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venerdì 30 maggio 2014

La storia dell'arte torna a scuola

Un tweet del 28 maggio di Dario Franceschini annuncia: "L'insegnamento della storia dell'arte tornerà nelle scuole. Impegno comune del ministro Giannini e mio". I ministri dell'Istruzione e dei Beni culturali hanno in effetti firmato un protocollo d'intesa, di durata triennale, mirato a incrementare la conoscenza del patrimonio culturale attraverso l'azione formativa delle scuole. La volontà di rinsaldare il sodalizio tra il mondo dell'istruzione e quello della cultura deriva dall'esigenza di rimettere al centro del sistema educativo italiano uno dei punti di forza del Paese, quasi un suo tratto genetico: la ricchezza, sia in termini quantitativi che qualitativi, di beni di particolare rilievo artistico e storico. La perdurante inettitudine, tutta italiana, nel gestire tale immensa risorsa è connessa in maniera fin troppo palese a una carente condivisione e circolazione dei saperi, aggravata dai tagli alla scuola pubblica ai quali abbiamo assistito nel recente passato. Un popolo che non conosce, non apprezza e non difende con orgoglio la sua cultura non sarà mai in grado di innescare positive dinamiche di valorizzazione. Per questo motivo è auspicabile che ai buoni propositi segua il concreto impegno del Governo per ottenere rapide coperture che consentano una revisione degli ordinamenti didattici, riesaminando almeno i punti più contestati della riforma Gelmini. Il progetto di reintrodurre l'insegnamento della storia dell'arte nei programmi degli istituti professionali e tecnici punta strategicamente al cuore del problema, ma non è l'unico aspetto interessante dell'intesa. In base al protocollo, Miur e Mibact faranno da ponte tra scuole e musei nella promozione di iniziative tese a favorire la comprensione della tutela del paesaggio e l'avvicinamento alla conoscenza dell'arte contemporanea, incoraggiandone lo sviluppo. L'accordo promuove inoltre iniziative per la valorizzazione e la fruizione consapevole del circuito archeologico e delle biblioteche, al fine di incoraggiare l'accesso alla cultura dei giovani. Le intenzioni sembrano delle migliori. Sul piano concreto, invece, il ministro Giannini ha annunciato un investimento di appena 500.000 euro per l'anno scolastico 2014/2015. Si spera sia solo un primo piccolo passo.

sabato 15 marzo 2014

I no delle soprintendenze e i buchi nel Vasari

Il 9 marzo scorso è apparso su La Repubblica un articolo di Giovanni Valentini dall'esplicito titolo: "Tutti i no delle soprintendenze che ostacolano i tesori d'Italia". Con tutto il rispetto e l'affetto per il bravissimo giornalista, che però non può certo vantare particolari competenze, titoli ed esperienze nel settore della gestione e della tutela del patrimonio culturale, viene da sorridere amaramente quando si individua nella "maledizione dei coccetti" una delle principali cause del degrado urbanistico e sociale della Capitale, oppure quando si accusano le soprintendenze di "incatenare il Belpaese" o di "bloccare il recupero del patrimonio artistico". Uno scivolone può capitare a tutti e, per una volta, l'acuto editorialista del giornale di Ezio Mauro è inciampato in un mal congegnato miscuglio di demagogia e superficialità, che mostra in trasparenza, sullo sfondo, tutto il repertorio delle insofferenze e delle bramosie che il ventennio berlusconiano ha insinuato nell'animo degli italiani. Così, tra le righe, compaiono tematiche tristemente note e affermazioni che, a dire il vero, potrebbero essere tranquillamente sottoscritte da un Nannipieri. Quello che più disturba è percepire un atteggiamento di sufficienza di fronte alla cultura delle regole (almeno in campo culturale), quando questa va a scontrarsi con un'esigenza di "modernizzazione" dai contorni non ben definiti. Ma è ben poco elegante anche il profluvio di dati sugli stipendi di dirigenti e funzionari del Ministero dei Beni Culturali, che parrebbe voler estendere persino a questo settore l'ormai unanime riprovazione per gli eccessivi costi della politica, ma non fa i conti con una realtà che è descritta con tutt'altra consapevolezza nella replica all'articolo di Valentini pubblicata su patrimoniosos.it e sottoscritta da un cospicuo numero di funzionari ed ex-funzionari del Mibact: "In un paese come il nostro, il Ministero dei Beni Culturali è da sempre considerato il fanalino di coda, [...] la percentuale del Pil nazionale investita in tutela e valorizzazione del patrimonio artistico è risibile rispetto a quella di altri paesi europei che non possono neppure lontanamente paragonarsi alla ricchezza del nostro, [...] gli organici del personale tecnico-scientifico del Mibact sono nettamente sottodimensionati rispetto alle esigenze di un patrimonio immenso e [...] l'età media dei funzionari è al di sopra dei cinquant'anni. Se dunque le soprintendenze non funzionano forse è perché non le si vuole far funzionare. E gli economisti, a cui è oggi tanto di moda appellarsi, ci insegnano che un'impresa va incentivata prima di tutto attraverso gli investimenti, sia di capitale finanziario sia umano".
Ciò che invece si rintraccia con difficoltà nell'articolo di Valentini è una coerente e concreta argomentazione a sostegno della sua tesi. Si cita l'esempio della decisione di Matteo Renzi, da sindaco di Firenze, di affittare Ponte Vecchio alla Ferrari, sostenendo che sia stata contestata dalla Soprintendenza. Eppure in quell'occasione la soprintendente ai beni ambientali ed architettonici Alessandra Marino ha firmato, forse anche con una certa leggerezza, l'ordinanza del Sindaco, esprimendo tra l'altro il suo parere favorevole. Scrive ancora Valentini che Renzi "avrebbe voluto far eseguire alcuni sondaggi tecnici" su un affresco di Vasari alla ricerca di un Leonardo perduto. In realtà l'attuale Presidente del Consiglio non "avrebbe" ma "ha" fatto eseguire una mezza dozzina di "sondaggi tecnici" (che, esplicitando l'eufemismo, non sono altro che buchi) sull'affresco di Palazzo Vecchio, con tanto di autorizzazione del soprintendente Cristina Acidini. A prescindere dai risultati delle operazioni, che non si vogliono qui giudicare, non sembra che gli esempi concreti portati da Valentini siano particolarmente efficaci nel dimostrare quanto i custodi dei beni culturali rappresentino un freno allo sviluppo. Pur senza cadere nell'eccesso opposto di chi denuncia un'abitudine diffusa alla "prostituzione culturale" nel nostro Paese (come è noto la verità, se sta da qualche parte, sta nel mezzo), dovrebbero essere altre le modalità per esprimere sostegno al nuovo Governo e coltivare speranze riguardo al suo operato. Mentre sembra paradossale che chi conserva un'idea diversa di come dovrebbe configurarsi l'azione politica della sinistra italiana meriti l'appellativo di "reazionario", che Massimo Mattioli in un suo pezzo per Artribune ha affibbiato a Giulia Maria Crespi, a Salvatore Settis e a coloro i quali hanno pubblicamente espresso il proprio dissenso nei confronti del programma di drastica revisione delle strutture centrali e periferiche per la gestione dei beni culturali prospettato dai renziani più convinti.
La semplificazione non è sempre la soluzione migliore per ogni problema: non lo è di certo in merito a questioni complesse come la valorizzazione e la tutela del patrimonio artistico.

sabato 22 giugno 2013

Una dissonante polifonia identitaria

Tra crisi economica e crisi dei valori, tra pensiero debole e ideologia, tra deterritorializzazione e localismo, tra antipolitica e corruzione, l'Italia del nuovo millennio è alle prese con un interminabile processo di ristrutturazione dell'identità, che tende ad assumere caratteri peculiari, conseguentemente alla specificità della situazione nazionale. L'identità contemporanea degli italiani è dinamica, come e più di ieri: si definisce in una costante manovra di costruzione e decostruzione, evolvendosi con il rinnovarsi dei riferimenti. Nel suo volume del 1995 Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori democratici, pubblicato da Feltrinelli, Carlo Tullio-Altan utilizzava per il nostro Paese la metafora della polifonia dissonante, sostenendo la contraddittorietà dell'identità etnica italiana, la sua variabilità e imprevedibilità. La debolezza dei processi di mitopoiesi, di costruzione di immagini archetipiche e di valori simbolici, ha determinato disfunzioni che hanno profondamente segnato il nostro costume nazionale, sia sul versante istituzionale, sia su quello della moralità pubblica e privata. La carenza, sul piano dell'ethos, del senso dello Stato e di valori democratici e universalistici si evidenzia come il principale punto debole nell'elaborazione collettiva dell'etnicità italiana, a cui si aggiunge la sopravvivenza di anacronistiche forme legate al principio del genos. Tali lacune hanno determinato l'insorgere di un insieme disomogeneo di valori, spesso tra loro in contrasto, in una pluralità conflittuale: per questo motivo nel contesto italiano alcuni caratteri della postmodernità (frantumazione, incoerenza, contaminazione) sono apparsi in maniera forse ancor più evidente che altrove. Nella costruzione dell'identità collettiva l'istituzione gioca un ruolo di fondamentale importanza poiché indirizza, pena la sanzione o il mancato riconoscimento, verso determinati valori socialmente accettati. Nel contesto italiano il riferimento istituzionale è sempre stato debole, dal momento che i principi di fedeltà e di lealtà nei confronti dello Stato hanno avuto grandi difficoltà ad affermarsi. Gli italiani hanno dunque varcato la soglia della surmodernità privi non solo di verità filosofiche e metafisiche, ma anche di spirito pubblico, trovandosi doppiamente disorientati ad affrontare i disagi delle rivoluzionarie mutazioni in atto.
La scarsa propensione a perseguire il bene comune ed una più spiccata predilezione per il conseguimento dell'interesse privato si spiegano con anni di trasformismo sistematico: un simile modello politico, di ascendenza giolittiana, piuttosto che correggere la fiacca vita morale dei cittadini, ha preferito adoperare tale fattore negativo al fine di consolidare il proprio potere, attraverso la pratica clientelare. Le conseguenze dell'intrinseca debolezza dello Stato sono di vasta portata: si delinea una situazione socio-politica che ha forti ripercussioni sulla cultura e sulla produzione artistica. Senza contare che, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, altri fattori intervengono a sconvolgere il già fragile assetto del nostro Paese. Il fenomeno del '68 porta a galla il profondo disagio giovanile di fronte alla corrente pratica politica: le nuove generazioni sono consapevoli delle inedite problematiche indotte dall'impressionante processo di sviluppo economico-tecnologico e delle loro conseguenze dirompenti sugli equilibri consolidati. La loro risposta è la mobilitazione e la protesta, segnali del riaffiorare di quel filone di giacobinismo eversivo che più di una volta ha caratterizzato le vicende della storia nazionale. La reazione dissidente di sinistra e l'egoistica accettazione delle consuetudini clientelari e del sistema partitico di gestione privatistica degli interessi pubblici hanno, in ogni caso, origine comune. Proprio la carente sensibilità nei confronti della razionale conduzione della cosa pubblica, la mancanza di senso dello Stato e di rispetto per l'interesse collettivo, la confusione tra le libertà naturali (i diritti del cittadino) ed un imprecisato spirito anarchico ed individualistico hanno generato da un lato il carattere anelastico della tradizione e dall'altro la disperata fuga in avanti delle avanguardie, nel segno dell'utopia. Nel tentativo di tracciare un profilo storico comparato delle identità nazionali europee, nel testo del 1999 Gli italiani in Europa, il già citato Carlo Tullio-Altan sosteneva che proprio: "Da queste due caratteristiche concomitanti deriva la duplice tendenza sia al conflitto ideologico senza mediazioni costruttive, sia ai compromessi di basso profilo fra interessi opposti, a spese delle risorse dello stato. [...] Queste distonie del sistema Italia, che si riproducono periodicamente dall'Unità in poi, sono largamente dipendenti dai limiti organici del nostro ethos, e cioè dalla scarsa condivisione e partecipazione a quei valori di convivenza e di solidarietà che rappresentano la spina dorsale della coscienza identitaria di un popolo".
La debolezza e l'inefficienza delle strutture pubbliche hanno avuto come primaria conseguenza la svalutazione della dimensione collettiva del vivere sociale, ma nello stesso tempo, per compensazione, hanno stimolato la capacità dei singoli di affrontare i problemi della vita in un'ottica individualistica, dotandoli di grande ingegno e dell'abilità di affrontare e risolvere ogni difficoltà con destrezza e in totale autonomia. Le ragioni storiche del limite dell'ethos italiano possono essere rintracciate nella somma complessa di diversi fattori. In primo luogo va ricordato l'avvicendarsi degli insediamenti più disparati sul nostro territorio, che, in momenti successivi, ha ospitato differenti popoli, subendo più volte la loro presenza come dominatori. Il divario tra le regioni settentrionali, prossime ai paesi in cui la tradizione democratica ha avuto origine e si è sviluppata in forme più avanzate, e quelle meridionali non ha certo contribuito a limitare la differenziazione e la disomogeneità. Inoltre un peso notevole va assegnato alla compresenza di due correnti di pensiero sociale, entrambe caratterizzate da una forte connotazione fideistica e radicate in profondità nella coscienza civile degli italiani, ma spesso inconciliabili fra loro: il cattolicesimo controriformista e la tendenza socialista ed anarchica. Fino al raggiungimento dell'unificazione del Paese, l'influenza del clero sulle masse contadine e sull'aristocrazia dominante era stata indiscussa; a partire dalla metà del XIX secolo una nuova forza sociale, con i suoi problemi e le sue convinzioni, si affacciò nel panorama italiano: l'emergente classe operaia e bracciantile. Gli ideali di cui si erano fatti portatori i lavoratori delle regioni industriali erano incompatibili con il conservatorismo religioso diffuso nella parte meridionale del paese, più arretrata dal punto di vista economico ed ancora dipendente in maniera esclusiva dall'agricoltura per la sussistenza. Dal canto suo il pensiero razionalistico di stampo liberale e democratico restava una prerogativa di una ristrettissima minoranza cittadina, che, pur avendo un notevole peso elettorale, non poteva certo determinare in maniera ampia e diffusa l'accettazione ed il riconoscimento di determinati valori civili in tutti gli strati della popolazione. L'unione di queste e simili concause ha cagionato per la multiforme e variegata realtà italiana la privazione dei principi dell'ordine sociale e della collaborazione ai fini dell'interesse generale. Per questo motivo il caso italiano rappresenta una particolare eccezione tra i paesi democratici europei, avendo maturato in ritardo ed in maniera incompleta un'identità collettiva.
Attraverso questa consapevolezza è possibile acquisire utili strumenti per la piena comprensione dei fenomeni culturali contemporanei e per un'analisi più attenta della produzione artistica italiana. Ogni intellettuale e ogni artista, anche colui che più si eleva e si distingue dalla folla, è infatti singolo individuo, ma anche, in una qualche misura, inevitabilmente, cittadino.

domenica 3 febbraio 2013

C'è casta e casta...

La correlazione tra l'impoverimento qualitativo della produzione artistica e il trend liberista-relativista che semplifica e confonde i due piani, ben distinti, del mercato e dei processi creativi è per molti versi evidente. Di conseguenza, sarebbe opportuno evitare ogni sovrapposizione tra questioni legate alla commercializzazione dell'arte e riflessioni di carattere estetico o filosofico. Le considerazioni che seguono vanno quindi interpretate come spunti dal carattere essenzialmente socio-economico: non hanno la pretesa di indicare riferimenti etici, né vogliono in alcun modo abbozzare orientamenti normativi, ma solo suggerire l'idea che soluzioni politiche a portata di mano (ma a dire il vero decisamente impopolari presso l'artworld liberal-conservatore, che ha ancora fiducia nei miti dell'autoregolamentazione dei mercati e del laissez-faire) potrebbero dare una scossa ad un settore troppo spesso asfittico e svigorito.
Le prospettive di emancipazione dal sistema speculativo legato alla commercializzazione dei prodotti artistici (e culturali in genere), in questi tempi di crisi economica, vanno inquadrate in due possibili scenari, entrambi alternativi al mercato chiuso e autoreferenziale oggi dominante: deprofessionalizzazione o regolamentazione. Il primo è apocalittico, ovviamente. Il secondo passa per l'abbattimento di tutti i privilegi economici. Perché a un artista affermato o a un gallerista di successo (come anche a un calciatore, a una star della televisione o a un qualsiasi professionista) dovrebbe essere riservata la possibilità di lauti guadagni e, nel contempo, garantiti i privilegi fiscali derivanti dalla completa assenza di una tassazione veramente progressiva? Tutti sono pronti a lamentarsi dei costi della politica e dell'immoralità della "casta" dei parlamentari e degli amministratori locali. Perché non si riserva lo stesso trattamento a tutte le "caste", anche a quelle più popolari? Infrangere un circolo chiuso di privilegiati è il primo requisito per l'allargamento del pubblico. Un simile discorso non si adatta certo alle piccole gallerie che fanno enormi sacrifici per sopravvivere e sono spesso tentate dall'evasione o agli artisti emergenti e ai critici esordienti pagati in nero. Il loro comportamento non può che essere biasimato, ma spesso è un meccanismo di difesa dall'iniquità del sistema. Pochi galleristi, pochi artisti e pochi collezionisti tengono in piedi una macchina speculativa in grado di funzionare grazie a una rigorosissima selezione all'ingresso. Possono farlo perché il prelievo fiscale, in questo difficile momento, non si pone l'obiettivo, almeno in piccola parte, della redistribuzione. Tassare gli acquisti milionari, come anche tutte le rendite finanziarie, sulla base di principi differenti da quelli applicati per le piccole economie di produzione porterebbe vantaggi alla parte sana delle professionalità in campo culturale e artistico. Di conseguenza un pubblico più vasto si avvicinerebbe all'arte alla portata delle sue tasche (come accade nelle fiere "affordable" ormai piuttosto diffuse) con palesi effetti di democratizzazione. In un contesto del genere sarebbe poi meno inverosimile pretendere da tutti gli operatori la massima trasparenza sul piano fiscale.

sabato 19 gennaio 2013

Cibarsi d'aria

Era inevitabile che nel 2012, l'anno del cinquantesimo anniversario della nascita di Fluxus, si puntassero i riflettori sul movimento che più di ogni altro ha promosso lo sconfinamento degli atti creativi nel quotidiano. Con la complicità della crisi economica, il clima generale di attenzione nei confronti di Fluxus sembra aver portato con sé una rivalutazione dell'equazione che unisce l'arte alla vita e alla politica. La storia dimostra quanto la cultura e la pratica artistica abbiano influenzato le scelte esistenziali degli individui e il destino politico delle collettività. Le diverse concezioni del mondo si basano su elaborazioni che affondano le radici nella filosofia, nella letteratura e nelle arti in generale. Le trasformazioni del pensiero si riflettono sul destino del mondo, perché tutto ciò che gli uomini costruiscono è stato prima, in un modo o nell'altro, immaginato. Ciò vale per gli sviluppi positivi e per quelli negativi nell'evoluzione della società: le utopie e le distopie, frutto di un pensiero condiviso, hanno in molte occasioni agito parzialmente sul reale, modificandolo.
La realtà può quindi inseguire la fantasia, ma immaginazione e azione si collocano su due piani quasi sempre distinti e paralleli, che spesso si sfiorano dando l'impressione della convergenza, senza mai tuttavia potersi incontrare e fondere pienamente. L'arte rincorre la perfezione e facilmente supera la realtà nel momento in cui rinuncia alle forme naturali per investigare le potenzialità del suo linguaggio. Allora entra nel regno del pensiero, del concetto puro, faticando per rimanere in equilibrio e non perdere di vista la corporeità. Questo esercizio sicuramente rende migliore l'uomo, ne espande le potenzialità, gli consente di acquisire competenze che tornano utili non solo sul versante spirituale, ma anche nella vita terrena e quotidiana. Tuttavia, se la pratica artistica fosse limitata al rapporto con il mondo, se non ci fosse differenza tra creare un'opera d'arte e agire nella realtà, tra fruizione artistica e esperienza del mondo, verrebbe meno il senso stesso del fare arte. Immaginare è esperienza differente dall'avvertire con i sensi.
La politica, che è lo strumento privilegiato attraverso cui l'uomo cambia il mondo, da un certo punto di vista rincorre anch'essa la perfezione, ma non può farlo con la stessa libertà dell'arte. La politica è, al contrario dell'arte, indissolubilmente vincolata al reale. Per questo motivo ricorre molto poco (per fortuna) all'astrazione e molto di più (quando è buona politica) al compromesso. In democrazia, ad esempio, decide la maggioranza, ma nel rispetto delle esigenze e dei diritti delle minoranze. Le legittime aspirazioni della maggioranza al cambiamento devono fare i conti con principi ineludibili. A questo servono le costituzioni. Un artista può rimuovere liberamente ogni ostacolo che incontra lungo il suo percorso di ricerca e sperimentare senza restrizioni. Un uomo di governo non può fare a meno di confrontarsi con i limiti imposti dalla realtà. Solo i dittatori più folli decidono di rimuoverli con noncuranza.
Esiste dunque una grande differenza tra arte e politica; voler stabilire quindi il primato dell'arte sulla politica (o della politica sull'arte) sarebbe come voler stabilire il primato dell'aria sul cibo. Non è possibile sopravvivere senza respirare o senza mangiare. Si tratta di due bisogni profondamente diversi e in qualche modo legati tra loro per il benessere dell'uomo. Tuttavia supporre l'interscambiabilità di aria e cibo sarebbe una pretesa assurda e non avrebbe senso tentare di cibarsi d'aria o di respirare pane. Sarebbe opportuno tenere distinti e separati due fenomeni attualmente piuttosto diffusi: da un lato la legittima aspirazione al recupero dei principi di realtà e di verità, dimenticati durante la postmodernità più relativista; dall'altro le ambizioni radicali di chi insegue il sogno dell'arte totale. Il primo è positivo e mira al progressivo e graduale miglioramento delle condizioni di vita dell'uomo attraverso la consapevolezza e la critica costruttiva. Il secondo, pur muovendo da buone intenzioni, non può che condannare al fallimento e alla frustrazione e conduce al nichilismo.