'individuazione dell'artista migliore. Potrà sembrare strano ma spesso mi sono trovato a dover confutare un potenziale vincitore, emerso dai dati quantitativi, che non rispondeva in realtà ad una eccellenza: per tutti quello era un artista buono ma per nessuno il migliore e questo gli consentiva di scalare le classifiche provvisorie. Curriculum ed esperienze professionali sono di certo importanti e vengono esaminati con il giusto rilievo ma personalmente non mi piace burocratizzare un percorso attraverso griglie di valutazione con indicatori e descrittori analiticamente spietati: sono degli indizi ma non possono garantire una valutazione che di per sé è sempre molto più ricca e complessa, stratificata e recondita, come è giusto che sia un'opera d'arte.

Nelle sue motivazioni per le selezioni, pubblicate sul sito del Premio Celeste, ha affermato: "Le istanze demagogiche che vogliono standardizzare dal basso la pretesa artisticità delle proposte (voce spesso insistente sul web) non bastano o non sono sufficienti a decretare la qualità, se non il successo di un'opera". Se però si considera che i gusti collettivi e l'adesione ai movimenti culturali sono spesso determinati da complessi e durevoli processi evolutivi che non coinvolgono soltanto gli intellettuali, ma anche il pubblico più vasto, viene da chiedersi se non si debba talvolta prestare ascolto alle voci insistenti che provengono dal basso. Il suo ideale corrisponde a un modello di cultura aristocratica o diffusa?
Il mio ideale corrisponde ad un modello democratico ma non demagogico: la mia esperienza come Direttore mi ha sempre portato ad ascoltare il pubblico e le sue necessità o problematicità. Ritengo che sia importante prestare attenzione a coloro che si interessano e argomentano il loro portato culturale perché io stesso credo nell'autocritica come metodo fondante e sano per rimanere in contatto con le istanze costruttive del presente. Caratterialmente ho sempre schivato le famose "voci di paese", omertose e sclerotizzanti, che non implicano responsabilità alcuna da parte dei delatori ma che spesso sono espressione di frustrazioni recondite e mancanza di coraggio.
Mi piace mettere le mani in pasta e difendo le mie scelte mettendomi sempre in gioco con me stesso, anche se mi rendo conto che questo non è glamour o politicamente corretto e mi avvicina più a Don Chisciotte che al curatore cool del momento.


Andrea Bruciati è nato a Corinaldo (AN) nel 1968. Si è laureato in Storia dell'Arte con una tesi su Lucio Fontana e Piero Manzoni ed è stato a capo della GC.AC – Galleria Comunale d'Arte Contemporanea di Monfalcone (GO) dal 2002 al 2011. Attualmente ricopre il ruolo di direttore artistico di ArtVerona. Collabora con varie testate specializzate e partecipa attivamente alla discussione sul ruolo di una rete nazionale di ricerca e formazione per l'arte contemporanea. Si interessa a tal proposito anche della promozione internazionale delle giovani generazioni che operano nella Penisola e alla diffusione dei nuovi media.

mercoledì 11 settembre 2013

L'arte del dialogo

Più di qualcuno (Ludovico Pratesi su Flash Art, Luca Rossi su Artribune) ha rimproverato a Bartolomeo Pietromarchi la scelta di aver invitato quattordici artisti per il suo Padiglione Italia alla 55esima Biennale di Venezia, dichiarando che avrebbe preferito una dieta ancor più rigorosa dopo la caotica scorpacciata dell'edizione passata. Simili considerazioni hanno trovato appiglio nel confronto con gli altri padiglioni nazionali, che puntano i riflettori nella maggior parte dei casi su uno o al massimo due artisti veramente significativi. Eppure il Padiglione Italia è da sempre un caso a sé: è consuetudine che il Paese che ospita la Biennale sia rappresentato da una grande mostra collettiva, capace di documentare gli sviluppi dell'arte italiana con un preciso disegno curatoriale. Lo spazio alle Tese delle Vergini, inoltre, per le sue stesse dimensioni (1800 metri quadri), è difficilmente pensabile come adatto a una personale; i padiglioni stranieri hanno in media una superficie quattro volte più piccola e una struttura decisamente più adatta, sul piano funzionale, per ospitare uno o pochi artisti, come in genere avviene. Da questo punto di vista la coppia Penone-Vezzoli, proposta da Ida Giannelli nel 2007, può essere considerata un'eccezione, come il progetto "fuori misura" di Sgarbi nel 2011, sul versante opposto.
Al di là delle polemiche sui numeri, il Padiglione Italia di Pietromarchi sembra funzionare alla perfezione: riesce a guidare i visitatori in un complesso itinerario attraverso le differenti e stratificate identità dell'arte italiana di oggi. Ma soprattutto lascia emergere con forza quella dimensione relazionale, quella predisposizione al confronto, al rispecchiamento e al dialogo che costituisce un prerequisito irrinunciabile per una ricerca consapevole e strettamente legata alla percezione della realtà e del presente. Pietromarchi ha saputo mettere in comunicazione le diverse attitudini, linguaggi e modalità operative del variegato panorama artistico italiano, ma ha voluto nello stesso tempo evidenziare una continuità fatta di derivazioni e corrispondenze tra i maestri riconosciuti e le giovani promesse. Così la memoria e l'eredità storica sono individuate come nodo centrale intorno al quale può svilupparsi la relazione dialettica tra passato e presente, senza la quale verrebbe meno ogni progettualità. Le mille contraddizioni della cultura italiana, dal divario tra Nord e Sud all'asprezza dello scontro politico e ideologico, si materializzano in opere il cui punto di forza è la capacità di conciliare le differenze. La sintesi scaturisce dall'attrito tra le coppie oppositive, che trasforma questioni irrisolte in solide basi per la realizzazione di un faticoso ma (purtroppo ancora) necessario processo di costruzione identitaria. Il rapporto tra il singolo e la collettività, punto dolente in un paese in cui i piccoli egoismi e gli interessi di parte hanno da sempre prevalso sul bene comune (si pensi al male endemico dell'evasione fiscale), è ampiamente investigato in questo Padiglione Italia. Delle sette coppie di temi sui quali gli artisti sono stati chiamati a interrogarsi criticamente, almeno la metà implica una riflessione profonda sulle relazioni intercorrenti tra l'individuo e la comunità. Prima fra le declinazioni di tale antinomia, la problematica rivisitazione del nesso tra corpo e storia è il filo rosso che unisce la riproposizione della performance Ideologia e Natura (1973) di Fabio Mauri e il rigore dei pilastri colmi di terra di Francesco Arena, monumenti alla memoria di tutte le stragi della contemporaneità. Le fotografie di Luigi Ghirri e l'installazione olfattiva di Luca Vitone, centrate sul tema del paesaggio nella duplice accezione di veduta e luogo, offrono l'occasione per un'analisi attenta delle modalità di rappresentazione del territorio: dalla narrazione per frammenti dei contesti urbani e naturali, che rivelano nella molteplicità dei dettagli la pluralità dei punti di vista, agli itinerari intimi suggeriti da un profumo capace di sostituire la visione nel disegnare spazi dal forte valore simbolico. La tensione tra estraneo e familiare caratterizza, invece, i lavori di Flavio Favelli e Marcello Maloberti: rielaborazioni a metà tra l'ironico e il poetico di tracce biografiche e memorie personali, mescolate a suggestioni tipiche della cultura popolare italiana. Le strutture di Gianfranco Baruchello e il pavimento di Elisabetta Benassi riportano la scissione tra particolare e generale all'interno di una logica ordinatrice e razionale, capace di collocare frammenti apparentemente scollegati all'interno di un sistema: la necessità di catalogazione e l'incontenibile potenza visionaria dell'inconscio si manifestano come due aspetti complementari della creatività artistica. Le due stanze dedicate ai binomi suono/silenzio e prospettiva/superficie, la prima occupata dalle opere di Massimo Bartolini e Francesca Grilli, la seconda da quelle di Giulio Paolini e Marco Tirelli, spostano l'attenzione sui meccanismi che regolano l'operare artistico e sull'interazione tra l'opera e l'ambiente che la ospita. Di grande impatto emotivo il percorso tra le solenni macerie in bronzo ideato da Bartolini e scandito dalle parole/musiche di Giuseppe Chiari. Tirelli e Paolini si cimentano in uno studio sublime e minuzioso delle dinamiche universali che regolano la visione e la percezione dei fenomeni sensibili: il loro contributo è tra i più ambiziosi, perché rivela la dimensione illusoria dell'arte, perennemente sospesa sul confine sottile e precario che separa la realtà dalla finzione. Per finire, nel giardino del Padiglione, dedicato al dualismo tragedia/commedia, sono collocati il lavoro probabilmente più incisivo e quello nel complesso meno convincente di Vice versa. La trovata di Sislej Xhafa disorienta, incuriosisce, ma non lascia il segno. La "scultura a perdere" di Piero Golia è invece geniale nella sua semplicità, immediata nel generare la reazione del pubblico, rigorosa nell'operazione concettuale, che agisce direttamente sulla tanto dibattuta questione del valore dell'opera d'arte. La verifica dello scarto tra valore simbolico e valore economico, in questo caso annullato dall'azione del pubblico attraverso una sorta di rovesciamento paradossale di ogni logica di mercato, va oltre la provocazione e suggerisce alternative concrete alle forme tradizionali di finanziamento, compravendita e scambio delle opere d'arte. La stessa operazione di crowdfunding realizzata da Pietromarchi ha dimostrato che possono esistere pratiche di condivisione divergenti rispetto alle consuete modalità di fruizione pubblica e privata dell'arte. Può darsi che proprio il diffondersi di un modello di committenza esteso e partecipativo possa favorire il superamento di quell'approccio puramente "economico" al lavoro artistico (ancora molto diffuso) che vuole le valutazioni di ordine culturale subordinate al valore monetario di un'opera. In un suo recente articolo per La Repubblica, Maurizio Ferraris ha scritto: "I bisogni di bellezza e di emozione sono molti, ed è un peccato che si possano realizzare solo in oggetti immediatamente consumabili. In questo senso, il crowdfunding viene a riparare una ingiustizia oggettiva nel mondo delle arti". Nel caso di Vice versa la raccolta fondi ha contribuito in maniera significativa a sostenere le produzioni degli artisti e le attività di promozione, comunicazione e mediazione culturale collegate alla mostra. Purtroppo, con il moltiplicarsi delle iniziative e con il diffondersi della "moda" del finanziamento dal basso, di tanto in tanto, di fronte a progetti particolarmente deludenti, è lecito il sospetto che, più che di crowdfunding, si tratti di "crowdfooling".

mercoledì 4 settembre 2013

Tre domande a Maurizio Spatola

Il complesso mosaico della poesia sperimentale del secondo dopoguerra è costituito da una molteplicità di tasselli, ognuno dei quali ha contribuito al superamento dei confini tra i codici espressivi delle differenti discipline artistiche. Sulla base della sua personale esperienza come editore, cronista e osservatore, in che modo componenti così diverse hanno interagito (tra dinamiche di differenziazione e tentativi di sintesi) per generare infine la profonda trasformazione del linguaggio e delle modalità comunicative che si è verificata tra il 1950 e il 1980?
Il travalicamento dei confini tra i linguaggi espressivi e comunicativi delle diverse forme d'arte era già stato suggerito e praticato dalle avanguardie storiche, in particolare dai futuristi italiani e russi e dai dadaisti. A ben guardare l'inizio di questa trasformazione si può intravedere già nella poesia Voyelles di Arthur Rimbaud (1871) e nel famoso Coup de dés di Stéphane Mallarmé (1897). E a indicare la necessità di percorrere questa via è anche Wassily Kandinsky in uno dei suoi interventi all'interno dell'antologia del Blaue Reiter (1912).
In cosa consiste la differenza con ciò che accade a partire dagli anni Cinquanta, con le profonde novità non solo sul piano della scrittura, ma anche su quello dell'arte visiva, ad esempio con l'Informale e poi con la Pop Art? Secondo quanto affermava l'americano Dick Higgins sviluppando il concetto di "Intermedia", che fece da perno all'attività del movimento Fluxus di cui fu tra i fondatori (con George Brecht e George Maciunas), questa rivoluzione nei e fra i linguaggi delle diverse arti non era che la conseguenza delle profonde trasformazioni sociali in atto: "Siamo vicini all'alba di una società senza classi nella quale la suddivisione rigida in categorie non avrà più senso".
Diversamente dai precedenti storici, i "nuovi" poeti, pittori, musicisti, ecc. non prendevano spunto da movimenti teoricamente organizzati, ma nascevano spontaneamente, spesso all'insaputa gli uni degli altri, ma creando opere analoghe, in vari paesi del mondo: ne è un esempio classico la poesia concreta, nata contemporaneamente, attorno alla metà degli anni Cinquanta, in Brasile (Noigandres), Svizzera (Eugen Gomringer), Germania (Franz Mon), Italia (Carlo Belloli), trovando nel 1958 in Max Bense, docente a Stuttgart, un lucido teorizzatore, in particolare nel suo impegnativo saggio Aesthetica, pubblicato in Italia nel 1974 dall'editore Bompiani, nella traduzione di Giovanni Anceschi.
In Italia, i primi segnali di questa interazione, o contaminazione, tra i diversi linguaggi artistici, si avvertono nella prima metà degli anni Sessanta in riviste quali "Bab Ilu" (Bologna), "Malebolge" (Reggio Emilia), in cui c'era lo zampino di mio fratello Adriano che nella seconda gettò sul campo di battaglia, con Giorgio Celli e Corrado Costa, l'idea del Parasurrealismo; ma anche nella romana "Ex" di Emilio Villa e nella napoletana "Linea Sud" fondata dagli scrittori Mario Diacono e Stelio Maria Martini con il pittore Mario Persico. Intanto a Firenze nasce il Gruppo 70 di Eugenio Miccini, Luciano Ori e Lamberto Pignotti ("Techne"), a Genova Anna e Martino Oberto pubblicano "Ana eccetera", mentre Ugo Carrega e Vincenzo Accame danno alle stampe il primo numero di "Tool". E a Torino, nel 1959, esce il primo numero di "Antipiugiù", rivista fondata da Arrigo Lora Totino e altri; lo stesso Lora Totino curerà nel 1966 l'antologia di poesia concreta Modulo, oltre a fondare lo "Studio di informazione estetica" con il pittore Sandro De Alexandris e il musicista Enore Zaffiri. Sul versante prettamente artistico un precedente importantissimo è rappresentato dal MAC, Movimento d'Arte Concreta (che nel nome si rifaceva al "concretismo" di Van Doesburg e Kandinsky), fondato nel 1948 a Milano da Attanasio Soldati, Gillo Dorfles e Bruno Munari e a cui aderirono in seguito personaggi come Gianni Bertini, Plinio Mesciulam, Luigi Veronesi, Carla Accardi, Piero Dorazio e Achille Perilli.
Ma l'avvenimento più importante, che consacra questo nuovo atteggiamento degli artisti di ogni genere, è l'incontro internazionale Parole sui muri a Fiumalbo, sull'Appennino modenese, nell'agosto 1967, organizzato da mio fratello con Corrado Costa e Claudio Parmiggiani, con la complicità del visionario sindaco Mario Molinari, al quale presi parte anch'io, non ancora ventunenne. Poco prima i tre fratelli Spatola avevano assemblato, a Torino, il primo numero dell'Antologia sperimentale Geiger (che nel titolo, preso dal contatore della radioattività, esprimeva appunto il concetto di contaminazione) raccoglitore non casuale di questo bailamme di esperienze, anche contraddittorie, ma feconde. Ciò che mi colpisce maggiormente, nei miei ricordi degli esplosivi accadimenti letterari e artistici di quegli anni, è l'assenza quasi totale di ostilità o competizione tra quanti esprimevano e praticavano modalità differenti, o addirittura divergenti, di inedite forme espressive. Atteggiamento collaborativo che si dissolse presto, ahimè.

Dopo la realizzazione della prima antologia Geiger, frutto della collaborazione tra i fratelli Spatola, nasce nei primi mesi del 1968, tra Bologna e Torino, la casa editrice omonima, che avrebbe operato per tutto il decennio successivo all'insegna dello sperimentalismo poetico e artistico. Risale all'anno successivo la prima edizione del fondamentale saggio di suo fratello Adriano: Verso la poesia totale. Che ricordo conserva di quei giorni?
L'idea delle Edizioni Geiger prese forma e si sviluppò rapidamente nell'autunno-inverno del 1967, subito dopo l'incontro di Fiumalbo e sull'onda del successo riscontrato, seppure in ambito ristretto ma internazionale, dalla prima Antologia sperimentale, sulle cui particolari modalità di realizzazione, mantenute identiche per tutti i numeri successivi, rimando all'introduzione di Geiger 1 nel mio sito archiviomauriziospatola.com (sezione "Edizioni Geiger" punto 11). Il vulcanico motore creativo di questa come di altre iniziative era sempre mio fratello Adriano, ma senza il contributo, non solo pratico, dei suoi due giovani fratelli la Casa editrice non avrebbe preso piede. I primi due libri, Il pesce gotico di Giorgio Celli e A test di Franco Vaccari (un poeta-scienziato e un pittore fotografo), videro la luce rispettivamente a Bologna e Modena, uscendo da una tipografia. I due successivi, O Babel di Adriano Malavasi e A capo di Gregorio Scalise, furono invece realizzati a Torino con il metodo artigianale dell'Antologia: le singole pagine vennero sì stampate in una piccola tipografia ma i libri furono assemblati manualmente dal sottoscritto e dal fratello sedicenne Tiziano sul tavolo della sala da pranzo dei genitori, alquanto sbigottiti da quell'inusitato trambusto. Questi quattro libri sono riprodotti integralmente nel mio sito e nelle singole presentazioni si possono trovare dettagli curiosi sul nostro modus operandi.
Dall'aprile del 1968 la sede delle Edizioni Geiger, registrate a mio nome presso la Camera di Commercio, venne stabilita definitivamente a Torino, prima presso l'abitazione dei nostri genitori, poi dal gennaio 1969 (data del mio matrimonio) presso la mia. Fu un inizio frenetico, in poco più di un anno pubblicammo una ventina di titoli, promuovendo una seconda collana "poesia", accanto alla prima, che avevamo denominato, in modo programmatico, "sperimentale", come l'Antologia da cui avevamo preso le mosse. Più chiaro di così il progetto non poteva essere: la ricerca sui nuovi linguaggi espressivi dei vari generi letterari e artistici, a livello internazionale, segnalata dai ticchettii del nostro speciale rilevatore Geiger, costituiva l'humus di fondo del nostro piccolo ma infaticabile lavorio. Entrammo così a far parte di quella che già nel 1971 venne definita "esoeditoria", in un convegno organizzato a Trento (vedi nel mio sito la sezione "Archivio", punto 18). Non eravamo i soli a dare spazio alle voci alternative, in qualche caso con pretese "rivoluzionarie" nell'accezione politica del termine (vedi la rivista "Lotta poetica" del bresciano Sarenco), ma quel sentimento collaborativo e amichevole che aveva contrassegnato gli anni Sessanta andò via via affievolendosi, per dare campo alla concorrenza, non solo sul piano delle idee.
Noi procedemmo per la nostra strada, soprattutto dopo il passaggio della sede operativa nel casale di Mulino di Bazzano, nella provincia parmense, dove Adriano s'era trasferito da Roma nel 1971 con la sua compagna di vita e di esperienze letterarie Giulia Niccolai. Da questo momento la mia vita cambiò: avendo un lavoro a Torino piuttosto impegnativo fui obbligato a divenire un "editore pendolare", con non pochi sacrifici (mia moglie non ne era molto contenta), mentre mi sobbarcavo nella mia abitazione la gestione amministrativa e commerciale della casa editrice. Con l'uscita nel marzo '72 del primo numero della rivista di poesia "Tam Tam", diretta da Adriano e Giulia, l'arco di attività delle Edizioni Geiger si espanse e raggiunse il suo apice: in un decennio pubblicammo oltre centoventi libri e ventiquattro numeri di "Tam Tam". E nel 1978 apparve il primo numero della rivista di poesia fonetica in audiocassette "Baobab", diretta da Adriano e pubblicata dall'editore musicale Ivano Burani di Reggio Emilia. Dal 1981 mio fratello proseguì da solo le pubblicazioni di "Tam Tam", altri trentatré numeri più una sessantina di libri editi come supplementi della rivista. Dal 1981 al 1984 Adriano diresse anche la rivista "Cervo volante" per l'editore romano Etrusculudens (Tommaso Cascella). La sua morte nel novembre 1988, a soli 47 anni, pose fine a tutto.
La pubblicazione nel 1969 da parte dell'editore Rumma di Salerno del saggio Verso la poesia totale (riedito poi con aggiornamenti nel 1978 a Torino da Paravia in una collana diretta dal Prof. Luciano Anceschi, maître à penser di Adriano), costituisce certo una pietra miliare nella poetica e nel pensiero filosofico di mio fratello. Sì, anche filosofico, in quanto su filosofi come Sartre, Husserl, Marx, Wittgenstein, Horkheimer e Adorno, senza contare Voltaire, si erano innestate, sin da giovanissimo, le radici del suo "ragionar". La data della prima edizione di Verso la poesia totale è in un certo senso simbolica: nell'agosto del 1969 esce infatti l'ultimo numero di "Quindici", la rivista romana che per tre anni era stata la "voce" del Gruppo 63, alla quale Adriano e Giulia avevano dato un notevole contributo, appartenendo entrambi a quel movimento sin dalle sue origini. La frattura fra "impegnati" e "letterati" che aveva imposto la chiusura di "Quindici" e posto fine all'esperienza del Gruppo 63 era stata vissuta da Adriano in modo traumatico, ma la decisione di dedicarsi soprattutto alla ricerca dell'autentico ruolo della poesia e dei poeti stava già diventando per lui il punto cruciale della sua esistenza. In questa direzione va interpretata la stesura del saggio, che offre un panorama completo delle esperienze internazionali su forme alternative di scrittura visuale, dalla poesia visiva alla concreta, con ampi accenni ai precedenti storici. Come lo stesso Adriano riconosce, il concetto di "poesia totale" non è farina del suo sacco, affondando le sue radici non solo nel movimento Fluxus e dintorni, ma in precedenti illustri dadaisti (Marcel Duchamp, Man Ray) e surrealisti, in particolare nell'amato André Breton, del quale mio fratello condivideva l'idea del poeta come sciamano.

Nel suo scritto Etica, rigore, anarchismes nella poetica di Adriano Spatola, pubblicato tre anni fa sulla rivista Testuale, afferma che, dopo gli eventi degli ultimi anni Sessanta, la poesia totale: "Sarebbe divenuta per Adriano una forma mentis, che ne avrebbe contrassegnato non solo il lavoro poetico, ma il comportamento stesso, fino nei minimi gesti quotidiani". Crede che l'instancabile ricerca di suo fratello mirasse a un'ideale fusione di arte e vita? Può la vita seguire i percorsi dell'immaginazione, oppure è l'arte a dover fare inevitabilmente i conti con la realtà?
Domanda da un milione di dollari. La fusione fra arte e vita non ha certo caratterizzato solo l'esistenza di mio fratello Adriano, ma tranne rare eccezioni, non ha mai significato la confusione tra i due piani. Sono migliaia gli artisti (poeti, scrittori, pittori, scultori, musicisti, attori, drammaturghi, architetti, ecc.) sulla cui tomba si potrebbe tranquillamente scrivere l'epitaffio: "Una vita per l'Arte". Caravaggio, Mozart, Verdi, Baudelaire, Rodin, Pirandello, Gassman, Gaudí, Niemeyer, Proust, Kerouac, Tagore, Garcia Lorca, solo per fare qualche esempio di ogni categoria, non hanno forse vissuto fino in fondo la loro creatività sino a farne parte integrante della propria esistenza? Adriano Spatola è stato uno fra coloro che hanno portato alle estreme conseguenze la loro fatica per affermare un'idea nuova dell'arte (nel suo caso la poesia), senza compromessi e senza bramosie di successo o di guadagno, anche se qualche piccola soddisfazione di questo genere se l'è tolta pure lui (vedi partecipazione al Maurizio Costanzo Show poco prima di morire). Giulia Niccolai, sua compagna nell'avventura di "Tam Tam" e di vita dal 1968 al 1979, ne ha così descritto la sofferenza in modo per me mirabile: "La poesia è stata per Adriano il solo ruolo possibile, il suo tormento va attribuito all'incapacità di scalfire la convinzione granitica di questa sua scelta, di capire quale errore egli avesse commesso [...] La sua poesia può essere letta come una sfida al limite dello svuotamento del significato della poesia stessa, e la sua diciamo battaglia contro i 'monumenti' della poesia, va comunque sempre considerata alla luce del suo sforzo di penetrare nell'insondabilità della comunicazione. Questo il filo di rasoio sul quale egli scelse di portare avanti la sua ambiziosa provocazione. E se la giustizia letteraria passa attraverso le intenzioni, quel molto di sforzo pagato da ogni poeta, Adriano l'ha pagato con la vita".


Maurizio Spatola è nato nel 1946 a Stradella (Pavia) e vive attualmente a Sestri Levante, sulla Riviera Ligure. Ha studiato al liceo classico "Galvani" di Bologna, a due passi dall'Osteria di via dei Poeti, frequentata dai futuri protagonisti dell'avanguardia letteraria bolognese. Interrotti gli studi universitari di filosofia e intrapresa a Torino la carriera giornalistica, ha lavorato a lungo per l'Editrice La Stampa e in seguito come freelance per diversi periodici.
Ha fondato con il fratello Adriano, nel 1968, le edizioni Geiger, di cui ha curato le note antologie sperimentali. Le edizioni Geiger, attive fra l'Emilia e il capoluogo piemontese nel campo della sperimentazione artistica e letteraria, hanno pubblicato, artigianalmente e in tirature limitate negli anni Settanta e Ottanta, libri e riviste, la più nota delle quali è il periodico di poesia Tam Tam, diretto da Adriano Spatola e Giulia Niccolai.
Poesie concrete e visuali di Maurizio Spatola sono state pubblicate fra il 1967 e il 1972 nell'antologia integrante il libro di Ezio Gribaudo Il peso del concreto (Torino 1968) e sulle riviste Chicago Review (USA), Ovum 10 (Uruguay), La Battana e Signal (Yugoslavia), Approches e Doc(k)s (Francia), Mec, Pianeta, Quindici e Tool (Italia). Suoi scritti sulla poesia d'avanguardia sono apparsi su alcuni quotidiani e varie riviste letterarie.
Nel 2001 ha perso l'uso della vista. Nonostante ciò, convinto che la realtà e l'esistenza stessa siano il prodotto di un paradosso patafisico, continua ad occuparsi di poesia visuale e arti visive.

Per approfondire: