mercoledì 23 gennaio 2013

Tre domande a Michele Dantini

In Geopolitiche dell'arte. Arte e critica d'arte italiana nel contesto internazionale dalle neoavanguardie ad oggi (Milano, Marinotti Edizioni, 2012) l'indagine sull'arte contemporanea è condotta con uno sguardo attento a fenomeni e processi spesso trascurati, come i rapporti tra centro e periferia, le retoriche identitarie, la comprensione e la ricostruzione dei contesti sociali, il riconoscimento dei più specifici tratti antropologici. Quale valore aggiunto può derivare da un approccio che mescola etnografia e cultural studies nel settore della critica e della storia dell'arte?
La domanda è: com'è possibile restituire correttamente alla storia dell'arte dimensioni comunitarie, trasformare una routine filologica in una coinvolgente, veridica storia collettiva? A mio parere una narrazione contemporaneistica riesce quando incoraggia la maturazione di una competenza autobiografica nel destinatario, dunque mobilita in lui consapevolezze storiche e sociali sopite. E ancora: qual è la posizione più perspicace, per l'interprete, riguardo alla gran messe di testimonianze che gli artisti, i curatori, le reti amicali lasciano degli eventi?
La storia culturale italiana è caratterizzata da interruzioni profonde, improvvisi mutamenti di dizionario e cesure sanguinose. La diversità culturale che talvolta rivendichiamo è forse da rintracciare proprio nell'estrema commistione di paradigmi, lingue e culture, nella frammentarietà e dispersione di voci o documenti; nei caratteri come di palinsesto di un'eredità culturale che appare doversi riscrivere generazione dopo generazione per effetto di eventi storici di formidabile intensità e portata, e che ha equivalenti nelle tradizioni diasporiche piuttosto che in quelle degli stati nazionali occidentali.
La necessità di considerare criticamente autobiografie, manifesti, interviste e dichiarazioni autografe si consolida con il trascorrere del tempo, quando le testimonianze su un particolare artista, una particolare epoca si accumulano diventando disparate e innumerevoli. E si fa acuta per i decenni più recenti, quando artisti, curatori, galleristi, sono particolarmente interessati a costruire e diffondere "mito" individuale, di movimento, generazionale. La scelta di adottare una prospettiva storiografica critica, partecipe e distaccata insieme, discende dal proposito di sospendere l'adesione al "mito". L'indagine in chiave di cultural studies privilegia aspetti trascurati della produzione artistica, distanti dal piano promozionale: tecniche e stili di riconoscimento professionale, codici sociali e culturali di appartenenza, retoriche e luoghi comuni figurativi, politiche autoriali.

In uno dei suoi saggi (Una storia di sedie e cortei) la vicenda di Michelagelo Pistoletto diventa esemplificativa dello scenario complesso che si è venuto a creare, a partire dagli anni Sessanta, in seguito alla profonda frattura tra le logiche economiche internazionali e le identità culturali e artistiche locali. L'artista racconta, in un'intervista rilasciata a Celant, di avere scelto, alla fine del 1964, di rimanere a lavorare in Italia, nonostante l'esplicito invito del suo gallerista Leo Castelli a trasferirsi negli Stati Uniti. L'episodio è stato probabilmente amplificato da Pistoletto, per sottolineare la sua volontà di sfuggire al dominio culturale americano e di reagire ai vincoli e alle limitazioni imposte dal mercato. Questa versione autobiografica, oggi normativa, ha in qualche modo influenzato la lettura del percorso di ricerca poverista dell'artista piemontese, dagli Oggetti in meno in poi. Con acume filologico, nel suo libro, segue il filo rosso che unisce i quadri specchianti, i polittici bianchi di Rauschenberg e quel Quadro da pranzo che si può considerare capitolo iniziale degli Oggetti in meno, dimostrando la scarsa cautela storiografica di chi descrive la serie come equivalente artistico di un discorso operaista. L'intreccio di contenuti politici e di scelte di marketing rende dunque "populista" e opportunistica la mobilitazione sociale di Pistoletto? In che misura simili riserve possono estendersi al gruppo di Celant e consigliare quindi una lettura "cauta" dell'impegno antisistemico del movimento poverista? È possibile che l'immagine dell'arte italiana all'estero sia stata in qualche modo fraintesa e trasfigurata attraverso una sottile mistificazione che ha livellato le sfumature tra identità artistiche differenti, negli anni Settanta e ancora in seguito?
Alla sua prima domanda rispondo: in parte sì. Ne consegue dunque che non possiamo attenerci ancora oggi a logore versioni ufficiali che trattano l'Arte povera come un movimento "antisistema", come lei lo chiama. Le retoriche politiciste adottate da Celant per un breve giro di anni hanno senso nel contesto preinsurrezionale dell'Italia del tempo. Mi riferisco in particolare al biennio 1967-1969. Le tesi sulla "guerrilla" sono fantasiose, se considerate in termini strettamente filologici. Perché però dovremmo considerarle solo così? Certo non crediamo che Paolini abbia mai inteso incutere "terrore" o che Pistoletto sia un artista intrinsecamente politico. Resta che gli Appunti per una guerrilla (1967) ebbero grande fortuna, risultarono calzanti al momento (ricordiamo che Che Guevara era stato appena ucciso e commemorato solennemente in tutte le librerie Feltrinelli) e contribuirono al duraturo successo di un disparato rassemblement di artisti bravi o bravissimi. Quanto al "fraintendimento" dell'arte italiana: è prevedibile che la storiografia angloamericana privilegi determinati orizzonti interpretativi più congeniali o accessibili e ne tralasci altri. Certo esiste una distorsione prospettica, talvolta sottilmente pedagogica: l'Arte povera oggi è interpretata come contestazione del passato fascista della nazione o equivalente figurativo del pensiero operaista. Sarà proprio così? Personalmente faccio fatica a scoprire dimensioni antagonistiche in Marisa Merz, Calzolari o Boetti.

La fragilità del senso di appartenenza alla comunità nazionale è sempre stata una tara tipicamente italiana, dalla discesa dei Longobardi ad oggi, passando per l'occupazione araba e poi normanna, per l'età dei Comuni, delle Signorie e degli Stati regionali, per il dominio angioino, aragonese e austriaco, per il Risorgimento, la dittatura fascista e la "Seconda Repubblica". In che modo questa cornice storiografica ha condizionato il discorso critico e la produzione artistica?
Restringo l'ambito cronologico della risposta. Lo studio delle retoriche identitarie è passato più inosservato nell'ambito della storia dell'arte contemporanea italiana forse perché queste emergono in alcuni momenti, tendono invece a sottrarsi allo sguardo in altri. Eppure arte, storia e critica d'arte partecipano dello sforzo educativo e civile cui tende ciascuna pratica culturale dal Romanticismo in poi, con più forza nei decenni postrisorgimentali, nel primo Novecento e tra le due guerre. Si tratta di educare gli italiani, di abilitarli a diventare cittadini, di trasformare tratti antropologici avvertiti come deteriori. Il progetto pedagogico non si dissolve d'un tratto: persiste ancora negli anni Sessanta e Settanta, sia pure in forma sporadica o meglio spettrale. Talune (vestigia di) retoriche identitarie circolano ancora oggi, ma disgiunte da una qualsiasi progettualità storica. Una mia tesi formulata in Geopolitiche è: nei decenni postbellici non si esce dal dibattito sulla cultura nazionale, sul "carattere" o la "missione" (l'identità) italiani neppure quando si dedicano studi ai maestri delle avanguardie storiche o ai laboratori della modernità transnazionale. Esemplifichiamo con Argan: è per più versi evidente, nella celebre monografia da lui dedicata al Bauhaus, che "Gropius" sta per "Mario Pagano". Altri, come il Brandi dei secondi anni Quaranta e Cinquanta, scrivono "Dewey" e intendono in buona parte "Giovanni Gentile". Si cerca di sottrarre alla condanna e all'oblio una parte almeno della cultura italiana del Ventennio. Il progetto politico di Lionello Venturi, al rientro dall'esilio americano, è quello di bandire le retoriche identitarie dal discorso storico-artistico. Nel suo caso le retoriche autorizzate della critica d'arte saranno dunque internazionalistiche, ma la motivazione che sospinge lo storico e il critico, il sottotesto antifascista o defascistizzante, è ancora interamente nazionale. Questo per la critica. Come il dilemma identitario orienti la produzione artistica è il tema portante di Geopolitiche: i saggi dedicati a Manzoni, Pistoletto, Schifano, Kounellis, Paolini, De Dominicis e Cattelan costituiscono alcuni momenti tra i più storiograficamente rilevanti dell'intera ricerca.


Saggista, storico e critico d'arte, blogger, Michele Dantini insegna all'università del Piemonte orientale ed è visiting professor presso università nazionali e internazionali. Laureatosi e perfezionatosi presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, The Courtauld Institute (Londra), Eberhard Karls Universität (Tubinga), dirige il Master MAED al Castello di Rivoli Museo di arte contemporanea. È interessato a temi di critica istituzionale, alle pratiche neoconcettuali di indagine e viaggio, al rapporto tra immagine e parola. Tra le pubblicazioni più recenti: Geopolitiche dell'arte. Arte e critica d'arte italiana nel contesto internazionale dalle neoavanguardie ad oggi (Milano, 2012); Arte contemporanea, ecologia e sfera pubblica (Roma, 2012); Humanities e innovazione sociale (Milano, 2012); Horses and other herbivores (Bezalel Academy of Art and Design, Jerusalem 2010). Suoi progetti sono stati esposti presso: Fondazione Merz, Torino; CCCS Strozzina, Firenze; Centro di arte contemporanea Luigi Pecci, Prato; Centre de la Photographie, Ginevra; MAO, Torino; Maxxi, Roma. Collabora a Alfabeta2, Doppiozero, Il giornale dell'arte, ROARS, il manifesto.

Per approfondire:

sabato 19 gennaio 2013

Cibarsi d'aria

Era inevitabile che nel 2012, l'anno del cinquantesimo anniversario della nascita di Fluxus, si puntassero i riflettori sul movimento che più di ogni altro ha promosso lo sconfinamento degli atti creativi nel quotidiano. Con la complicità della crisi economica, il clima generale di attenzione nei confronti di Fluxus sembra aver portato con sé una rivalutazione dell'equazione che unisce l'arte alla vita e alla politica. La storia dimostra quanto la cultura e la pratica artistica abbiano influenzato le scelte esistenziali degli individui e il destino politico delle collettività. Le diverse concezioni del mondo si basano su elaborazioni che affondano le radici nella filosofia, nella letteratura e nelle arti in generale. Le trasformazioni del pensiero si riflettono sul destino del mondo, perché tutto ciò che gli uomini costruiscono è stato prima, in un modo o nell'altro, immaginato. Ciò vale per gli sviluppi positivi e per quelli negativi nell'evoluzione della società: le utopie e le distopie, frutto di un pensiero condiviso, hanno in molte occasioni agito parzialmente sul reale, modificandolo.
La realtà può quindi inseguire la fantasia, ma immaginazione e azione si collocano su due piani quasi sempre distinti e paralleli, che spesso si sfiorano dando l'impressione della convergenza, senza mai tuttavia potersi incontrare e fondere pienamente. L'arte rincorre la perfezione e facilmente supera la realtà nel momento in cui rinuncia alle forme naturali per investigare le potenzialità del suo linguaggio. Allora entra nel regno del pensiero, del concetto puro, faticando per rimanere in equilibrio e non perdere di vista la corporeità. Questo esercizio sicuramente rende migliore l'uomo, ne espande le potenzialità, gli consente di acquisire competenze che tornano utili non solo sul versante spirituale, ma anche nella vita terrena e quotidiana. Tuttavia, se la pratica artistica fosse limitata al rapporto con il mondo, se non ci fosse differenza tra creare un'opera d'arte e agire nella realtà, tra fruizione artistica e esperienza del mondo, verrebbe meno il senso stesso del fare arte. Immaginare è esperienza differente dall'avvertire con i sensi.
La politica, che è lo strumento privilegiato attraverso cui l'uomo cambia il mondo, da un certo punto di vista rincorre anch'essa la perfezione, ma non può farlo con la stessa libertà dell'arte. La politica è, al contrario dell'arte, indissolubilmente vincolata al reale. Per questo motivo ricorre molto poco (per fortuna) all'astrazione e molto di più (quando è buona politica) al compromesso. In democrazia, ad esempio, decide la maggioranza, ma nel rispetto delle esigenze e dei diritti delle minoranze. Le legittime aspirazioni della maggioranza al cambiamento devono fare i conti con principi ineludibili. A questo servono le costituzioni. Un artista può rimuovere liberamente ogni ostacolo che incontra lungo il suo percorso di ricerca e sperimentare senza restrizioni. Un uomo di governo non può fare a meno di confrontarsi con i limiti imposti dalla realtà. Solo i dittatori più folli decidono di rimuoverli con noncuranza.
Esiste dunque una grande differenza tra arte e politica; voler stabilire quindi il primato dell'arte sulla politica (o della politica sull'arte) sarebbe come voler stabilire il primato dell'aria sul cibo. Non è possibile sopravvivere senza respirare o senza mangiare. Si tratta di due bisogni profondamente diversi e in qualche modo legati tra loro per il benessere dell'uomo. Tuttavia supporre l'interscambiabilità di aria e cibo sarebbe una pretesa assurda e non avrebbe senso tentare di cibarsi d'aria o di respirare pane. Sarebbe opportuno tenere distinti e separati due fenomeni attualmente piuttosto diffusi: da un lato la legittima aspirazione al recupero dei principi di realtà e di verità, dimenticati durante la postmodernità più relativista; dall'altro le ambizioni radicali di chi insegue il sogno dell'arte totale. Il primo è positivo e mira al progressivo e graduale miglioramento delle condizioni di vita dell'uomo attraverso la consapevolezza e la critica costruttiva. Il secondo, pur muovendo da buone intenzioni, non può che condannare al fallimento e alla frustrazione e conduce al nichilismo.

venerdì 11 gennaio 2013

Tre domande a Luc Fierens

Uno dei presupposti della Mail Art è l'assenza di finalità commerciali: una comunità di artisti, ai quali non interessa entrare a far parte di un sistema istituzionale, dà vita a una rete per lo scambio di esperimenti poetici, libera da ogni condizionamento economico. La riqualificazione dell'arte in tempi di crisi passa per la deprofessionalizzazione o per la regolamentazione del mercato?
L'esigenza di creare una comunità per la circolazione e lo scambio di Mail Art (è il caso ad esempio di Eternal Network, la rete ideata da Robert Filliou) nasce in parte dal rifiuto del sistema ufficiale dell'arte, inteso come una struttura gerarchica e piramidale fondata sulle accademie, le scuole d'arte, i musei, i premi e le competizioni. Penso che il sistema sia in parte cambiato anche grazie a esperimenti non ufficiali, nati dalla collaborazione tra spazi alternativi, artisti e poi anche curatori indipendenti. Per esempio, il modello di esibizione aperta progettato per alcune esposizioni di Mail Art (penso al pionieristico progetto Omaha Flow Systems, curato nel 1973 da Ken Friedman, in cui ogni visitatore poteva portare a casa un'opera di suo gradimento, a patto di sostituirla con un lavoro di sua creazione) ha cambiato l'intero spettro delle possibilità per esporre arte al di fuori del mercato. Non parlerei, a tal proposito, di un approccio amatoriale o di deprofessionalizzazione, ma della nascita di un sistema alternativo. Anche poeti visuali come Carrega, Sarenco e Miccini cooperarono alla fondazione di spazi alternativi (Mercato del Sale, Studio Brescia); Pignotti e altri parteciparono diverse volte ai festival Fluxus di Charlotte Moorman a New York. Questo tipo di rivitalizzazione dell'arte implicava un approccio professionale e così accade anche adesso. Tuttavia le regole di mercato non sono stabilite dagli artisti, ma dalla speculazione, che nel contesto contemporaneo ha raggiunto i suoi massimi livelli: è sufficiente considerare il modo in cui un collezionista indipendente come Saatchi ha potuto condizionare il mercato. Forse è tempo di interrogare ancora questo sistema, agendo al suo interno come dentro un "cavallo di Troia". Mi sembra opportuno citare, a proposito del complesso rapporto tra attivismo e sistema dell'arte durante la crisi, le parole pronunciate in occasione di un'intervista per SHAREpro da Stefano Taccone, curatore indipendente napoletano che ho conosciuto al Mivhs, a Casavatore: "Fino a che punto l'artista attivista deve sfruttare in maniera parassitaria il sistema e fino a che punto, vice versa, deve mantenersi lontano da esso? Adottando la prima opzione può beneficiare dei suoi apparati a mo' di cassa di risonanza, ma rischia anche di farsi addomesticare dal sistema stesso e di funzionare come un anticorpo utile a neutralizzare i linguaggi del dissenso. Adottando la seconda opzione evita di oliare gli ingranaggi della megamacchina, ma rischia di condannarsi all'oblio, alla sparizione. Michel Foucault considera la sparizione una forma di resistenza, il che può anche essere vero, ma rimane su di un piano solitario, solipsistico ed infine elitario. È una resistenza per pochi in quanto strutturalmente impossibilitata a fare proseliti. Le vertenze connesse alle questioni di categoria sono solo un aspetto del più ampio fenomeno dell'arte attivista e – d'altra parte – in quanto rivendicazioni condotte da artisti – o comunque da operatori culturali – rappresentano senz'altro qualcosa di afferente all'attivismo ma non necessariamente e non sempre all'arte. Forse dovremmo distinguere tra arte attivista ed attivismo d'artista".

In che modo l'interesse per l'attitudine D.I.Y. ("Do it yourself"), tipica degli anni Ottanta, condiziona la sua ricerca? Nel suo lavoro prevale la componente rétro-nostalgica oppure la volontà di dialogare con la realtà e di rapportarsi al presente?
Per me l'attitudine D.I.Y. significa preferire il contenuto piuttosto che la tecnica. In questo modo posso utilizzare ogni strumento disponibile per diffondere le mie idee e rendere possibile la comunicazione. Si viene a creare così una connessione immediata con la realtà, perché i miei collage non nascono su Photoshop o per mezzo di copia e incolla digitali, ma derivano da una ricerca concreta di fotografie reali e non ritoccate con strumenti informatici che, combinate tra loro, diano vita a una nuova immagine. Spesso confronto immagini provenienti da epoche diverse, dagli anni Settanta ad oggi, per evidenziare i punti di contatto tra passato e presente e per rendere possibile un dialogo in grado di interrogare la realtà. Probabilmente la tecnica più congeniale ai poeti visivi è proprio il collage, come sostiene Melania Gazzotti: "Tale mezzo espressivo non solo offre la possibilità di raccordo tra linguaggi e codici diversi, ma permette anche il recupero della manualità nella creazione. L'artista realizza, infatti, in prima persona, una serie di operazioni dal prelievo al montaggio, attivando anche l'aspetto ludico caratteristico di questa tecnica. Inoltre, la scelta del collage e di materiali e supporti non convenzionali accresce l'attenzione verso la plasticità della scrittura e la sua collocazione spaziale, esaltando la concretezza e la fisicità del linguaggio" (Rivoluzione in parole. Nascita e sviluppo della poesia visiva in Italia in La parola nell'arte, catalogo della mostra a cura di Gabriella Belli presso il MART di Trento e Rovereto, Milano, Skira, 2007). Il collage ha recentemente ritrovato energia, grazie al contributo di artisti del XXI secolo. Sono anche convinto che l'impatto della protesta del '68 sia stato in parte recuperato grazie alla recente grande ondata di contestazioni, che darà slancio a un nuovo ciclo di azioni e reazioni, evoluzioni e rivoluzioni. Mi interessa rendere visibile tutto ciò nei miei lavori, che sono anche collegati ai miei progetti realizzati tramite e-mail, social media e mostre in gallerie e spazi alternativi, insieme a molti artisti e attivisti che lavorano e hanno lavorato in passato con Eternal Network. Non potrei lavorare in maniera individuale nella mia torre d'avorio: sono parte di una "architettura sociale", per usare le parole di Sal Randolph. Si tratta di creare "situazioni". Ad esempio, come mail artist e poeta visuale ho deciso nel 2002 di lavorare all'interno di Free Manifesta, che era un modello di collaborazione (on-line, off-line e in situ a Francoforte) tra diverse reti alternative connesse a situazioni reali.

Quando l'arte si occupa della società, inevitabilmente agisce sui codici comunicativi e apre nuove prospettive per l'interazione tra gli individui, modificando il linguaggio corrente. Quali sono le più significative e innovative strategie per la trasmissione dei significati introdotte dalla pratica della poesia visiva, a partire dagli anni Sessanta?
La diffusione dei mezzi di comunicazione di massa ha modificato profondamente il linguaggio, ampliando le sue potenzialità e incrementando la sua forza comunicativa attraverso l'associazione con l'immagine. I messaggi trasmessi dai mass media sono caratterizzati da una dimensione intersemiotica. Per come si è sviluppata a partire dagli anni Sessanta fino a oggi, la comunicazione di massa utilizza prevalentemente il canale visivo: passa attraverso gli occhi. Negli spazi pubblici come in quelli privati, si avverte una continua ricerca di attenzione, che punta all'occhio in ogni momento. La poesia visiva ha dimostrato la propria abilità nel saper creare un nuovo linguaggio poetico attraverso la combinazione di parola e immagine e ha così restituito la poesia, rendendola "visibile", alla società contemporanea. Gli esperimenti e i progetti di "poesia totale" di Adriano Spatola e di Sarenco hanno rappresentato vere e proprie forme di resistenza, fondate sulla ferrea volontà di partecipazione alle dinamiche sociali e sulla discussione aperta riguardo al significato dell'operare poetico. Considero inoltre la poesia visiva come estensione del principio del détournement (prima di Adbusters e dopo i situazionisti): rendere visibile il reale messaggio dei mass media. L'insieme di queste esperienze ha contribuito a generare uno spazio aperto di riflessione tra letteratura e arte, creando i presupposti per il proliferare di libri d'artista, zine, network di mail artist, installazioni (ancor prima della diffusione dell'arte concettuale), performance, intermedia (da Higgins in poi) e festival indipendenti. Intellettuali e artisti come Chiari, Moorman, Pignotti, Spatola e De Vree, ma anche riviste come Lotta Poetica e Doc(k)s, hanno influenzato le più recenti sperimentazioni nell'ambito della poesia elettronica (computer poetry, webpoetry, videopoetry). In definitiva, come scrive Valerio Deho: "Poesia concreta, poesia visiva, e in generale tutte le ricerche logo-iconiche, ma anche i vasti confini dell'Impero Fluxus, hanno riempito l'arte e la letteratura di parti comuni in nome di una libertà che è essenzialmente comunicazione con gli altri e partecipazione alla costruzione di significati che un'arte consapevole sempre richiede" (L'oggetto della poesia, ovvero la poesia dell'oggetto in Poesia oggetto, catalogo della mostra presso il Museo dell'Assurdo, Castelvetro di Modena, 2005).


Luc Fierens è collagista e poeta-provocatore visivo, è attivo in una rete di interrelazioni tra artisti nell'ambito della Poesia Visiva, dell'Arte Postale e di Fluxus. Le sue diverse espressività mettono l'accento su linguaggio e immagine come materia prima di esplorazione di forme alternative di comunicazione. In quest'ottica ha promosso un dialogo transnazionale, a partire dal 1984 e già prima della diffusione di Internet, mediante progetti di arte postale (Social-Art, Cornucopiae) e pubblicazioni (Postfluxpostbooklets). Attualmente la sua ricerca continua come "architettura sociale" con artisti con i quali scambia, trasmette e finalizza arte e progetti di collaborazione via posta ed e-mail e con i quali organizza incontri, performance, pubblicazioni e mostre. I suoi lavori e le pubblicazioni si trovano in archivi di grande interesse (Archivio Sackner - Miami, Artpool - Budapest), biblioteche (MoMA, Università di Buffalo), musei (MART - Trento e Rovereto) e diverse collezioni private (Fondazione Berardelli - Brescia).

Per approfondire:

sabato 5 gennaio 2013

Shay Frisch: la trappola del metodo

L'artista non vuole più confondere arte e vita, risolvere le antinomie della storia, ma operare uno sprofondamento, un salto in avanti nella ricerca. Alla parzialità quotidiana l'artista oppone la totalità relativa dell'opera, che ha dismesso tutte le allusioni mimetiche alla teatralità della vita e ha invece conquistato una sua splendente superficie.
(Achille Bonito Oliva, Campo: moduli spirituali dell'arte in Shay Frisch. Campo 100535 B/N, catalogo della mostra, Galleria nazionale d'arte moderna, Roma, Gli Ori, 2012)

Maria Vittoria Marini Clarelli colloca l'arte di Shay Frisch in quella "zona fredda" in cui si raccolgono le poetiche che sembrano prescindere dalla soggettività e dall'emotività: il costruttivismo, il minimalismo, l'arte programmata e optical, ad esempio. I campi elettromagnetici dell'artista israeliano, composti da sequenze di prese industriali assemblate in modo da formare ampie installazioni, possono essere interpretati come variazioni sul tema della superficie, nella scia della tradizione del Novecento italiano. Il lavoro di Frisch, come quello di Fontana, Scheggi, Castellani e Bonalumi, è fondato sulla disciplina del gesto ripetuto, in cui si materializza l'idea, che sconfina appena dal piano bidimensionale, senza infrangere mai la barriera che separa opera e mondo. In tanti hanno provato (e provano tuttora) a superare questo limite invalicabile, rincorrendo la pericolosa ambizione dell'opera d'arte totale oppure confondendo ingenuamente arte e vita. Da Duchamp a Fluxus, intellettuali e artisti mossi dalle migliori intenzioni hanno tentato di innestare il processo creativo nel quotidiano, raccogliendo la sfida di un'arte fatta d'ordinarietà, che però ha condannato a morte se stessa. Il nobile fine perseguito era troppo ambizioso: modificare un mondo imperfetto con gli strumenti visionari del creativo, senza possedere l'abile diplomazia e la concretezza del politico.
L'approccio analitico e controllato di Frisch è invece consapevole dei limiti e delle potenzialità del messaggio artistico: richiede rigore, pazienza e metodo. Ponendo un freno all'urgenza di far pressione sulla vita e rinunciando alla pretesa di generare effetti dirompenti, si accontenta di produrre una disciplinata interferenza, un'intrusione a distanza, una sovrapposizione che fa leva sul linguaggio, accettando le regole della comunicazione artistica. Alla scompostezza ingerente e sgraziata dello shock preferisce il riserbo cromatico del bianco e nero e il silenzio autorevole dei moduli che nascondono sottotraccia il flusso energetico, per poi svelarlo nella serialità infinita di sorprese luminose. La geometria insegna a interpretare lo spazio come insieme di regole da rispettare. La libertà può esistere a condizione di essere subordinata alle norme del vivere civile: un mondo nuovo andrebbe progettato nel rispetto delle leggi preposte alla tutela del bene collettivo. Allo stesso modo, le più innovative forme d'arte non dovrebbero avvertire le peculiarità del linguaggio come vincoli o inibizioni: il segno, le forme, i colori, i suoni, i materiali, le lettere e le parole sono in fondo elementi modulari che, combinati insieme in infinite variazioni, hanno da sempre dato vita a universi irripetibili e interminabilmente modificabili. D'altronde, se le regole non esistessero, non sarebbe possibile infrangerle per crearne di nuove: così una presa elettrica può diventare pigmento se qualcuno interpreta in maniera (semi)arbitraria la funzione per cui è stata progettata e prodotta. Eppure gli assemblaggi di Frisch si fondano su un uso tautologico che non annulla l'identità funzionale degli oggetti, ma sembra paradossalmente amplificarla. La spina non è decontestualizzata come objet trouvé, ma semplicemente e banalmente utilizzata per condurre corrente e generare luce. Sarebbe tuttavia riduttivo liquidare la logica combinatoria delle strutture di Frisch etichettandola come sterile e compito esercizio: i suoi lampi luminosi su fondo nero, quando si ripiegano su se stessi in un cilindro che avvolge lo spettatore (come accade nella bella mostra a cura di Achille Bonito Oliva, presso la Galleria nazionale d'arte moderna fino al 27 gennaio), stordiscono quanto le più ardite provocazioni e le più coinvolgenti e conturbanti performance. Si può discutere poi sulle effettive ricadute sociali di opere che, ai più convinti sostenitori del connubio fra arte e politica, appariranno ingessate. In effetti, il rischio latente in ogni metodo, anche in quello che sembra funzionare come un meccanismo perfetto, è che possa trasformarsi in una trappola.