lunedì 7 dicembre 2015

Tre domande a Michele Giangrande

I tuoi "rivestimenti" di oggetti comuni con silicone, piume, elastici o cerotti vengono accostati spesso ai ready made duchampiani. Tenendo però conto dell'accuratezza dei processi iterativi puramente meccanici che caratterizzano molti dei tuoi lavori, sembra più appropriato un confronto con gli esperimenti di ripetizione di Alighiero Boetti (che, ad esempio, ricalcava pazientemente la quadrettatura dei fogli con una matita), oppure con i trafori di Stefano Arienti. Nella tua ricerca prevale il gioco ironico della riproduzione, che sdrammatizza ogni pretesa di affermazione personale, oppure l'arte sottile della variazione, che sottolinea l'unicità dell'individuo nelle minime imperfezioni?
Ho sempre lavorato su un'idea di "architettura del visivo" che tiene conto del concetto di collocazione ambientale come filosofia dello spazio. La ricerca di una nuova oggettualità che si crea da altre forme; l'oggetto si reinventa in una spazialità che reinterpreta i nuovi contenuti formali. C'è un'allegoria del visivo in quanto si unisce un materiale ad un concetto, attraverso simbologie e accostamenti analogici; c'è un intervento estetico creativo, un codice visivo molto forte che si avvale di simboli, in cui l'oggetto si sottopone ad una interpretazione libera.
Opero un tentativo di manipolazione sulla realtà, un voler creare nuovi codici interpretativi di lettura che sfaccettano l'unicità dell'oggetto nei diversi rapporti estetici con l'opera d'arte; questa si ricrea in ogni singola relazione visiva, diventa un prodotto ontologico-sociale che si rinnova all'infinito. La creatività come strumento assoluto di espressione in cui l'oggetto è solo un mezzo per innescare il progetto creativo.
Questa mia "visione", unita ad un processo di recupero della manualità, intesa non solo come disciplina operativa, ma anche come occasione di scoperta e di verifica delle potenzialità espressive di materiali d'uso comune, mi portò nel 2002, ancora studente all'Accademia, a realizzare una sedia di legno interamente ricoperta di cerotti. Questa scultura si rivelò ben presto la prima di una lunga serie di opere caratterizzate soprattutto dalle qualità tattili e visive dei supporti scelti, privilegiando, per così dire, il gioco dei pattern e delle texture.
Non è dunque una riflessione sulla forma, in quanto struttura capace di rimandare alla funzione degli oggetti, il trait d'union della ricerca che ne scaturì, quanto piuttosto l'attenzione per materiali e superfici che favoriscono il dischiudersi di nuove possibilità interpretative attraverso inaspettati slittamenti semantici.
In questo modo, i giocattoli, gli strumenti musicali, le armi e gli altri utensili acquistavano una nuova epidermide, una sorta di seconda pelle che ne alterava non solo l'apparenza, ma anche e soprattutto il significato. Effettivamente, una volta rivestiti da una griglia ordinata di cerotti oppure da una fitta rete di punti di silicone o ancora da un'intricata maglia d'elastici piuttosto che da vere piume, gli oggetti scelti acquisivano una nuova identità, frutto di un mutato rapporto tra l'originaria funzione d'uso e il nuovo rivestimento dermico.
Insomma, diversamente dai ready made di duchampiana memoria e/o dall'objet-trouvé di matrice surrealista, sono oggetti modificati nella sostanza, poiché non solo prelevati dalla realtà quotidiana, ma trasformati radicalmente per mezzo di una manipolazione disciplinata e paziente, che da un lato conserva il simulacro degli oggetti e dall'altro ne altera l'aspetto attraverso un "aristotelico" modus operandi, conseguenza diretta ed inevitabile di un personale senso di horror vacui osservabile anche in lavori recenti (Writing series, 2015).
Le mie operazioni sono quindi il risultato dell'assemblaggio di oggetti d'uso riconsiderati, ma anche la materica testimonianza di un cortocircuito interpretativo. Ogni oggetto perde la propria funzione e attraverso esso è possibile realizzare l'opera d'arte, ma non la rappresenta.
Insomma, come diceva Marcel Duchamp: "Non c'è soluzione perché non c'è problema".

Nella serie Scrawl sono invece gli scarabocchi dell'artista, i suoi segni rapidi e vitali, a trasformarsi in oggetto e materia, in marmo o tappeto, con l'aiuto di sofisticate tecnologie. In questo caso il procedimento è in un certo senso inverso: nei tuoi primi lavori l'intervento dell'artista donava una nuova identità a un oggetto di uso comune, in Scrawl series il gesto artistico diventa pura sostanza attraverso lavorazioni industriali. C'è un gioco ironico di rovesciamento sui concetti di produzione e riproduzione?
La mia arte ha semplicemente il mio stesso carattere. L'ironia forse può servire ad esorcizzare il malessere che ci circonda e che spesso ci divora. D'altronde, come disse Orazio: "Che cosa vieta di dire la verità ridendo?".
Poi ci sono le nuove tecnologie. Beh, se ci siamo evoluti dai primati lo dobbiamo solo alla nostra capacità di ideare sempre qualcosa di nuovo. Per migliorare la vita, ma anche lo spirito. Avere paura dei cambiamenti è contro la natura dell'uomo.
Fin quando è stato possibile, abbiamo inventato tecnologie capaci di soddisfare le nostre esigenze e quando questi strumenti non ci sono bastati, abbiamo fatto ricorso a due placebo: la religione e l'arte. Con entrambi ci siamo inventati mondi fittizi nei quali ogni nostra debolezza è ribaltata in forza: siamo mortali e abbiamo creato l'ultraterreno; siamo brutti e abbiamo concepito i Prigioni di Michelangelo e le Madonne di Raffaello; siamo deboli e abbiamo ideato, oltre al Viagra, la Quinta sinfonia di Beethoven. L'arte ha da sempre sfruttato ciò che la circondava. Non avremmo avuto Le ninfee di Monet senza i colori ad olio in tubetto.
Personalmente non mi sono mai posto il problema del "fatto a mano" e soprattutto del "fatto a mano da me". Sarebbe un limite inaccettabile al giorno d'oggi. Nemmeno il pubblico ormai sente più questa esigenza, semmai l'avesse avuta.
Io, come tanti altri artisti, mi servo semplicemente delle competenze ed esperienze altrui di cui non dispongo. Quando le mie idee superano i limiti delle mie mani, cerco delle mani capaci di superare i limiti delle mie idee. In questo modo sono libero di pensare.
Dunque può capitare che, dopo una lunga ed attenta fase progettuale, il lavoro passi, sotto la mia strettissima supervisione, ad insostituibili professionisti, prima che instancabili artigiani, di ogni settore: falegname, fabbro, neonista, ceramista, marmista, ecc.
Voltaire diceva: "Chi non vive lo spirito del suo tempo, del suo tempo si becca solo i mali".

Come è nata l'idea per l'installazione Gears, che hai realizzato per la terza Ural Industrial Biennial of Contemporary Art a Ekaterinburg in Russia? Quali difficoltà hai incontrato nel progettare un intervento per una superficie di 4.000 mq?
L'installazione Gears (Ingranaggi) nasce nel 2011, anno in cui è ricorso il 150° anniversario dell'Unità d'Italia, come opera inedita per una grande mostra retrospettiva a cura di Artwo tenutasi a Roma, che raccoglieva una trentina di opere (2001/2011) in un'area industriale convertita a spazio espositivo: le Officine Farneto. L'idea degli ingranaggi scaturisce fondamentalmente da un'ossessione: la ruota, il simbolo dell'inventiva umana, e l'affine figura geometrica del cerchio. Il cerchio rappresenta la perfezione, la compiutezza, l'unione.
Sono un appassionato di geometria e di storia antica, in special modo precristiana. Da anni compio una ricerca che trae ispirazione dall'arcaico, dal primitivo, dalla rilettura del passato, partendo dalle mie origini, compiendo un percorso a ritroso nelle tradizioni popolari e nella stessa storia dell'umanità, per giungere alle prime espressioni artistiche e coglierne così la scintilla basilare.
La forma circolare degli ingranaggi (o di altre opere come Mandala del 2008, un cerchio formato dalla successione di coloratissime cravatte anni '70, o il più recente Lost in the magic white wild circle del 2014, dove il cerchio è generato da segni che la natura produce, in questo caso su dei sassi) e le loro dimensioni monumentali, rendono umilmente omaggio a quelle che spesso ho definito reverenzialmente "le migliori installazioni d'arte contemporanea di sempre". Mi riferisco ai siti megalitici, espressione della spiritualità neolitica, simboli della circolarità del tempo e dell'idea di rinascita dopo la morte, come il cosiddetto Cerchio di Bodgar (2.500 a.C. circa) che si trova sulle Isole Orcadi, nella Scozia settentrionale o il più popolare Stonehenge (3.000 a.C.) situato ad Amesbury nello Wiltshire, Inghilterra. O ancora ai tumuli funerari di Newgrange (diametro 80 m), di Knowth (diametro 95 m) e di Dowth (diametro 85 m) presenti a Brú na Bóinne, uno dei più importanti siti archeologici di origine preistorica al mondo, situato a 40 km da Dublino e risalente a più di 5.000 anni fa.
La nuova collaborazione con Savina Gallery (San Pietroburgo, Mosca), frutto della rete di contatti della Fondazione Museo Pino Pascali, ha reso possibile presentare i miei ingranaggi, a settembre del 2015, come Special Project alla terza Ural Industrial Biennial of Contemporary Art di Ekaterinburg. L'operazione è riuscita, con enorme successo, grazie al supporto ed alla partnership tra Liza Savina (gallerista e curatrice del progetto), Mars Center for Contemporary Art di Mosca (partner del progetto), Sparta Agency (partner del progetto), Sasha Iordanov (braccio destro della galleria), Alisa Prudnikova (commissario della Biennale), Kseniya Bogdanovish (coordinatrice del team della Biennale), Angela Varvara (musa ispiratrice e compagna di vita), responsabili della Ural Chemistry Mechanical Engineering Factory, ed un folto gruppo di instancabili operai dell'industria ospitante senza i quali non sarebbe stato pensabile, almeno per me, realizzare questa titanica impresa.
"Lieve è l'oprar se in molti è condiviso" (Omero).


Michele Giangrande è nato a Bari nel 1979. Ha compiuto studi artistici (Accademia di Belle Arti). È stato docente di Decorazione all'Accademia di Belle Arti di Catanzaro. Nel 2015 la sua ricerca è stata oggetto di un documentario di 26 minuti dal titolo Odissea dandy - Michele Giangrande e il suo atelier, promosso dall'Apulia Film Commission in collaborazione con la Fondazione Museo Pino Pascali e arTVision - A live art channel e prodotto dalla Esprit Film, presentato a diversi festival di settore e inserito nel palinsesto del canale televisivo Sky Arte per l'autunno 2015. Le sue opere sono presenti in musei, collezioni pubbliche e private in Italia e all'estero. Ha esposto in numerose mostre personali, collettive e di gruppo. Attualmente le sue gallerie di riferimento sono: Artnesia, Londra; Galleriapiù, Bologna; Savina Gallery, San Pietroburgo/Mosca. Collabora inoltre con: Artwo, Roma; Basita Italian Design, Roma; Competenze Distintive, Milano.

Per approfondire:

martedì 28 luglio 2015

I futuri del mondo e il giardino del disordine

All the World's Futures, la mostra di Okwui Enwezor per la 56esima Biennale di Venezia, trasforma i Giardini e gli spazi dell'Arsenale in una metaforica rappresentazione del reale o, per usare le parole del curatore, dell'attuale "stato delle cose, vale a dire la pervasiva struttura di disordine che caratterizza la geopolitica, l'ambiente e l'economia a livello globale". L'intenzione è quella di mettere in scena un evento polifonico e multiforme, in grado di evolversi durante i sette mesi della manifestazione, dando voce alle diverse visioni del mondo elaborate da artisti provenienti da ogni angolo del pianeta. Sono infatti ben 53 i paesi di origine, molti dei quali appartengono alle aree che il sistema dell'arte (fondamentalmente radicato nel mondo occidentale) considera periferiche e alle quali si rivolge spesso esclusivamente alla ricerca di fascinazioni esotiche. Il risultato è una mostra fortemente connotata in senso politico, a partire dal programma di letture dal vivo del Capitale di Marx, l'opera che funge da chiave interpretativa generale dell'esposizione, evocando il dramma contemporaneo dell'economia predatoria e della rapacità della finanza. Eppure la visione apocalittica della realtà di Enwezor, che si riflette nelle sue scelte curatoriali, è quanto di più distante si possa immaginare dall'idea di progresso implicita nel materialismo storico. Marx individuava nella lotta di classe, nel succedersi di fasi critiche e nell'alternarsi dei modi di produzione l'indizio di quell'inevitabile cambiamento che avrebbe prima o poi condotto al declino del capitalismo e alla nascita di nuove forme sociali. Oggi la tragica evidenza del decadimento, dell'incertezza e dell'instabilità che dilagano in ogni regione del mondo rende difficile immaginare nuovi e incoraggianti scenari; quindi Enwezor, insieme a buona parte degli artisti da lui selezionati e invitati, sembra voler suggerire che la missione "politica" dell'arte consista nel rendere palpabile questa inquietudine, nel distruggere il velo della "prosaica apparenza delle cose", nel donare al pubblico la capacità di guardare più lontano, con lo stesso sguardo sconvolto dell'Angelus Novus, il dipinto di Klee tanto amato da Walter Benjamin.
Enwezor sa bene che l'arte può essere anche fuga dalla realtà e negazione dell'esistente, infatti ha il massimo rispetto del "diritto al disimpegno", riconoscendo che alcune tra le più significative opere dell'ingegno umano sono nate da una posizione radicale di distanza dal mondo, dal vagheggiamento di un'idea pura. Tuttavia, orchestrando il suo progetto espositivo in stretta relazione con il tempo e i contesti della sua esperienza di vita, sente forte l'esigenza di guardare in faccia la cruda realtà e di restituire al pubblico le testimonianze degli artisti che meglio hanno saputo rappresentarla. Ne deriva un panorama dalle tinte cupe, un'immagine del presente come epoca del disincanto, in cui ci si aggira tra le rovine nell'attesa della fine: la visita del Padiglione Centrale ai Giardini, vestito a lutto dalle bandiere nere di Murillo, inizia dalla sala ottagonale dedicata per intero a Fabio Mauri, nelle cui opere si ripete ossessivamente proprio la formula conclusiva "The End". Poi atmosfere funeree e fosche visioni escatologiche si moltiplicano in questa Biennale: si passa dalle lavagne del Leone d'Oro Adrian Piper (con la scritta "Everything will be taken away" ricopiata decine di volte), all'albero morto di Robert Smithson, al meraviglioso ciclo pittorico di Marlene Dumas composto da piccole tele che raffigurano teschi, alla doppia proiezione di Steve McQueen (che racconta la storia di Ashes, giovane pescatore scomparso a soli 25 anni), ai fiori essiccati di Taryn Simon (testimoni silenziosi degli incontri che hanno modificato il mondo).
All'immanenza della catastrofe e alle apparizioni di morte Enwezor contrappone una vitalità fatta di parole e di racconti, di "durata epica", come se il presente fosse un remoto passato da recuperare nell'oralità: per questo affida a un fitto programma di performance, letture, recital, proiezioni di film e dibattiti il compito di animare in maniera continuativa l'Arena, uno spazio all'interno del Padiglione Centrale pensato come "luogo di raccolta della parola parlata". All the World's Futures, d'altronde, comprende un numero senza precedenti di progetti realizzati appositamente per la Biennale: delle opere esposte, ben 159 sono nuovi lavori. Il desiderio di dare forma a un mosaico di prospettive dalle quali esaminare la condizione umana non ha alcuna funzione apotropaica, né vagamente consolatoria, anzi trascina il pubblico in un vortice di relativismi, in una profusione di punti di vista che, se riesce benissimo a mostrare le ferite della storia e del momento, non lascia spazio a quella speranza che si nutre di semplificazioni e cieca fiducia nell'avvenire. Un'analisi così accurata dell'epoca contemporanea finisce per imporre la necessità di un severo ripensamento dei modelli comportamentali, delle abitudini, degli stili di vita e delle convinzioni. Condanna alla completa assenza di soluzioni a breve termine, al sacrificio e alla lotta, oppure, in ultima istanza, alla rassegnazione. Per questo motivo la 56esima Esposizione Internazionale d'Arte è destinata a diventare una mostra "impopolare": in parte per l'intrinseca difficoltà di lettura di buona parte del materiale di tipo documentario, ma soprattutto per la sua palpabile crudezza e la sua sincerità da Grillo Parlante.
Nel complesso il clima di angosciosa disillusione, che cresce in maniera esponenziale opera dopo opera, diventa a tratti esasperante: in un simile contesto risulta quindi difficile apprezzare, per esempio, il lavoro di Christian Boltanski. Per fortuna alcune isole di misurato equilibrio formale riescono a rappresentare lo stesso disagio senza generare sovraccarichi emotivi: è il caso della ricerca concettuale sul linguaggio di Glenn Ligon, del libro d'artista di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige Latent Images: Diary of a Photographer (in cui le descrizioni delle immagini sostituiscono le centinaia di pellicole mai sviluppate del fotografo libanese Abdallah Farah) e dei mai troppo celebrati neon di Bruce Nauman. Eppure, probabilmente, l'opera che più di ogni altra rende conto dell'infinita varietà dei "futuri del mondo" è il progetto Frequencies di Oscar Murillo, che porta in Biennale le tracce lasciate sui banchi di scuola da qualche migliaio di alunni provenienti da una ventina di paesi: proprio su quei banchi, ogni giorno, si scrive una pagina di domani.
Diversificata come sempre la proposta delle 89 partecipazioni nazionali: tra i padiglioni più interessanti quelli del Giappone, dell'Olanda e della Francia. Chiharu Shiota sospende su due barche, simbolo del viaggio di ogni esistenza individuale, un intenso groviglio di lana rossa dal quale pendono migliaia di chiavi; herman de vries "dipinge" monocromi con la terra dei diversi continenti ed esplora le relazioni tra uomo, cultura e natura; Céleste Boursier-Mougenot sorprende con i suoi alberi in movimento. Deludente, invece, il Padiglione Italia curato da Vincenzo Trione: la scelta di racchiudere ogni artista in una sua "cella" rivela l'inconsistenza del progetto complessivo, che delega ai singoli la responsabilità della riuscita di interventi scollegati. Mimmo Paladino copia se stesso e persino qualche artista tra i più giovani non si sforza più di tanto (minimo impegno e minimo risultato per Francesco Barocco, tanto per fare un nome). Nella generale mediocrità spiccano l'installazione del grande maestro Kounellis e le fotografie di Gioli, mentre si difende bene Marzia Migliora.
Tra gli eventi collaterali e le tante mostre in Laguna sono da segnalare la collettiva Slip of the Tongue curata da Danh Vo negli spazi di Punta della Dogana, la retrospettiva Città irreale dedicata a Mario Merz presso le Gallerie dell'Accademia, la selezione di opere essenziali e rigorose al Museo Fortuny (il titolo dell'esposizione, Proportio, rimanda alla proporzione aurea) e la personale Land Sea di Sean Scully a Palazzo Falier.

martedì 30 giugno 2015

La svalutazione dello spazio e l'identità pendolare

Non è difficile comprendere i motivi per cui, ancora oggi, nell'epoca della glocalizzazione, continui a essere profondamente radicata la convinzione che solo nei grandi centri sia possibile il confronto tra gli artisti, lo sviluppo di una ricerca consapevole e una piena maturazione dal punto di vista intellettuale. Per gran parte della storia dell'uomo il paradigma della "capitale culturale", come laboratorio di idee e culla della creatività, ha conservato la sua validità, rappresentando l'unica realtà possibile: l'Atene di Pericle, la Roma imperiale, la Firenze dei Medici e del Rinascimento, la Parigi tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento sono solo alcuni tra gli esempi più noti. Qualcosa sta cambiando negli ultimi decenni: il rischio dell'omologazione indirizza gli osservatori più attenti e curiosi verso approcci laterali e periferici. Eppure la necessità romantica di una "fuga da Recanati" continua a tormentare generazioni di creativi di provincia, per i quali è preferibile addossare la responsabilità dell'insuccesso al luogo in cui vivono, rimandando un'attenta verifica delle proprie capacità e competenze ad altri tempi (e altri luoghi). Così, in questo strano periodo di transizione, non ci si può stupire più di tanto se, leggendo un numero di Flash Art (n. 315, Marzo-Aprile, anno 48-2014) con la copertina dedicata a Ettore Spalletti (che è nato e vive a Cappelle sul Tavo, in provincia di Pescara) ci si imbatte in queste paradossali parole del direttore Giancarlo Politi, che risponde a un lettore preoccupato per il suo futuro di artista residente in Sicilia: "La provincia può esprimere artisti abili e anche dotati: ma perché questi possano confrontarsi con gli altri, occorre che vivano e operino nei grandi centri. Indicami tu un artista significativo che è nato e vissuto nella provincia".
Un tempo le dimensioni spaziali della vita sociale erano determinate per lo più da attività localizzate, geograficamente situate; invece con l'avvento della modernità i rapporti tra persone distanti diventano sempre più diffusi. L'interazione tra assenti avviene con maggiore semplicità e la comunicazione si slaccia definitivamente dalla necessità del confronto faccia a faccia. In una simile condizione l'idea di luogo è condizionata e modellata da influenze sociali lontane e la località si definisce attraverso relazioni complesse che possono avvenire a distanza. La tendenza al distaccamento spazio-temporale va accentuandosi con il maturare della modernità fino a giungere, in tempi più recenti, a rasentare forme di annullamento e di completa irrilevanza. Le attuali potenzialità dei mezzi di comunicazione e l'agilità dei trasporti introducono il concetto di istantaneità, la conseguente perdita di valore del tempo e l'inevitabile svalutazione dello spazio. Bauman definisce l'istantaneità come assenza di tempo in quanto fattore di un evento, dunque in quanto elemento nel calcolo del valore. Nel momento in cui tutte le località sono raggiungibili in tempi relativamente brevi e ogni tipo di informazione può essere trasmessa rapidamente da una parte all'altra del globo, nel momento in cui la differenza tra vicino e lontano è cancellata, nessuna parte di spazio è privilegiata: il risultato è l'equiparazione del valore spaziale. Poiché tale livellamento avviene verso il basso, si può parlare a ragione di svalutazione dello spazio.
Viviamo in un'era di mutamenti di scala: i mezzi di trasporto rapido e di comunicazione di massa hanno ridotto le distanze e hanno reso accessibili gli angoli più remoti del mondo. Il territorio ha subito modificazioni fisiche considerevoli, è attraversato da flussi di popolazione incessantemente in movimento e nello stesso tempo è costellato da dense concentrazioni urbane. La nozione sociologica classica di luogo è definitivamente in crisi e sembra giunto il momento di imparare a pensare lo spazio in maniera differente. Ai mutamenti di scala corrispondono mutamenti di parametri necessari per intraprendere lo studio di civiltà e culture nuove. Le interconnessioni tra locale e globale sono all'origine di un radicale cambiamento di prospettiva e di uno scombussolamento degli equilibri nel sistema mondo. Nella dimensione globale la percezione delle categorie di spazio e tempo da parte dei soggetti sociali orienta verso l'annullamento di ogni coordinata futura o passata: lo sguardo è perennemente rivolto al presente. In questo modo da un lato vengono penalizzate la tradizione e la costruzione di una narrazione storica coerente, dall'altro viene frustrata ogni aspettativa, le prospettive si riducono e ci si proietta in avanti con difficoltà. L'assenza di valori e di norme di comportamento conduce l'individuo alla crisi esistenziale, generando un crescente desiderio di identità e di appartenenza. Privato delle ataviche pratiche rituali e simboliche attraverso cui tale bisogno veniva naturalmente soddisfatto, l'uomo contemporaneo deve inventarsi una tradizione e inserirsi in una comunità immaginata, pur di salvaguardare la propria personalità e sfuggire almeno in parte alla trappola dell'omologazione. Il presente appartiene a tutti, è il tempo uniforme della società globale che per un verso libera, rompe le barriere e spezza i confini, ma contemporaneamente imprigiona, privando le persone della propria individualità. Così tramite l'invenzione della tradizione si tenta di riaffermare la propria continuità con un passato storico opportunamente selezionato, anche se questa continuità è in larga misura fittizia. Il passaggio dalla modernità alla successiva fase della sua radicalizzazione, o della surmodernità, segna uno slittamento dell'identità etnica che da fissa diventa fluttuante, contestuale e situazionale. Partendo quindi dalla considerazione che l'identità stessa deve fare a meno del localismo, già nel 1994 Vanessa Maher, in Questioni di etnicità, parlava di "identità pendolare". Nel mondo globale l'identità etnica non può più essere considerata un punto di partenza, ma il prodotto di una serie di scelte che portano l'individuo ad assumere identità provvisorie, costruite in relazione a luoghi, fattori e interlocutori momentanei. L'identità etnica illustrata dalla Maher è divisa, sfaccettata e potrebbe essere descritta come la risultante della somma delle diverse identità che il soggetto assume nel corso della propria esperienza di vita, identificandosi di volta in volta, a seconda dei contesti e delle circostanze, con varie appartenenze. La deterritorializzazione ha indubbiamente svincolato, almeno in parte, l'identità da un luogo e da un tempo prestabiliti; tuttavia l'attore sociale, nei suoi tentativi di riconoscimento simbolico, resta pur sempre legato a una qualche dimensione ambientale. In definitiva si potrebbe guardare all'identità etnica come a una risposta locale alle sollecitazioni di un processo globale; si tratta di individuare la relazione che si instaura tra i particolarismi e la totalità, per capire in che modo questo rapporto influenzi la costruzione della soggettività e le rappresentazioni collettive.

lunedì 18 maggio 2015

Tre domande ad Alessio Ancillai

La tua prima mostra personale presso la galleria Pio Monti, dal titolo Umano Specie-Specifico (Luce e Sangue), ruota intorno alla ricerca di quali siano le caratteristiche che contraddistinguono l'essere umano come tale. In particolare, nei tuoi lavori, sembri voler rappresentare la fusione tra l'elemento fisico e quello psichico, dalla quale nasce il pensiero umano. Quanto hanno contribuito gli studi universitari in Medicina ad indirizzare i tuoi interessi verso simili tematiche?
Sono stati sicuramente importantissimi. Sin dall'adolescenza mi divertivo a disegnare, dipingere e scrivere, ma allo stesso tempo mi incuriosiva il funzionamento del corpo umano, ero affascinato da questi meccanismi complessi e perfetti, che però potevano incepparsi e così, decisi di intraprendere gli studi universitari di Medicina. La passione per la scienza umana però rimaneva in me sempre legata alle immagini, che emergevano in maniera forte stimolate proprio dagli studi che di volta in volta approcciavo: le formule di biochimica mi suggerivano forme geometriche che disegnavo sugli appunti, la fisiologia mi suggeriva poesie per una collega che mi piaceva e il legame tra corpo e mente mi affascinava, mi chiedevo da dove venivano le immagini e cosa succedeva quando si perdevano. Così cominciai a seguire, sempre in ambito universitario, convegni ed incontri sul tema e cominciai a lavorare come tutor presso una Comunità terapeutica psichiatrica dell'Asl Rm/D, dove rimasi fino a che non decisi definitivamente di dedicarmi totalmente all'arte, cioè dal 2005, quando ho capito che non mi interessava effettivamente acquisire la professione medica. Ho comunque continuato sempre a studiare il tema "essere umano", oltre che con studi strettamente scientifici, anche con letture di linguistica, storia dell'arte e filosofia, per rimanere aggiornato sugli sviluppi d'avanguardia in materia di scienza umana ed origine del pensiero umano. Così ho appreso delle scoperte ed elaborazioni che mostrano come l'origine della visione sia data dall'incontro del fotone con la rètina e che questo incontro tra la materia (la sostanza cerebrale) e la non materia (la luce) dia origine alle immagini mentali e dunque, al pensiero umano; per cui la fisiologia umana è data dalla fusione tra il fisico e lo psichico e non dalla scissione tra questi elementi. Dunque, per risponderti, certamente lo studio dei meccanismi biologici e psichici di formazione e sviluppo del pensiero umano ha stimolato la scelta del tema che ho proposto nella mostra. Poi, la rappresentazione in ambito artistico segue ovviamente vie più "libere" e di ricerca del processo creativo che rappresenti in maniera inconsapevole e personale quanto appreso e vissuto. Partendo da questa fusione "ontologica", ho cercato cosa succedeva artisticamente nell'incontro tra i due elementi (materia e non materia), che immagine ne scaturiva e come era possibile cercare il "movimento" interno dell'immagine: non mi interessa il visibile, il percepito o percepibile, ma l'invisibile dell'essere umano e delle sue immagini. Ho cercato quindi anche di dire di una luce che fosse "diversa", cioè che non illumina (come racconto nella poesia, cantata con un gioco tra noi dallo stesso gallerista, Nicola Monti) ma che appunto crea l'immagine nell'incontro con la tela, il tessuto ed il colore e quindi ho scelto una luce nuova, il LED che come si legge nel testo critico in catalogo di Angelo Capasso, "non risponde alla scelta di preporre un aggiornamento dell'arte, una nuova tecnologia; è invece il canale che dilata l'Opera oltre l'immagine, come atmosfera-aura-temperatura, in quanto colore-calore. Il LED presenta uno sfilacciamento temporaneo dell'Opera (che la fotografia iconizza e l'audio-video mantiene in movimento), dove risiede il bacino più ampio del senso"; e sicuramente una luce che non viene dall'"al di là".
La luce in mostra non è quella illuminista della ragione che "rischiara le menti" per una conoscenza della realtà materiale, né una luce trascendente che viene dall'alto, ma è il divenire alla luce, come creazione umana di immagini partendo dalla nascita, inizio del tempo umano, dallo stimolo luminoso sulla rètina e poi, dallo stimolo del vissuto.

Mike Watson, nella sua personale lettura critica dei tuoi lavori esposti da Pio Monti, sostiene che essi nascano da un particolare interesse per il lato irrazionale dell'esistenza, per i processi soggettivi che alimentano la creatività, per la natura viscerale del corpo umano. Eppure, da un punto di vista puramente formale, la precisione chirurgica nell'uso della linea, la sobrietà nella scelta del colore e il rigore nel trattamento delle superfici lasciano trasparire un'attitudine tutt'altro che espressionista. Probabilmente, la forza delle tue opere sta proprio nella capacità di sintesi e di composizione tra l'estetica minimalista e razionale (sottolineata dalla "luce") e l'anima vibrante di un'umanità concreta e carnale (evocata dal "sangue"). Avevi in mente una simile dinamica conciliativa quando hai ideato il sottotitolo per la mostra?
Mike Watson segue il mio lavoro da circa due anni e mi fa molto piacere che le nostre ricerche in diversi punti si incontrino; il passaggio che hai scelto è molto rappresentativo.
Certamente l'equilibrio e la sintesi sono quello a cui tendo; non tanto come "conciliazione" tra elementi contrapposti, ma come ricerca di cogliere l'interazione ed il dialogo tra gli elementi. Impressionismo, espressionismo, positivismo... Tutte ricerche affascinanti e fondamentali, ma si potrebbe anche pensare che le immagini artistiche nascano da un unicum corpo-mente sin dall'origine e pensare all'emergenza delle immagini come espressione della reazione del corpo umano allo stimolo esterno del rapporto o come memoria del rapporto. Quindi, quello che vorrei riuscire ad esprimere è questa unicità di corpo e mente, materia e non materia, razionale e non razionale. Il sottotitolo della mostra, Luce e Sangue, parla proprio dell'incontro tra la non materia e la materia umana, l'incontro del fotone, che non ha massa, e la sostanza cerebrale, tramite gli occhi (che fanno da tramite con la rètina, l'unica realtà direttamente collegata al cervello ed esposta all'esterno che, appunto, non si può toccare con niente, se non con lo stimolo luminoso).
Volendo aggiungere una riflessione, dico che in fase embrionale, uno dei tre foglietti germinativi detto "ectoderma" sarà quello che darà sviluppo sia al tessuto nervoso che agli organi di senso ed alla pelle: da qui si sono sviluppate ricerche su come è legato il sentire umano al corpo biologico. All'apparenza può sembrare un discorso freddo, scientifico e razionale, ma sempre di essere umano stiamo parlando. Cercando ovviamente di superare il riduzionismo biologico e l'idea positivista con la teoria degli umori, la proposta è quella di superare l'idea di dualismo platonico, cercando di passare per il "Ponte" e la "Tempesta" espressionista, senza però cadere nell'idea di caos originario, come spesso viene confuso l'irrazionale, quando non è confuso con il male o con l'animalità. Forse bisogna tendere a far incontrare il soggettivo con l'oggettivo e non per forza bisogna appositamente dipingere un volto blu o verde o essere aggressivi con le pennellate per avere una visione soggettiva della realtà e, soprattutto, bisogna andare oltre il mero comportamento e il rapporto uomo-natura e sottolineare la natura irrazionale umana non scissa dal corpo. Dunque, non mi spaventa la ricerca di un "rigore" estetico, perché non intendo il rigore come freddezza razionale o ricerca precostituita, ma come fermezza ed identità, quando è unito al "sentire" del corpo.
Ad esempio, forse proprio nella scelta dei colori e nel trattamento delle superfici, si può vedere questo rigore-non rigore. Le stratificazioni di colore le lascio colare seguendo il corpus della texture della tela, non cerco un disegno preciso, ma quello che esce fuori direi quasi per "volontà" della tela. Certamente prediligo l'andamento verso il basso delle colature, come a cercare sempre un rapporto con la realtà, perché penso che la fantasia nasca da giù, dal basso, dal rapporto con la realtà e non dall'alto, oppure da un pensiero che gira a vuoto su se stesso, astratto, altrimenti bisogna parlare di fantasticheria, che non c'entra nulla con la fantasia. La fantasticheria è scissione, proprio la scissione raccontata da questi ultimi 2500 anni di storia: io cerco la non scissione, ma non da un punto di vista di rigore razionale che "tiene" qualcosa che altrimenti sarebbe incontrollabile, piuttosto come tendenza naturale dell'essere umano. Come si muovono le mani quando cercano un colore piuttosto che un altro, oppure come le mani a volte accompagnano il pennello accarezzando la tela delicatamente come sulla pelle di una bella donna, questo non lo so. Non c'è mai un pensiero aprioristico, un calcolo o un disegno precostituito, c'è solo una vaga sensazione e un modo di essere, che si riflette nel movimento del corpo non a caso o istintuale, ma spontaneo. Nel lasciarsi andare, l'artista trova il linguaggio dell'identità che non può fare a meno del rapporto con ciò che non conosce, con il diverso da sé.
"Precisione chirurgica nell'uso della linea"... Mi piace questa definizione: la linea mi ricorda l'infinita successione di punti, è un pensiero chiaro, deciso... Una separazione da altro, ed è anche qualcosa che caratterizza l'essere umano; ho letto che l'immagine della linea è creata dall'essere umano. Il  fotone – quanto di luce – macroscopicamente si propaga linearmente. Quindi un nesso con la linea sicuramente c'è. Certamente la luce evoca la ragione, ma bisogna uscire fuori dall'idea che la luce rende solo visibili ed empiricamente dimostrabili i fatti materiali, che essi siano la vera e la sola capacità di realizzazione della realtà umana. La luce può anche simbolizzare la consapevolezza dell'esistenza di altro, non visibile e strettamente legato al corpo, che è la realtà non materiale dell'essere umano; non intesa però come "anima", ma come pensiero non razionale, per immagini, specifico dell'essere umano. Nel 2012 ho fatto uno studio per una scritta che sto realizzando in più media che dice "Abandoning reason generates fantasy". Quando Goya compose nella serie dei Los caprichos l'acquaforte El sueño de la razón produce monstruos si trovava in quella Spagna del tardo illuminismo dove appunto la luce dava alla razionalità la conoscenza di sole realtà percepibili e si divertiva a mettere in evidenza come chiunque, dotti, prelati o persone del popolo avessero comunque un lato mostruoso ed animalesco per natura: è possibile invece pensare che l'irrazionale è proprio ciò che ci distingue? Del resto gli animali non si ammalano mai di malattia psichiatrica, che non va confusa con quella neurologica e, se si parla di malattia è inequivocabile che prima doveva esserci uno stato di sanità, quindi mi viene da pensare che l'essere umano come tale, nel sonno della ragione, nell'irrazionale, non genera mostri, bensì fantasia.

Affermare che l'irrazionale sia ciò che ci distingue non è molto diverso dal sostenere (come faceva Aristotele) che la razionalità sia la prerogativa che differenzia l'uomo da ogni altro animale. Infatti l'irrazionale è la negazione del razionale, quindi senza ragione non potrebbe esistere, né essere concepito. Goya scriveva: "La fantasia priva della ragione produce impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie". Se "abbandonare la ragione genera la fantasia", è proprio la fantasia il fine ultimo? Oppure, qualora non fosse così, a che scopo l'uomo dovrebbe rincorrere le proprie fantasie?
In parte mi sembra di aver già risposto. Senza fare una disquisizione filosofica che lascerei, appunto, ai filosofi, ti dico solo che penso che il pensiero razionale, che viene dal Logos occidentale, sia sicuramente necessario, ma altrettanto sicuramente non sufficiente, soprattutto se vogliamo fare qualche passo in avanti e staccarci dal pensiero che sotto la ragione c'è l'animalità, il mostro, la malattia o il male che la ragione stessa deve controllare con una struttura atta a contenere qualcosa che altrimenti andrebbe incontro a chissà quale dissociazione. Forse è proprio la ragione astratta senza alcun rapporto con la dimensione umana più profonda che, di fronte all'irrazionale, si frantuma in mille pezzi come un vetro. Ripeto, la ragione è necessaria, per tutte quelle attività dell'essere umano che vanno verso la soddisfazione dei bisogni, verso l'utile, verso il mantenimento della specie... Un po' come fanno gli animali, ma a differenza di essi noi tendiamo a realizzare le esigenze, che vanno ben oltre la soddisfazione dei bisogni, che dovrebbero essere garantiti a chiunque. In questo senso nel progetto Morti sporche, che porto avanti parallelamente ad Umano Specie-Specifico, metto in evidenza l'assurdità che accade quando l'essere umano per soddisfare i bisogni può morire o ammalarsi sull'ambiente di lavoro cadendo nella morsa invisibile della schiavitù, facendo fuori un principio cardine dell'umanità che è quello dell'uguaglianza tra gli esseri umani, fin dalla nascita. Quindi questa storia che nel sonno si generano i mostri, mi sembra ormai non solo vecchia, ma senza alcun valore di universalità. Vorrei ricordare che Voltaire, un padre dell'illuminismo, era fortemente razzista nonché misogino. Per rispondere alla domanda, direi che la fantasia non è né un fine né un mezzo: mi piace l'idea che la fantasia sia l'inizio, sia la possibilità, l'identità dell'essere umano che, a differenza dell'animale, si oppone alla natura cercando di trasformarla. Purtroppo a volte, per calcoli troppo speculativi, la natura viene danneggiata, ma questo è un altro discorso che ovviamente va condannato. Recenti tesi sui ritrovamenti delle pitture rupestri nelle grotte di Chauvet, Altamira o di Lascaux propongono che il passaggio dal Neanderthal al Sapiens sia stato segnato proprio dal momento in cui le donne con i bambini hanno cominciato a tracciare delle linee "inutili" sulle pareti delle caverne, come se ad un certo punto l'emergenza delle immagini abbia permesso l'estinzione del Neanderthal per dare luogo ad un essere più evoluto; interessantissimo anche il fatto che questo stimolo sia venuto dalle donne e dai bambini che hanno fatto vedere ai maschi adulti che si poteva vivere non solo di ripetitiva razionale "ricerca" di cibo, ma che la ricerca poteva spostarsi verso una nuova identità come espressione di un'esigenza, certamente non razionale. Dunque, abbandonare la ragione per ricercare ed esprimere la propria identità, rincorrere le proprie fantasie nel senso di esprimere le proprie esigenze, esigenze interne di realizzare la propria identità, al di là della soddisfazione dei bisogni materiali.


Alessio Ancillai (Roma 1973) è un artista multimodale. Vive e lavora a Roma. Formato in materie medico-scientifiche, ha un'educazione artistica non convenzionale. La sua ricerca è dedicata alle caratteristiche che contraddistinguono l'essere umano come tale con due macroprogetti complementari che divide in capitoli: Umano Specie-Specifico e Morti Sporche. Nel primo, più intimo, indaga l'aspetto fisiologico con le caratteristiche che contraddistinguono l'essere umano come tale per la sua bellezza originaria e nel secondo, dedicato a temi sociali, indaga l'aspetto patologico parlando di come il disfacimento dell'interesse dell'essere umano per un altro essere umano possa portare verso il totale annullamento di esso. È rappresentato dal 2012 dalla galleria Pio Monti Arte Contemporanea di Roma nella quale attualmente è in esposizione personale con Umano Specie-Specifico (Luce e Sangue). Partecipa a progetti sociali con esposizioni collettive, anche permanenti, quali quella presso il MAAM - Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz_città meticcia e presso la Città dell'arte - Fondazione Pistoletto di Biella a cura di Giorgio de Finis. Ha esposto, tra le altre, nelle personali al Castello "Caetani" di Sermoneta, al Museo Civico "Emilio Greco" di Sabaudia, a "GarageZero" di Roma a cura di M. Piccinini, al Teatro "Eliseo" a cura di L. Palmieri, al Video Talk Exhibition presso l'"Atelier MetaTeatro" di Roma a cura di E. G. Abbiatici e nelle collettive presso il MACRO Pelanda Testaccio, l'Istituto Culturale Ceco di Milano, il Centro Culturale Vltavská di Praga con Art in box a cura di S. Horvatovicova, presso "Grismedio", Barcellona, Selecciòn 42, videoart experimental, comisariado por F. Pizzuto e presso "Interno 14" di L. Prestinenza Puglisi. È stato segnalato e finalista in numerosi contest di arte contemporanea (Premio Celeste Italia, Abstracta Film Festival, Celeste Prize International, Combat Prize, Premio Accda, Festarte, Luci sul lavoro).

Per approfondire:

giovedì 14 maggio 2015

Beuys, Koblin e il Turco meccanico

Probabilmente nessuno ha mai preso più alla lettera il detto di Beuys, secondo il quale tutti gli uomini sarebbero artisti, di Aaron Koblin. Il noto designer e programmatore americano, conosciuto soprattutto per i suoi progetti di crowdsourcing art, utilizza già da parecchi anni la piattaforma di Amazon Mechanical Turk per realizzare imponenti opere collettive, in cui affida a migliaia di lavoratori virtuali semplici compiti, come ad esempio riprodurre frammenti di immagini per mezzo di un intuitivo software di disegno. Eppure, se letteralmente tutti gli esecutori materiali coinvolti compiono un gesto che si potrebbe definire "artistico" in virtù del suo esito, non c'è da parte loro alcun coinvolgimento da un punto di vista espressivo o comunicativo, poiché tale gesto non è altro che una prestazione, in risposta a un preciso incarico e in cambio di un (seppur misero) compenso. Una massa di individui anonimi e sparsi per il mondo contribuisce inconsapevolmente a un processo creativo del quale solo l'ideatore ha la visione d'insieme. In altre parole, l'intervento umano perde ogni sua intenzionalità e si riduce a pura variabile determinata dal caso. L'abilità con cui Koblin riesce a coordinare la caotica e frenetica attività di sottopagati workers a caccia di pochi centesimi di dollari sta tutta nel rendere irrilevante l'approssimazione con cui i singoli compiti sono eseguiti, riducendo al minimo l'impatto dell'operato individuale nel concretizzarsi del lavoro collettivo. Così ogni disegno realizzato dagli utenti di Mechanical Turk corrisponde a una minuscola parte dell'immagine finale che, esattamente come accade in un dipinto divisionista o in una foto digitale composta da pixel, è perfettamente leggibile, anche se, osservata nel dettaglio, ricalca sommariamente la realtà. Qualcosa di simile avviene all'interno dei suoi video, nei quali è il singolo frame a essere ottenuto grazie al crowdworking, oppure nel progetto Bicycle Built For 2.000, in cui la melodia della canzone Daisy Bell è cantata da più di duemila voci umane differenti. Koblin sfida il caso, cercando di annullare l'imprevedibilità degli eventi moltiplicandone il numero a dismisura e scommettendo sul verificarsi dell'ipotesi più probabile, in base alla quale il suo progetto originario è portato a compimento con una discreta approssimazione. Il risultato finale corrisponderà alle aspettative in maniera inversamente proporzionale all'incidenza del singolo frammento sull'intero processo di realizzazione. Dunque il segreto per dominare il fato sta nell'ingabbiarlo in una griglia razionalmente costruita pianificando il succedersi di innumerevoli eventi, il cui esito è pronosticato attraverso un calcolo probabilistico. Il poker si basa sugli stessi principi: il giocatore esperto ha bisogno di giocare constantemente per lunghi periodi affinché la sua strategia basata sul calcolo delle probabilità si riveli proficua. Infatti l'inevitabile varianza tende a livellarsi e ad approssimarsi ai risultati attesi solo considerando un grande numero di mani giocate.
Volendo tentare una lettura critica dei più riusciti progetti di Koblin, come The Sheep Market e Ten Thousand Cents, molti hanno messo in evidenza la vena polemica rispetto a un modello di telelavoro che promuove forme di autosfruttamento e porta all'estremo la precarizzazione, ma pochissimi hanno colto le implicazioni filosofiche dei processi aleatori e disumanizzanti innescati dalla sua crowdsourcing art. In tal senso offrono spunti molto interessanti anche i Seed Drawings ideati da un altro artista americano: Clement Valla. Si tratta di grandi disegni realizzati anche in questo caso da migliaia di workers su Mechanical Turk, ai quali è chiesto di copiare uno stimolo iniziale. Dal momento che, dopo ogni riproduzione, la copia va a sostituire l'immagine di partenza e diventa nuovo stimolo, il risultato finale dipende da una serie di interazioni volutamente innescate dall'artista, che rinuncia al pieno controllo sul processo creativo.
In Italia la pratica del crowdfunding è stata minuziosamente esplorata da un gran numero di operatori culturali, trovando ampia diffusione e applicazione nei campi più disparati. Invece, nonostante le sue infinite potenzialità, il crowdsourcing non riscuote ancora troppo successo tra i creativi nostrani. Anche gli artisti che lavorano in maniera più specifica con i nuovi media sembrano poco interessati a sperimentare forme innovative di partecipazione, magari attraverso modalità più etiche e consapevoli di quelle adottate dai colleghi statunitensi. Sarebbe interessante interrogarsi sui motivi di una simile indifferenza rispetto alla questione dell'intelligenza collettiva, provando a rintracciare alcune tra le possibili cause di questa aggiornatissima manifestazione del proverbiale individualismo italiano. Da un lato il gap tecnologico rappresenta sicuramente un ostacolo significativo, ma un peso forse maggiore hanno le idiosincrasie radicate nel tessuto antropologico e sociale, storicamente impermeabile alla logica comunitaria.

lunedì 20 aprile 2015

Tre domande a Dionigi Mattia Gagliardi

Il progetto editoriale di cui sei Direttore, Nodes, sostiene una linea di ricerca che interpreta l'arte come una disciplina scientifica. Tra gli obiettivi perseguiti sembra prioritario il tentativo di creare una rete che metta in contatto i ricercatori di tutto il mondo, allo scopo di elaborare e discutere nuove teorie estetiche, con un approccio d'avanguardia e interdisciplinare. Tuttavia, sulla base di quanto affermi nell'editoriale dell'ultimo numero della rivista, le ricerche pubblicate su Nodes sono quasi ignorate in Italia. Quali ritieni siano i motivi di questo isolamento?
La situazione attuale nell'ambiente artistico è molto confusa. Non si discute più delle teorie ma del prezzo di mercato e del curriculum degli artisti. La cultura postmoderna è ancora predominante e alle teorie vengono preferiti oggetti e merci. Il mercato non rivolge la propria attenzione alle teorie, perché sono poche e fatte da pochissimi, invece, le merci devono essere tante.
Oggi la maggior parte degli artisti produce oggetti senza alcun principio teorico di base.
Diversi critici, anche molto conosciuti, spesso utilizzano gli artisti e le loro opere per mostre tematiche, o per opere su commissione.
Questo, oltre ad andare contro ad uno dei principi fondamentali dell'arte, cioè la libertà della ricerca, crea l'illusione che tutti possano essere artisti, basta che abbiano un'idea originale e che, soprattutto, producano merce commerciabile.
Gli artisti delle epoche passate che attualmente ricordiamo sono pochissimi per ogni periodo storico, oggi, invece, aprendo una qualsiasi rivista d'arte ne possiamo contare a migliaia. Sono veramente tutti artisti?
Tutto questo in Italia si aggiunge ad una scarsa attenzione verso l'avanguardia e la ricerca.
Questa deriva dell'arte attuale va in controtendenza con la nostra linea di ricerca, sia come gruppo di artisti, che come editori.
Quando ho deciso di fondare Nodes, nel 2009, ero convinto che mancasse un luogo di analisi, critica e discussione.
Noi ci situiamo nella linea di ricerca delle avanguardie, a partire dal futurismo, i cui tasselli chiave sono la libertà e la formulazione di teorie estetiche.
Capisci bene che chi porta avanti una ricerca come la nostra si troverebbe in difficoltà davanti alla richiesta di opere su commissione, alla partecipazione a mostre con un tema dettato dal critico, o alla produzione di merce da mettere sul mercato. La nostra ricerca prevede studio, discussione, confutazione, elaborazione e rielaborazione. Nodes, che vedo come un'opera d'arte collettiva, comprende tutto questo.

Senza dubbio, come giustamente hai sottolineato, nel momento in cui le esigenze del mercato sono diventate preminenti, la ricerca è stata messa da parte. Ma non credi che le mutazioni sociali e antropologiche abbiano contribuito, forse più dei fattori economici, a modificare la percezione del ruolo degli intellettuali? L'individualismo postmoderno ha soppiantato la vocazione al lavoro collettivo, che è sempre stata una delle caratteristiche fondamentali presenti in tutte le avanguardie artistiche. La tendenza a percorrere strade solitarie frena il progresso culturale in tutti i campi e favorisce quel relativismo che tu biasimi. A volte anche all'interno dei pochi gruppi in attività, per mancanza di energie o di stimoli, si corre il rischio dell'autoreferenzialità. Qual è il tuo punto di vista sul problema della condivisione?
Sono sicuro che il lavoro collettivo possa essere una via percorribile, a prescindere dalla velocità e l'individualità che sono caratteristiche della società di oggi. Nodes è una buona pratica, è un modello di valori. Ma Nodes è il collante di diversi individualismi, di diverse individualità, per formazione e interessi. Questo, in qualche modo, potrebbe rappresentare una contraddizione. Ma è proprio il collante del nostro gruppo. Ognuno di noi porta avanti la propria ricerca personale (di vita, di studio, di lavoro) autonomamente, ma al tempo stesso ha rispetto e crede in alcuni valori umani e culturali che ci accomunano. Non conosco molti altri gruppi, soprattutto come il nostro. Parlando della nostra esperienza, posso dirti che non è una questione di energia o stimoli, si tratta di una scelta di vita.

Recentemente hai curato il volume Fabio Mauri. Archivio di memoria, una raccolta di testi, immagini e ricordi legati alla figura e al lavoro di Fabio Mauri. Come è nata l'idea di questa pubblicazione? Chi ha contribuito alla realizzazione del progetto?
L'idea di pubblicare il volume su Fabio Mauri nasce dalla volontà di approfondire lo studio di alcuni artisti fondamentali per la storia dell'arte italiana e non solo. Nel numero 0 di Nodes abbiamo pubblicato una delle sue ultime interviste a firma di Marco Marini. Subito dopo abbiamo sentito la necessità intellettuale di approfondire, pubblicando un progetto che fosse in linea con il nostro metodo di lavoro.
Abbiamo usato Fabio Mauri come stimolo e scelto un campione di 35 autori che hanno risposto in una pagina A4, attraverso testi, documenti, immagini.
Siamo riusciti a dare una visione di Fabio Mauri, un'analisi del suo lavoro, sicuramente atipica e interessante. Grazie alla stretta collaborazione con lo Studio che cura il patrimonio dell'artista, siamo riusciti anche a pubblicare molti documenti e immagini inedite.
Il progetto è totalmente autofinanziato. Un progetto di ricerca e senza scopo di lucro.


Dionigi Mattia Gagliardi (Crotone, 1986) è attualmente Presidente dell'Associazione Numero Cromatico (centro di ricerca e casa editrice), Direttore Responsabile della rivista Nodes (ISSN 2281-1168), membro del Comitato Scientifico di Rivista di Psicologia dell'Arte (ISSN 0393-9898) e collaboratore del Centro Studi Jartrakor, Consigliere Accademico presso l'Accademia di Belle Arti di Roma.
Dal 2013 è iscritto all'Albo dei Giornalisti nell'elenco dei Direttori Responsabili.
È diplomato con il massimo dei voti presso l'Accademia di Belle Arti di Roma in Comunicazione e Didattica dell'Arte (A.A. 2013) e in Arti Visive (A.A. 2011).
Si occupa di Psicologia dell'Arte e Neuroestetica. Conduce studi sulla creatività e sui fenomeni aleatori. Da anni è portavoce di movimenti per il riconoscimento del livello universitario alle Accademie di Belle Arti italiane.
Ha partecipato a mostre personali e collettive presso l'Istituto Italiano di Cultura di Vienna, l'Istituto Italiano di Cultura del Cairo, Museo MACRO di Roma, Musei Capitolini di Roma, Museo Nazionale Romano, Consiglio di Stato a Roma, House of Art (Dom Umenia) Bratislava.

Per approfondire:

lunedì 2 marzo 2015

Tre domande a Roberto Ago

Il tuo modus operandi mi sembra essere, in qualche modo, frutto della stessa tendenza antispecialistica che unisce idealmente, in un percorso che si snoda dalla seconda metà del Novecento ai giorni nostri, personalità molto diverse, come ad esempio quella di Bruno Munari o di Maurizio Cattelan. La confusione e la sovrapposizione dei ruoli sono una cifra del nostro presente: quali sono i vantaggi e i difetti di un simile approccio?
Innanzitutto grazie dell'interesse e dell'accostamento ai due illustri italiani, certamente immeritato. A fronte di un'attività multiforme che mi vede soprattutto scrivere e realizzare lavori – mentre curo mostre in misura trascurabile, almeno per il momento –, in realtà si tratta sempre del medesimo sguardo "iconologico". Da un po' di tempo tuttavia la mia principale occupazione è lo studio, in vista di un saggio illustrato molto complesso e una seconda laurea in filosofia. Non mi limito mai alla mera indagine iconografica, ma innesto creatività e conoscenza sui testi visivi che mi propongo di interrogare. Penso, ad esempio, a un intervento come quello su Charlie Hebdo e l'attentato di Parigi: senza l'orizzonte concettuale riconducibile a un pensatore fondamentale come René Girard, sia il testo che le tavole che lo illustrano risulterebbero di difficile comprensione così come, a mio avviso, l'attentato stesso. Idem per la ricognizione breve sullo stato dell'arte contemporanea intitolata "Opera chiusa": o si mastica un minimo di semiotica applicata al testo visivo, o non si ha la più pallida idea dello statuto linguistico dell'arte, con il rischio purtroppo diffuso di scivolare in molti giudizi fallaci. Viceversa, senza una dose di creatività l'indagine iconografica che ho dedicato all'11 settembre non avrebbe toccato le attuali cinquantatré tavole – molte delle quali esposte al Premio Cairo e andate letteralmente a ruba –, né il celebre croissant con farfalla di Urs Fischer le innumerevoli letture interpretative che sono riuscito a collezionare.
Per quanto riguarda la confusione dei ruoli, personalità trasversali sono sempre esistite, non mi pare una novità specie se guardiamo all'estero. Se alludi a Cattelan che cura una mostra, nulla di speciale, chiunque s'intenda davvero d'arte contemporanea, e naturalmente a parità di contatti e potere contrattuale, potrebbe fare altrettanto e anche meglio. Quello del curatore è un mestiere molto sopravvalutato, per esercitarlo basta avere buone relazioni ma soprattutto buon occhio. Molti curatori non sbagliano la mostra, sbagliano gli artisti; oppure inciampano su un tema espositivo didascalico e ancora peggio "impegnato", il vezzo attualmente più di moda. L'artista e il gallerista bravi sono spesso i curatori migliori, entrambi hanno un'ottima materia prima a disposizione e sono campioni nell'allestimento, che se ben fatto vale più di mille pretesti espositivi. Cattelan lo ha dimostrato, mentre si dia a un Massimo De Carlo il Padiglione Italia, e state sicuri che farebbe meglio di molti curatori in circolazione. Poi certo c'è la capacità di leggere la contemporaneità, un valore aggiunto che è appannaggio di pochi ma che non va preso alla lettera: se un curatore militante tipo Gioni non può che viaggiare in lungo e largo alla scoperta di talenti inediti da convogliare in un unico appuntamento, uno meno esplorativo può dedicarsi al lavoro di fino con risultati perfino più interessanti.

A proposito del tuo breve saggio "Opera chiusa": sulla base di una rapida ricognizione del presente, suffragata da una rappresentativa esemplificazione, proponi un approccio alle questioni estetiche fondato sull'assunto (dal sapore postmoderno) che ogni possibilità espressiva sia stata ormai ampiamente esplorata. Ciò costringerebbe gli artisti contemporanei a "pratiche progressivamente illustrative quando non didascaliche nei confronti delle produzioni precedenti e di conseguenza del mondo". Provando ad andare oltre le doverose constatazioni e le sane provocazioni, pensi sinceramente che non si possa fare altro che "prendere coscienza della situazione con realismo in vista di opere chiuse almeno convincenti"?
Più che pensarlo si può constatarlo, non sono certo il solo (ultimamente Bonami). A partire dalla data simbolica del 2001, non è emerso un solo nome su scala globale che abbia prodotto un'arte realmente innovativa, ma solo rimaneggiamenti anche pregevoli di cose già masticate. Perfino il più "differente" di tutti, Tino Sehgal, non fa che reificare la performance nell'illusione che il museo corrompa l'arte meno della sua riproduzione mediatica, quando una performance "ready made" è già riproduzione di un originale. La categoria estetica del "postmoderno" andrebbe spogliata delle sue innumerevoli etichette promozionali e riconosciuta per quella che è sempre: maniera. Che in arte è la regola, non l'eccezione, con in mezzo infinite sfumature di grigio. Per una sorta di riflesso condizionato si tende a credere che gli artisti debbano essere necessariamente innovativi, ma semplicemente non è vero. L'equivoco nasce da una memoria mal interiorizzata delle avanguardie storiche e delle successive sperimentazioni di metà e fine Novecento, momenti epici ma anche episodici di grandi rotture di codici e invenzioni linguistiche. Non viviamo quel tipo di fase, con in più una congiuntura storica inedita: la globalizzazione di marca occidentale. La postmodernità, lungi dal differenziarsi da una fantomatica "altermodernità" che, se anche fosse, le assomiglierebbe parecchio, è divenuta conditio sine qua non di un canone occidentale multiforme quanto si vuole, ma anche mappato in tutti i sui gangli. Dato un universo estetico progressivamente intertestuale e dove la "transcodifica" cara a Bourriaud è diventata la norma (spesso fine a se stessa), difficile dire se possa prodursi di nuovo rottura. Già una volta abbandonammo caverne, templi e cattedrali per lidi espositivi inediti e un'arte altrimenti inimmaginabile, forse dovremo attendere uno stravolgimento di quel tipo per rivivere l'ebbrezza di chi osservò i primi tagli di Fontana, gli igloo di Merz o i neon di Dan Flavin. Ma il fatto è che anche il disertare musei e gallerie in favore dei sentieri del mondo è diventato un formalismo codificato. In tutta franchezza, non vedo vie d'uscita a un ineluttabile accademismo globale.
Tuttavia, personalmente mi accontento, se non altro perché l'imago "by the artists" non costituisce più il mio interesse primario. Mi avvicinai all'arte contemporanea dopo il 2000, sufficientemente tardi da non aver vissuto in tempo reale le prime performance della Beecroft, l'avvento di Cattelan e di tutti gli altri protagonisti di quel decennio altamente innovativo che sono stati gli anni '90. Non ho mai avuto la fortuna di imbattermi in opere che destabilizzassero le mie coordinate estetiche (solo l'11 settembre c'è riuscito), posso soltanto immaginare cosa si provi e rilevare come l'arte degli anni 2000 non ci riesca. Fin da subito, legioni di artisti mi sono apparse un po' fiacche e ripetitive, ma anche molto intelligenti e sofisticate. La sapiente ipercodifica di talenti miei contemporanei come Sehgal, Guyton, Walker, Uklanski, Gaillard, Kuri, Martin, Kelm, Horowitz, Fischer e tanti altri, che non andrebbero confusi con i loro numerosissimi cugini di serie B e C, fa rimpiangere le più audaci invenzioni dei loro padri e nonni fino a un certo punto. Dopo l'attacco alle Twin Towers, che mentre coronava i ruggenti anni '90 inaugurava quel "Perverted Minimalism" che avrebbe contrassegnato il decennio successivo, l'arte ha guadagnato in domesticazione e raffinatezza ciò che ha perso in forza e originalità: stiamo vivendo una fase storica che senz'altro definirei di "manierismo sperimentale".  

Se è vero che la raffinatezza "addomesticata" di cui parli può in molti casi effettivamente essere di maniera, bisogna anche riconoscere che le ragioni profonde del rifiuto degli eccessi postmoderni e delle acrobazie provocatorie degli anni Novanta risiedono in una consapevole elaborazione del vuoto ideologico, morale e politico dei nostri tempi. Nella prima risposta hai chiaramente detto che consideri un certo tipo di "impegno" il "vezzo attualmente più di moda". Potresti provare a fare qualche esempio concreto delle pratiche e delle strategie che ti sembrano più ingenue e inefficaci, facendo riferimento in particolare alla giovane arte italiana? Quali sono invece i percorsi di ricerca che ritieni interessanti e stimolanti?
Sarei cauto nel considerare l'arte degli anni '90 come una serie di acrobazie e provocazioni, anche se queste certamente non sono mancate. Non credo che valutazioni di tipo sociologico possano illuminare più di tanto quel gioco di società trans-generazionale che è l'arte, il quale è fatto di mosse e contromosse prettamente linguistiche anche quando le fanfare gridano al collasso&avvento di qualsivoglia orizzonte ideologico. Un Sibony e un Ruby non rispondono tanto a un vuoto ideologico, quanto a un pieno semiotico che li ha preceduti. Poi puoi leggerli come due araldi del "low-fat" post-11 settembre, ma direi che la sottospecie del "Neo-Minimalismo" e la variante del "Perverted Minimalism" li inquadrino meglio e senza inquinanti ideologici altamente opinabili. Per quanto riguarda, invece, la questione di un'arte engagé, posso dire che le due opere di Correale descritte in "Opera chiusa" rappresentano un caso esemplare di produzioni assai problematiche ancorché impegnate, per i motivi là riportati. Viceversa, i percorsi di ricerca che reputo interessanti sono gli stessi di una Storia dell'Arte: quelli che veicolano un rilancio estetico-linguistico non necessariamente dirompente e che se anche contempla contenuti edificanti, non ne fa il suo passaporto. Passino gli artisti, ma quanti curatori ignorano oggi questa distinzione fondamentale, equivocando il reale valore di produzioni maldestre che hanno il solo pregio di citare Pasolini o i sempreverdi "meccanismi del potere"? In "Opera chiusa" ho cercato di scattare l'istantanea di un impasse creativo che è sotto gli occhi di tutti e tuttavia ignorato, e che siccome è ben lungi dallo scorgere quel "capolinea duchampiano" che Bonami, da lucido osservatore qual è, può solo auspicare ma non annunciare (come invece fa Bourriaud), andrebbe affrontato di petto in vista di quel manierismo di qualità di cui sopra.
Venendo all'Italia, ultimamente sono incuriosito da Alterazioni Video, ai quali non riconosco afflati identitari, ma epigonali di mondi altri rispetto all'arte. Anche se è presto per sbilanciarsi, pur di svecchiare e di non fare la solita figuraccia avrei dato interamente a loro il prossimo Padiglione Italia. Dopo le solite tre o quattro star che non a caso sono emerse negli anni '90, reputo valide le ricerche di Pessoli, Roccasalva, Carrubba, in parte Gabellone (troppo indeciso tra internazionalismo e tradizione), Favelli, Gennari, Caravaggio, tutti a loro modo "copioni" di una inconfondibile "scuola italiana". Hanno capito che, in caso di koinè artistiche ipercodificate, oggi come allora è meglio copiare consapevolmente un originale di rango apportando qualche modifica – io ad esempio copio volentieri Warburg, migliorandolo –, che illudersi di essere originali mentre si ricalcano degli stilemi impersonali. Sorpreso? Alla lunga, potrebbero essere loro le figure più consistenti della storia – un po' decadente – dell'arte italiana di inizio secolo, paradossalmente perché più reazionarie e impermeabili alle mode di tante altre. Ci vorrebbero una mostra e un testo fuori tempo massimo che li traghettassero, curatore autolesionista compreso, in una Storia dell'Arte Italiana magari non esaltante, ma certa e imperitura; il rischio concreto, altrimenti, è che i meno in vista tra loro continuino a confondersi nella palude fino a restarci definitivamente, e che i più blasonati vengano ridimensionati fino a ritrovare delle sabbie mobili sempre in agguato.
Per il resto, gli artisti italiani spariranno quasi tutti, residenti all'estero compresi. Solo qualcuno approderà a una fama e mercato nazionali quando non regionali, che in un mondo globale equivalgono pressoché al nulla. Finora l'Italia ha in gran parte fallito il suo appuntamento con l'arte globalizzata post-2001, sdoganando o identità forti ma arroccate, o epigoni all'assalto di un "international style" che, per un comprensibile diritto di primogenitura, non ammette repliche (come Favaretto, Assaël, Maloberti, Vascellari, Trevisani, Di Martino, Biscotti, Alis/Filliol, ecc.). Non è affatto semplice, per un artista di provincia qual è oggi chi si formi nel Belpaese – emigrare successivamente è condizione necessaria ma non sufficiente –, perseverare nella tradizione, trovare un compromesso soddisfacente o tentare un tradimento radicale. Una cosa sola è certa: finché tre luoghi cardine del nostro sistema dell'arte come formazione, promozione e informazione insisteranno nello status quo, continueremo a collezionare fallimenti.


Roberto Ago è un iconologo. Immerso nell'ipertesto della visione come un archeologo nella stratigrafia del terreno, dedito ad un'ermeneutica creativa volta ad indagare, ancorché ispirata alla grande tradizione warburghiana, in primo luogo la contemporaneità, si produce nell'interpretazione, decostruzione e critica di reperti iconici rinvenuti negli ambiti più disparati, a cominciare naturalmente dalle arti visive. Le sue indagini si avvalgono indifferentemente del critico d'arte, dell'artista visivo e, in misura minore, del curatore dedito alla ricontestualizzazione di poetiche e display espositivi.

Per approfondire:

lunedì 9 febbraio 2015

La fiera e i fantasmi

Arte Fiera continua a crescere anche nel 2015: le biglietterie hanno chiuso registrando oltre 52.000 ingressi, il 10% in più rispetto all'edizione 2014; le 188 gallerie presenti hanno esposto circa duemila opere di un migliaio di artisti e il giro di affari, stando alle dichiarazioni del presidente Duccio Campagnoli, si sarebbe aggirato tra i 28 e i 30 milioni di euro. Tornano anche alcuni dei grandi assenti del 2014, come Massimo Minini e Alfonso Artiaco (ma all'appello manca ancora più di un nome importante). La fiera bolognese punta sempre più negli ultimi anni sulla sua "italianità", nella consapevolezza della scarsa propensione dei collezionisti internazionali a frequentare la Penisola per comprare arte italiana. Se è vero che ormai i grandi nomi del nostro Novecento (dall'Arte Povera al concettuale, da Fontana al gruppo Azimut) ottengono ottimi risultati nelle aste internazionali, è anche risaputo che per incrementare le vendite, nella maggior parte dei casi, sono i galleristi italiani a spostarsi oltreconfine, magari aprendo nuove sedi all'estero. I clienti stranieri sono infatti scoraggiati dalle condizioni fiscali che, se si ascoltano le opinioni di più di un dealer, non favoriscono gli investimenti in arte nel nostro Paese e fanno soffrire il mercato italiano.
Gli artisti più rappresentati sono stati Lucio Fontana (Artitalia, Battaglia, Benappi, Bibo's Place, Blu, Campaiola, Cardi, Copetti, Cortesi, Eidos, Galleria Farsetti, Il Castello, Lampertico, Mazzoleni, Mediartrade, Montrasio, Repetto, Tega, Tonelli, Tornabuoni), Alighiero Boetti (Accademia, Arengario, Artevalori, Biasutti & Biasutti, Cardi, Cortesi, Deniarte, Jerome Zodo, Lampertico, Mazzoleni, Mediartrade, Pero, Progetto Arte Elm, Repetto, Tonelli, Tornabuoni), Agostino Bonalumi (Blu, Campaiola, Cardi, Cortesi, Deniarte, Giraldi, Jerome Zodo, Lattuada, Mazzoleni, Mediartrade, Repetto, Tonelli), Enrico Castellani (Artevalori, Campaiola, Cardi, Claudio Poleschi, Dep Art, Jerome Zodo, Lampertico, Lattuada, Mazzoleni, Tega, Tonelli, Tornabuoni), Alberto Burri (Artitalia, Blu, Campaiola, Cardi, Galleria Farsetti, Lampertico, Mazzoleni, Montrasio, Repetto, Sapone, Tega), Pino Pinelli (Battaglia, Cardi, Claudio Poleschi, Colossi, Dep Art, Ficara, Giraldi, Il Castello, Lattuada, Menhir, Progetto Arte Elm), Michelangelo Pistoletto (Accademia, Artevalori, Biasutti & Biasutti, Bibo's Place, Cardi, Claudio Poleschi, Continua, Mazzoleni, Repetto, Studio Guastalla, Tonelli), Afro (Campaiola, Cinquantasei, Copetti, Deniarte, Galleria dello Scudo, G.R., Laocoonte, Mazzoleni, Poleschi, Tega), Dadamaino (Artevalori, Cortesi, Dep Art, Jerome Zodo, Labs Gallery, Lattuada, Poleschi, Studio Guastalla, Tega, Tornabuoni), Giorgio de Chirico (Artitalia, Campaiola, Cinquantasei, De' Bonis, Deniarte, Galleria Farsetti, Mediartrade, Tega, Torbandena, Tornabuoni), Turi Simeti (Dep Art, Diehl, Giraldi, Jerome Zodo, Lampertico, Lattuada, Menhir, Poleschi, Studio Guastalla, Tega), Mario Schifano (Artevalori, Bagnai, Bibo's Place, Deniarte, Forni Stefano, Guastalla, Jerome Zodo, Mazzoli Emilio, Poleschi), Giacomo Balla (Artitalia, Bibo's Place, Campaiola, Cinquantasei, Galleria Farsetti, Laocoonte, Russo, Torbandena), Alberto Biasi (Allegra Ravizza, Cortesi, Dep Art, Eidos, G.R., Jerome Zodo, L'Incontro, Maab), Pier Paolo Calzolari (Accademia, Artevalori, Biasutti & Biasutti, Claudio Poleschi, De' Foscherari, Galleria Farsetti, Repetto, Tonelli), Mimmo Paladino (Accademia, Ariete, Bonomo Valentina, Cardi, Contini, Editalia, Mazzoli Emilio, Poleschi), Giulio Paolini (Artevalori, Artiaco, Biasutti & Biasutti, Cardi, Lampertico, Minini, Repetto, Tega), Arnaldo Pomodoro (Bigai, Galleria Farsetti, Il Chiostro, Lampertico, Mazzoleni, Mediartrade, Poleschi, Proposte d'Arte), Mario Sironi (Biasutti & Biasutti, Bibo's Place, Cinquantasei, De' Bonis, Galleria Farsetti, Laocoonte, Mediartrade, Tega), Piero Dorazio (Biasutti & Biasutti, Bibo's Place, Di Paolo, Galleria dello Scudo, Lampertico, Mediartrade, Tonelli), Hans Hartung (Accademia, Di Paolo, Eidos, Mazzoleni, Mediartrade, Repetto, Tega), Jannis Kounellis (Arengario, Artevalori, Artiaco, Biasutti & Biasutti, Cardi, Claudio Poleschi, Editalia), Giorgio Morandi (Bibo's Place, Campaiola, Cinquantasei, De' Bonis, Galleria Farsetti, Tega, Tornabuoni), Emilio Vedova (Biasutti & Biasutti, Campaiola, Cinquantasei, Galleria dello Scudo, Galleria Farsetti, Lampertico, Mazzoleni), Gilberto Zorio (Artesilva, Artevalori, Biasutti & Biasutti, Cardi, De' Foscherari, Poggiali e Forconi, Poleschi), Carla Accardi (Biasutti & Biasutti, Bonomo Valentina, Deniarte, Editalia, Ficara, Tega, Tonelli), Getulio Alviani (10 A.M. Art, Ficara, Giraldi, Labs Gallery, L'Incontro, Tonelli, Vistamare), Vincenzo Agnetti (Ca' di Fra', Claudio Poleschi, Cortesi, Lampertico, Maffei, Osart), Enzo Cucchi (Accademia, Bonomo Valentina, Campaiola, In Arco, Mazzoli Emilio, Poggiali e Forconi), Nicola De Maria (Caldirola, Cardi, Claudio Poleschi, Mazzoli Emilio, Mediartrade, Poleschi), Luigi Ghirri (Bella, Il Chiostro, Minini, Photo & Contemporary, Poggiali e Forconi, Repetto), Bruno Munari (Corraini, Costa, Galleria dell'Incisione, Lampertico, L'Elefante, L'Incontro), Salvo (Atlantica, Claudio Poleschi, Dep Art, Mazzoli Emilio, Menhir, Raffaelli), Giuseppe Uncini (Accademia, Artevalori, Cardi, Claudio Poleschi, Costa, Progetto Arte Elm).
Tra gli stand si vede molta Optical Art e Arte Cinetica. Parecchie sono le conferme: è sempre alta l'attenzione su artisti come Paolo Scheggi, Ettore Spalletti, Emilio Isgrò o Giuseppe Penone. Qualche galleria non è particolarmente coraggiosa e si limita a esporre nomi molto amati e collezionati dal grande pubblico, come Valerio Adami, Giuseppe Capogrossi o addirittura Damien Hirst. Non mancano però proposte interessanti perché per nulla scontate: i meravigliosi collage di Jiri Kolar (Galleria dell'Incisione e Open Art), i lavori di due maestri della poesia visiva e sonora come Arrigo Lora Totino e Henri Chopin (L'Elefante), le splendide carte di Stefano Arienti (Sales) e le sperimentazioni con la penna biro di Irma Blank (P420). Tra le novità spiccano per originalità e spessore i percorsi di ricerca di Maria Elisabetta Novello (Verrengia), di Lamberto Teotino (Mc2) e del giovanissimo Giovanni Sartori Braido (Massimodeluca).
La terza edizione della fiera collaterale SetUp, ideata e diretta da Alice Zannoni e Simona Gavioli, porta avanti coerentemente il percorso di sperimentazione e di promozione delle migliori energie creative iniziato nel 2013, rafforzando la propria identità di laboratorio di idee e di piattaforma culturale. Il numero di espositori è aumentato: dalle 26 dello scorso anno, le gallerie presenti nell'Autostazione sono diventate 33. Lascia il segno lo stand di BI-BOx Art Space, con una mostra in cui la scrittura funge da trait d'union tra le esperienze di artisti dal grande potenziale, tra i quali emergono Opiemme e Alessandra Maio. Notevoli anche gli Aforismi di Eracle Dartizio, esposti dalla Galleria Moitre. Sul versante degli eventi culturali, il ciclo di conferenze a cura di Martina Cavallarin e scatolabianca ha visto la partecipazione di Lavinia Savini, Alessandra Donati, Stefano Monti, Giuseppe Stampone e Claudia Marcon.
Tra le numerose iniziative inserite nel ricco programma di Art City, un tour nelle sale dedicate alle mostre temporanee del MAMbo costituiva una tappa obbligata per i visitatori più attenti, che hanno così potuto sperimentare un rigenerante momento di decompressione e di netto distacco dalla calca e dalla frenetica concitazione della fiera. La retrospettiva Ghost House (fino al 6 aprile 2015), dedicata a Lawrence Carroll, con le sue atmosfere spettrali, mette in scena quel vuoto di cui trabocca il nostro presente, evocando i fantasmi che popolano l'immaginario di chi vive la crisi degli ideali e della loro rappresentazione. Immagini sepolte, palpabili nella loro assenza, raccontano trent'anni di carriera dell'artista australiano, che dialoga a Bologna con uno dei suoi principali modelli, Giorgio Morandi, proprio nel museo che oggi ospita la massima raccolta di opere del Maestro. Le monumentali tele di Carroll tendono all'assoluto del bianco, ma trasudano inquietudine e tensione emotiva, che si materializzano in assemblaggi precari fatti di stracci, legno, metallo e lampadine. Il silenzio e la pace che si sperimentano di fronte ai suoi lavori nascono da una temporanea amnesia, dal senso di abbandono che essi suscitano nell'osservatore, che per un momento dimentica se stesso e la propria coscienza individuale, abbagliato da una luce opaca e avvolto da un vago sentore di infinito.

lunedì 19 gennaio 2015

Tre domande a Sergio Breviario

Nel tuo lavoro il disegno è sempre stato centrale, ma forse l'aspetto più interessante della tua ricerca è il tentativo costante di costruire un rapporto privilegiato con lo spettatore, la cui attenzione è catturata e guidata verso il centro dell'opera da una perfetta macchina percettiva, sapientemente congegnata attraverso le scelte di allestimento. In che misura la costruzione degli ambienti espositivi può essere considerata parte integrante del processo creativo? In genere si tratta di una fase successiva al disegno, che nasce come espediente per orientare la fruizione, oppure progetti contestualmente contenitore e contenuto?
È innegabile che misurare, modificare e progettare gli spazi espositivi sia, per quanto mi riguarda, parte integrante dell'opera. Realizzare una mostra equivale ad edificare luoghi compiacenti ai miei gusti, ai miei stati d'animo, alle mie necessità, ma autonomi nella meccanica costruttiva. Una sorta di castello di sabbia con regole ed unità di misura imposte a priori, tutte rivolte all'autodeterminazione di un mondo artificiale. Il processo di misurazione e progettazione dello spazio, nel corso degli anni ha dato luogo ad una sorta di modalità operativa, che io chiamo artificio.
Devo precisare che per quanto concerne il disegno, tu affermi che nel mio lavoro è sempre stato centrale; mi permetto di puntualizzare che più che centrale è sempre stato presente. Infatti fin dagli inizi sono comparsi disegni aventi come soggetto volti androgini, realizzati con matita HB, tutti della stessa dimensione: 32×23 cm. Questi personaggi fungono da immobili spettatori; esposti all'interno di questi spazi, ne modificano le ragioni e quindi la forma, ma restano comunque autonomi, distaccati ed intercambiabili fra loro. Difatti alcuni ritratti sono apparsi in differenti mostre, svolgendo differenti compiti.
Detto questo, è giusto affermare che questi due elementi, il disegno e lo spazio artificiale, si fondono creando un'unica opera. Funzionano da macchina ottica, messa lì per stimolare i sensi dei visitatori esterni. Trovo che il termine macchina sia calzante, perché dà l'idea non di un'opera compiuta fine a se stessa, esposta per essere contemplata, ma di qualcosa che serve a fare, a produrre. In effetti tutto questo ambaradan ha il solo scopo di suggerire immagini sensibili al visitatore; mostre intese come macchine per produrre immagini mentali. Ciò che mi interessa dell'arte in generale è proprio la sua attitudine a sostare nella memoria delle persone, come immagine primordiale. Per immagine primordiale intendo quelle sensazioni che precedono ogni forma di pensiero, un qualcosa che riaffiora come un antico ricordo. Artificio non è un tentativo di creare qualcosa di originale e innovativo, ma al contrario tenta di far tornare alla mente qualcosa che già si conosce, di intimamente familiare. Per questo l'esperienza fisica della mostra è indispensabile; é indispensabile la condivisione dell'opera. Il visitatore conclude il processo innescando il meccanismo percettivo.
Artificio è difatti un metodo operativo utilizzabile in diverse situazioni: nel corso di quest'ultimo anno ho iniziato a sperimentarne l'utilizzo al di fuori degli spazi dedicati alla mia persona e cambiando tale punto di riferimento sono cambiate anche le necessità tecniche. Ho lavorato con una Polaroid 230 in grado quindi di produrre immagini fotografiche istantanee, fisicamente presenti anche se di piccolo formato. Queste fotografie tentano di ricostruire mondi artificiali risalenti a immagini della memoria. Per questi lavori ho deciso di mettere in atto un sistema espositivo che non tenesse conto dello spazio circostante. Anche i disegni sono stati sostituiti da una precisa allusione allo sguardo; ancora una volta i visitatori si sono ritrovati involontariamente ad essere parte determinante di un meccanismo percettivo. O almeno così mi piace credere.

La dimensione relazionale di alcune delle tue ultime architetture in movimento appare quasi esasperata: le opere agganciate alle spalle per mezzo di strutture mobili e indossabili diventano propaggini del corpo, ma nello stesso tempo lo appesantiscono, rendendo difficili i movimenti. Perché hai deciso di puntare su un coinvolgimento così diretto e materiale, quando invece in altre occasioni sei riuscito a entrare in perfetta sintonia con il pubblico su un piano concettuale e mentale? Non credi che in determinate circostanze l'interazione possa essere sostituita dall'idea di interazione, lasciando il risultato e il significato immutati?
"Dimensione relazionale [...] esasperata": interessante questa definizione. Le tue parole mi fanno riflettere: queste strutture non le ho pensate come protesi fisiche, ma come mezzi o se preferisci come delle rudimentali architetture, necessarie per fare in modo che il corpo si sostituisca alla parete dove solitamente abbiamo l'abitudine di esporre i nostri quadri. Non ho aggiunto nulla, anzi ho tolto. Ho tolto lo spazio espositivo, le stanze, i muri...
Questi nuovi spazi artificiali, queste strutture, sono semplicemente modalità espositive che mi permettono di azzerare lo spazio circostante, senza per questo rendere le opere solo oggetti da vedere. Mantengono la loro funzione, senza intaccare quel rapporto tra macchina ottica e spettatore di cui abbiamo parlato sopra. Appendere un disegno alla parete è per me un gesto che deve essere motivato, in quanto il muro potrebbe restare semplicemente e meravigliosamente vuoto. Non è sufficiente avere un buon disegno o un buon quadro o quant'altro, mi serve un meccanismo, un tentativo di relazione tra il disegno e chi lo guarda che potremmo definire "esasperato" per tornare alle tue parole.

L'intero repertorio di immagini che costituisce il tuo personale alfabeto visivo è generato dal sapiente accostamento di luci e ombre in un minuzioso ricamo fondato sul passaggio tonale. Agli assoluti preferisci la grazia di un equilibrio precario? Esiste armonia in ciò che è in divenire?
Non è l'armonia lo scopo di tutto ciò che facciamo? Io voglio credere di sì, che l'armonia sia il teorema da dimostrare.
Il passaggio tra luce e ombra è una cosa reale, fisica, esprime un senso di vitalità. Oscillare ostinatamente tra le infinite tonalità di grigio è come riprodurre continuamente stati vitali: il giorno e la notte, il bene e il male, la vita e la morte... Ma senza mai toccare gli estremi.
Solitamente i disegni hanno per soggetto dei volti, ma solo perché l'uomo ha necessità di ritrovarsi nelle immagini, di specchiarsi. Ciò che mi interessa è il passaggio tonale, il grigio. Il grigio è per me il colore/non colore dell'arte. Ti racconto un fatto: una volta ho inviato ad una rivista d'arte delle foto di alcune mostre per un articolo. Dopo due giorni mi chiama al telefono una persona della redazione e mi dice, con voce imbarazzata, che c'era un problema: fra tutte le immagini che avevo inviato non c'era un solo colore che si potesse chiamare tale e la pagina dedicata a me risultava, a suo dire, un po' triste. L'episodio mi divertì molto. Le mandai delle immagini di alcune mostre dove il colore si mostrava in tutto il suo splendore. Questo per dirti che non solo nei disegni c'è questa attenzione alla tonalità, ma essendo un'attitudine personale è presente praticamente in tutto ciò che faccio.


Sergio Breviario (Bergamo, 1974) vive a Bottanuco (BG) e lavora a Milano. Si diploma nel 1998 all'Accademia di Brera di Milano, con una tesi sul concetto di Nuovo realismo. Fino al 2000 si occupa di design, in un ambiente di lavoro che gli consente di sperimentare diversi materiali. Nel 2002 partecipa al Corso superiore di arti visive presso la Fondazione Ratti di Como. Tiene mostre personali a Roma, presso la galleria Marie-Laure Fleisch, e a Bologna, presso la galleria Fabio Tiboni arte contemporanea. Partecipa a numerose mostre collettive, esponendo in prestigiose istituzioni pubbliche e private, tra cui il Museo del 900 a Milano, il MAXXI a Roma e il MAGA a Gallarate. Nel 2013 merita la menzione speciale al Premio Moroso della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia e partecipa al progetto di residenza per artisti CARS a Omegna. Nel 2014 è tra i finalisti della quindicesima edizione del Premio Cairo.

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