domenica 16 novembre 2014

Tre domande a Christian Caliandro

In un tuo recente scritto pubblicato su Artribune, intitolato "Noterelle sulla cultura (IX): framework" (nono capitolo di una serie di articoli per la rubrica "Inpratica" dedicati all'analisi della situazione intellettuale e politica dell'Italia contemporanea), hai lucidamente affermato che pretendere di mettere in atto un qualsiasi cambiamento in campo culturale o sociale senza modificare il sistema di valori di riferimento sarebbe un'illusione puerile e un'imperdonabile superficialità. A tal proposito, auspicando un radicale rinnovamento etico che interessi la mentalità, i comportamenti quotidiani e la professionalità, hai elencato una serie di principi che potrebbero orientare questo processo evolutivo: povertà, dignità, umiltà, integrità, concretezza, condivisione e partecipazione. In che modo ritieni che simili "ideali guida" possano essere declinati, passando dalla teoria alla prassi, nella pratica curatoriale e nell'approccio critico?
Sintetizzando al massimo processi ed eventi che richiederanno una storia dell'arte in grado di intrecciare efficacemente economia, politica e storia culturale per dipanare la sequenza temporale degli ultimi trenta-quarant'anni, in grado di interpretare correttamente le vicende che hanno coinvolto e coinvolgono i differenti livelli della produzione, della mediazione e della fruizione artistica nazionale, si può dire che a partire dall'inizio degli anni Novanta l'arte contemporanea italiana avvia un costante ed inesorabile ripiegamento su se stessa, che prosegue ancora oggi. Questo fenomeno ha tradotto ben prima dell'avvento della crisi – in termini piuttosto crudi e brutali – l'inefficacia sostanziale del sistema-mondo nazionale dell'arte contemporanea al di fuori dei suoi confini. Della sua percezione interna e insieme della sua proiezione esterna. La crisi ha dunque fatto detonare i numerosi fattori di criticità strutturali e contingenti, che si possono riassumere in due atteggiamenti fondamentali: autarchia e autoreferenzialità. Entrambi sono manifestazioni molto evidenti di una paura collettiva del confronto con il mondo esterno, con le sue sfide – e della rimozione di un'ottica di competizione e di confronto.
In Italia, dunque (ma il nostro Paese è per molti versi, come spesso è avvenuto, un paradigma dell'Occidente...), la concentrazione autarchica e autoreferenziale sul "sistema dell'arte" – l'illusione che l'arte potesse vivere su una specie di piano parallelo, in una sorta di bolla... – ha fatto sì che questo territorio accumulasse un ritardo grave rispetto ad altri campi culturali (la letteratura, per esempio) e che sviluppasse una forma acuta di dissociazione rispetto al presente. Un post-post-concettualismo di risulta – divenuto nel corso dell'ultimo ventennio Maniera Internazionale – rappresenta così un intero sistema di lingua e di convenzioni, un recinto formale e formativo che di fatto non ha permesso alla maggior parte degli autori di confrontarsi criticamente con la realtà che li circonda, di interpretare il mondo attraverso l'arte e la pratica creativa – proprio perché questo sistema-recinto non riconosce alcuna prospettiva al di fuori della propria.
In questo senso, perciò, gli anni che stiamo vivendo rappresentano un vero momento di passaggio, il punto di transizione per il mondo artistico nazionale, verso una propria diversa definizione – rivolta forse a una relazione più stretta con il "fuori" rispetto a sé. Occorre che l'arte contemporanea cominci (come in alcuni casi, secondo alcune modalità, sta già avvenendo) a colmare la distanza che la separa dal pubblico e dalla realtà sociale.
La crisi (che secondo l'etimologia stessa del termine indica distinzione, valutazione, discernimento) è la transizione consapevole da uno stato della realtà ad un altro, inevitabilmente diverso. La crisi è una soglia, e al tempo stesso una trasformazione: essa richiede necessariamente la riconfigurazione dei paradigmi, dei punti di riferimento che regolano la nostra percezione della realtà. Attraverso la cultura.
Credo quindi che la critica artistica e culturale – una critica rifondata integralmente nei suoi presupposti, non decorativa ma fortemente interessata al senso dell'umano: e non è che ci manchino gli esempi in questa direzione: Longhi, Arcangeli e Pasolini, per dirne soltanto tre – possa giocare un ruolo fondamentale nel favorire questo passaggio: collaborando, come spesso è avvenuto nella nostra storia, con gli artisti stessi alla ridefinizione del ruolo e della funzione dell'arte nella vita individuale e collettiva. Costruendo un discorso che sia non solo in grado di interpretare il mondo in cui viviamo, ma anche e soprattutto di suggerire come gli oggetti culturali possano tornare a trasformare la realtà. La critica non serve a validare, ratificare o giustificare decisioni prese altrove, in aree extra-culturali: la critica ha il compito di immaginare e di articolare il tempo nuovo, che ancora non esiste e che sarà necessariamente differente da quello che stiamo vivendo; di scavare questo tempo nuovo nel presente insieme alle opere di artisti visivi, scrittori, registi, designer, architetti, musicisti, innovatori, e a farlo finalmente esistere. Per fare questo, però, è necessario ricominciare a voler fare le cose in grande, le cose grandi: è necessario smettere di accontentarsi e di giustificare i compromessi come inevitabili. Saranno necessari con ogni probabilità anni di lavoro quotidiano, collettivo, probabilmente oscuro, che ci mettano nelle condizioni di dare corpo e sostanza a valori diametralmente opposti rispetto a quelli che organizzano ancora adesso, incredibilmente, l'esistenza individuale e comune, e attorno a questi valori ricostruire integralmente un immaginario.
Ecco, direi che la ricostruzione della nostra infrastruttura immateriale è un compito degno che possiamo assegnare alla nostra vita: il che non vuol dire che questa ricostruzione sia necessariamente destinata al successo: una delle questioni infatti attuali è che ci siamo disabituati al rischio, al fallimento, alla prospettiva del fallimento, come se tutto ciò che facciamo dovesse per forza "andare bene", "sfondare"; e per paura di non riuscire ci affidiamo programmaticamente all'irrilevanza, al già noto, alla rassicurazione e alla consolazione di ciò che già sappiamo. Invece, è possibilissimo fallire, ma almeno sarà stato divertente e interessante provare a realizzare qualcosa del genere, insieme.

Trasportare nel territorio dell'arte contemporanea la questione del realismo, centrale in tutta la tua riflessione teorica e oggi al centro del dibattito filosofico, vuol dire sollevare insieme un problema di metodo e uno di linguaggio. Hai sempre sostenuto che quello che ti interessa maggiormente è il metodo: il realismo è per te non uno stile, ma un tipo di approccio al mondo. Non credi però che alcuni pregiudizi formali siano ancora troppo diffusi e impediscano un confronto costruttivo tra artisti che utilizzano codici espressivi, linguaggi e media differenti? Per fare un esempio, non trovi che la tendenza a confondere il realismo con la rappresentazione mimetica o denotativa (un malinteso che ci perseguita dal secondo dopoguerra, quando Togliatti stroncava le opere del Fronte Nuovo delle Arti definendole "scarabocchi") sia difficile da sradicare?
Onestamente no, non credo che ci sia un rischio di questo tipo. Il realismo, come tu giustamente ricordi, non è uno stile formale o un linguaggio, ma un approccio nei confronti del mondo: una "disposizione d'animo". E quello che vedo è che ci sono, in Italia, artisti con formazione e gusto differenti e personali, che sono però accomunati da questo tipo di approccio e di disposizione. Gli altri, la maggior parte, sono ancora purtroppo dominati dalla paura: e si sono dunque ostinatamente rifugiati nella decorazione, nella nostalgia, nell'evasione. Quando linguaggi di quarant'anni fa, elaborati attorno a sistemi di valori che erano propri dei trentenni dell'epoca, vengono svuotati del contenuto originario e proposti come gusci (lo stesso processo del resto avviene, con modalità diverse ma neanche troppo, con alcuni termini-chiave nel linguaggio e nella pratica politica...) abbiamo un problema piuttosto serio. La paura fondamentale è quella di "non esserci", di scomparire: di essere dei fantasmi. Solo che, se ci pensiamo, la condizione spettrale è estremamente interessante, per tutta una serie di ragioni: a patto che la si assuma consapevolmente. E non è affatto lontana dal realismo, anzi. Lo spiegava molto bene Alberto Savinio, uno degli artisti, scrittori e intellettuali più sottovalutati del Novecento italiano e europeo, quasi cento anni fa in un testo importantissimo per la teoria della pittura Metafisica come "Anadiomènon. Principi di valutazione dell'arte contemporanea" (Valori Plastici, 1919, n. 4-5): "Viviamo in un mondo fantasmico con il quale entriamo gradatamente in dimestichezza. Questo benevolo plurale non mi farà più d'uopo inoltre: fummo, siamo e saremo in pochissimi a risentire la sostanza piena della vita. [...] Con l'acquistare questo senso nuovo e vasto in una realtà più vasta, metafisico, or non accenna più a un ipotetico dopo-naturale; significa bensì, in maniera imprecisabile – perché non è mai chiusa, ed imprecisa dunque, è la nostra conoscenza – tutto ciò che della realtà continua l'essere, oltre gli aspetti grossolanamente patenti della realtà medesima".
Ecco, penso che l'operazione da condurre – e in questo la critica, ripeto, può giocare un ruolo molto importante – è quella di comprendere come tematizzare il disagio che ci attanaglia e che ci attraversa tutti (non c'è nulla di più diffuso infatti, nell'Italia di questi anni, della paura di essere già dei fantasmi), che articola e innerva il nostro presente, sia centrale per riconnettere l'arte alla realtà. Occorre abbandonare la retorica, il "fare-come-se" vivessimo in una dimensione parallela, e calare – senza autocommiserazione né autoassoluzione – la pratica artistica e creativa nel tessuto della nostra esistenza collettiva e quotidiana. Non c'è nulla, al tempo stesso, di più facile e di più difficile: usciamo infatti da un trentennio costruito attorno a una sorta di condizionamento collettivo, che si è rivelato molto resistente e dannoso in particolare nel territorio artistico, per i motivi che abbiamo citato sopra. Il recinto di convenzioni linguistiche e comportamentali che ha orientato le scelte degli artisti, dei curatori, degli operatori in questi decenni si sta rivelando particolarmente pernicioso, proprio perché si fonda sulla dissociazione rispetto a quello che avviene nella realtà sociale: occorre riportare il proprio spazio esistenziale – con tutti i suoi traumi, le sue incongruenze, le sue sofferenze – dentro le opere, e far sì che esse siano finalmente vive. La letteratura italiana, in questo senso, ci è di aiuto e ci indica come fare dal momento che nell'ultimo decennio scrittori molto diversi tra loro per generazione e linguaggio hanno saputo costruire insieme un corpus di opere importanti, che riflettono sull'identità italiana supplendo in molti casi a un'assente e lacunosa storiografia ufficiale: parlo di autori come Giuseppe Genna, Antonio Scurati, Alessandro Bertante, Giorgio Vasta, Walter Siti, Marcello Fois, Helena Janeczek, Antonio Moresco, Emanuele Trevi, Nicola Lagioia e molti altri.

La condizione spettrale di cui parli è forse davvero la cifra esistenziale del nostro presente: la paura di scomparire, di essere dei fantasmi è palpabile in ogni ambito dalla vita quotidiana, dunque influenza anche la creatività contemporanea. La percezione del vuoto e il tentativo di esorcizzare l'assenza attraverso la sua stessa rappresentazione sono nodi centrali nei percorsi di ricerca di alcuni tra i più interessanti artisti delle nuove generazioni. In altri casi la dolorosa presa di coscienza dell'inefficacia del proprio agire e della precarietà del proprio sentire si traduce in un tentativo di annullamento della dimensione soggettiva, stemperata nella documentalità o soffocata attraverso la meccanica registrazione di eventi determinati dal caso. Ma allora il compito dell'artista è puramente descrittivo? Il suo ruolo è semplicemente quello di comprendere e tradurre i processi di produzione di significato all'interno di una cultura? Oppure l'arte, anche nei momenti storici in cui la sua incidenza è ridimensionata, crea comunque dei significati? Se così fosse, la sfida non potrebbe consistere, banalmente, nel ritrovare il giusto equilibrio tra realtà e ideale?
Quando le cose si corrompono e si rompono, è difficile capire dall'interno quello che succede. Perché noi abitiamo questa corruzione, questa decomposizione, questo disfacimento. In un momento come quello che stiamo attraversando, è come se dovessimo prepararci ad una ricostruzione in stile dopoguerra – dunque, un'operazione, un lavoro collettivo, un assetto comune che richiede grande energia, volontà, determinazione, ostinazione. Abbiamo però a disposizione in generale creature ed espressioni vecchie, stanche, ciniche – anche quando da un punto di vista meramente anagrafico non dovrebbe essere così.
È per questo che scattano immediatamente le retoriche fallimentari, in ogni campo (compreso ovviamente quello culturale): la retorica della "ripresa", per esempio. Della ripartenza: "Ce la possiamo fare se facciamo così e così: basta volerlo". Non è proprio così. Per scavalcare il divario tra pensiero e azione, tra finzione e realtà, tra illusione e trasformazione del mondo occorre fuoriuscire – una volta per tutte – dall'autocelebrazione e dall'autocommiserazione (due attitudini psichiche apparentemente opposte, ma che in Italia fanno il paio praticamente da sempre). Siamo entrati in un'epoca nuova, sdrucciolevole, in cui si desidera immediatamente accedere a contenuti materiali e psichici – la ripresa; il superamento della crisi; la ricostruzione del Paese; ecc. – senza praticamente farne davvero esperienza. Li si vuole fruire e consumare come spettacolo identitario, non costruire internamente. Si vuole accedere a essi, e li si vuole accettare, senza scoprirne e condividerne i presupposti mentali: è una prospettiva impossibile, con ogni evidenza, e anche molto infantile.
Compito della cultura, in una fase di transizione epocale come quella che stiamo attraversando, non può che essere – dopo aver ratificato ed analizzato la fine dell'epoca precedente – immaginare, articolare e costruire l'epoca nuova. La cultura è il telaio, la struttura fondamentale di progettazione del presente e del futuro. La consapevolezza di questa funzione profondamente trasformatrice della cultura si sta facendo strada (nonostante quasi tutte le apparenze dicano il contrario) anche nel nostro Paese. Il compito dell'artista e dell'intellettuale non è dunque "semplicemente quello di comprendere e tradurre i processi di produzione di significato all'interno di una cultura", ma è proprio quello di produrre il senso che si riverbera poi dal territorio culturale alle altre dimensioni della vita collettiva (società, politica, economia). Di inventare – in tutti i sensi del verbo – il futuro.
Invece, il sistema-mondo dell'arte contemporanea (e, più in generale, il sistema-mondo della cultura contemporanea) fino a questo momento e per un periodo piuttosto lungo è apparso sempre più strutturato secondo lo schema concettuale – e ideologico – dei futures: alla previsione del futuro, infatti, è subentrata la "predeterminazione" di un futuro programmato sulla base delle caratteristiche, dei valori, delle esigenze presenti. Futuro come programma, e non come progetto. I controllori sono in questo modo chiamati a convalidare la correttezza dell'intero processo: il futuro è divenuto una procedura. Si tratta di mera amministrazione del presente, e di un'estensione di questa amministrazione nel futuro. È chiaro dunque che – all'interno di questa procedura – arte, intelligenza, cultura, immaginazione e critica non sono che ostacoli, intralci, orpelli inservibili. Ciò che però è dichiarato inservibile (cioè: che, letteralmente, "non serve" a espletare la pratica, a oliare il meccanismo, a far andare la macchina per il verso giusto) potrebbe rivelarsi a sua volta – e non sarebbe affatto una novità – dannoso per il processo stesso. È il motivo per cui le operazioni artistiche e culturali sono state ridotte in larghissima parte a decorazioni, tinte qui e lì di esotismo e di elementi identitari e di rivendicazioni nostalgiche: perché ciò che si vuole è annullare, ridicolizzare, esorcizzare il potenziale trasformativo degli oggetti culturali; la loro capacità latente di intervenire nel tessuto della realtà e delle relazioni umane, per illuminarli e modificarli. Credo che il nostro compito sia proprio quello di ricostruire, riattivare e riqualificare questa capacità.


Christian Caliandro (1979) è storico dell'arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Dal 2010 al 2013 ha insegnato "Media e narrative urbane" presso l'Università IULM di Milano. Nel 2006 ha vinto la prima edizione del Premio MAXXI-Darc per la critica d'arte contemporanea italiana. Ha pubblicato La trasformazione delle immagini. L'inizio del postmoderno tra arte, cinema e teoria, 1977-1983 (Mondadori Electa, 2008), Italia Reloaded. Ripartire con la cultura (Il Mulino, 2011, con Pier Luigi Sacco) e Italia Revolution. Rinascere con la cultura (Bompiani, 2013). Cura su Artribune le rubriche "Inpratica" e "Cinema"; collabora inoltre regolarmente con minima&moralia e alfabeta2. Ha curato mostre personali (tra cui quelle degli artisti Michael Bevilacqua, Pesce Khete, Ward Shelley, Nina Surel, Antonio De Pascale) e collettive, tra cui The Idea of Realism // L'idea del realismo (2013, con Carl D'Alvia), Concrete Ghost // Fantasma concreto (2014), entrambe parte del progetto Cinque Mostre presso l'American Academy in Rome, e Amalassunta Collaudi. Dieci artisti e Licini presso la Galleria d'Arte Contemporanea "Osvaldo Licini" di Ascoli Piceno (2014).

martedì 11 novembre 2014

I vantaggi dell'accessibilità

Ieri Elena Bordignon ha pubblicato sull'ottimo blog atpdiary.com un suo resoconto in merito all'edizione 2014 di Artissima. L'articolo, intitolato "Tante vendite, piccoli pezzi!", oltre a proporre una sintetica panoramica delle varie sezioni e spunti di analisi delle diverse proposte, descrive l'andamento della fiera dal punto di vista commerciale, tentando di tracciare un bilancio sulla base delle dichiarazioni dei galleristi e stimolando una riflessione sui cambiamenti in atto nel mercato dell'arte. Nel post si afferma: "Certo è che, rispetto agli anni scorsi, le opere esposte nei tanti stand si sono direttamente ridimensionate ai pochi soldi che girano. Molta pittura e fotografia di piccolo formato. Prezzi bassi e contenuti... Insomma, si sono vendute più opere 'piccole' e a prezzi bassi".
Per il momento, per lasciare i prezzi stabili, si riduce il formato. In generale, però, sarebbe auspicabile una generale revisione delle quotazioni (volta a garantire maggiore accessibilità) e un allargamento della proposta. In altre parole, il coraggio di spaziare oltre la ristretta cerchia dei nomi consolidati, lasciando che sia il pubblico a indirizzare il mercato, rappresenterebbe un notevole passo in avanti dal punto di vista culturale e identitario. Le logiche puramente commerciali e di "investimento" sono disinnescate dalla crisi. Se c'è qualcosa di positivo nel momento storico che stiamo vivendo, per quello che riguarda il settore delle arti visive, è l'occasione di operare una vera democratizzazione nelle dinamiche fruitive. Nel campo della musica o del cinema, ad esempio, il pluralismo è decisamente più avanzato, perché tali forme di espressione artistica sono rapidamente diventate di massa (con tutti i rischi di standardizzazione connessi). Ciò che dovremmo augurarci è che la sfida dell'allargamento del bacino di utenza dell'arte contemporanea possa essere affrontata in maniera graduale, ridimensionando le aspettative di guadagno da un lato, dall'altro aprendo finalmente le porte a un pubblico reale e non forzatamente elitario, senza che per questo risulti amplificata la dimensione dell'intrattenimento a discapito dei contenuti.

mercoledì 8 ottobre 2014

I fuggiaschi della letteratura

Nell'ambito di Progetto XXI, un ambizioso programma di ricerca volto a esplorare la produzione artistica sperimentale più avanzata, la Fondazione Donnaregina per le Arti Contemporanee, in collaborazione con la Fondazione Morra e il Museo Nitsch, ha presentato un ampio calendario di mostre e incontri a cura di Giuseppe Morra, dal titolo La scrittura visuale/La parola totale. Il museo napoletano di vico Lungo Pontecorvo ospita dal 12 settembre 2014 al 15 gennaio 2015 un'accurata ricognizione delle più importanti e significative espressioni poetiche visuali del nostro Paese, presentate al pubblico attraverso un percorso attento ai contesti geografici dove hanno operato le figure cardine della poesia visiva. La mostra d'apertura, un'antologia di opere di scrittura visuale internazionale con lavori di Arrigo Lora Totino, Henri Chopin, John Cage, Paul De Vree, Carlo Belloli, Jiří Kolář e altri, resterà aperta fino al 12 ottobre. Seguiranno altri tre appuntamenti: il primo dedicato alla poesia visuale a Napoli (dal 31 ottobre al 30 novembre 2014), il secondo alle città di Genova e Milano (dal 5 al 15 dicembre 2014), l'ultimo a Firenze e Roma (dal 18 dicembre 2014 al 15 gennaio 2015). Nelle stanze della biblioteca del Museo Nitsch si alterneranno le opere di tutti i protagonisti della storia della scrittura visuale, tra i quali Emilio Isgrò, Nanni Balestrini, Ugo Carrega, Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Giuseppe Chiari, Sarenco, Emilio Villa, Luciano Caruso e Stelio Maria Martini. Aggiunge valore al progetto, innescando un interessante confronto generazionale, la sezione Pre Post Alphabet, a cura di Eva Fabbris e Gigiotto Del Vecchio: un tentativo di avvicinamento tra le opere degli iniziatori e il modo di operare di alcuni giovani artisti che, in un modo o nell'altro, sono stati influenzati dalle poetiche visuali. Il ciclo di mostre è accompagnato da una ricca selezione di materiali cartacei (riviste, pubblicazioni periodiche e cataloghi): la sezione bibliografica curata da Domenico Mennillo contribuisce a ricostruire la storia dei percorsi di ricerca più innovativi e significativi, a partire dalla stagione d'oro a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta fino a oggi. All'interno del programma trova inoltre spazio una rassegna di film d'artista a cura di Mario Franco: durante sette appuntamenti pomeridiani (il primo dei quali è previsto per giovedì 13 novembre alle ore 17.00) saranno proiettati alcuni dei capolavori del cinema sperimentale italiano, tra i quali Verifica incerta di Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi, due cortometraggi di Mario Schifano e cinque film di Sarenco. Completa il calendario degli eventi una serie di imperdibili conferenze, incontri, presentazioni di libri e performance: interverranno, tra i tanti, Pierpaolo Forte, Andrea Viliani, Achille Bonito Oliva, Andrea Cortellessa, Lorenzo Mango, Angelo Trimarco, Aldo Tagliaferri, Stefania Zuliani, Luigi Esposito e Daniele Lombardi.

mercoledì 17 settembre 2014

Chiosa alle tre domande a Giacinto Di Pietrantonio

Gentile Giacinto Di Pietrantonio,
la ringrazio per la disponibilità e la sollecitudine con cui ha voluto inviarmi il suo contributo. Non le nascondo che ho provato un filo di amarezza leggendo la sua terza risposta, che in tutta sincerità mi aspettavo differente. Certo, il narcisismo di tanti immodesti è fastidioso. Ma non mi sembra che possa essere considerato uno dei maggiori problemi per i giovani artisti italiani. Al più è un problema che riguarda i superbi e gli incapaci. Con lo spunto scherzoso e "fiabesco" che le avevo sottoposto speravo di portarla su un terreno differente. Accetto il suo tagliare corto, mettendo in campo sacrosante evidenze. Immagino e comprendo anche le motivazioni per cui preferisce porre l'accento sul "fare", liquidando chiacchiere e arrovellamenti. La invito però a prendere in considerazione queste poche righe, tratte da uno scritto di Martina Testa (direttore editoriale di minimum fax) pubblicato nel 2013 su Artribune, per provare a guardare alla questione da un punto di vista diverso: "Un fenomeno che negli ultimi anni mi sembra evidente è quello del sostituirsi della forza della personalità alla forza della competenza. Un ventennio di berlusconismo, televisivo e non, ha eroso alla base l'idea che lo studio, l'acquisizione di sapere, il possesso di un bagaglio di tecniche specifiche e di strumenti critici siano necessari per farsi strada professionalmente. Il biglietto da visita è diventato quello del carattere: simpatia, spigliatezza, voglia di fare; sensibilità, originalità, passione; capacità di farsi notare. Questo tipo di mentalità anti-intellettuale, la mentalità per cui chi 'sa' è un pedante da sbeffeggiare, o un elitario da guardare con sospetto, ha trovato terreno fertile". Spero sia d'accordo con me nel riconoscere l'assoluta rilevanza dei fenomeni descritti. Pur senza generalizzare, trovo che nel nostro Paese tale tendenza a premiare la "personalità" sia dilagante anche nel "famoso e imponderabile sistema dell'arte". Per questo motivo avverto una sensazione di sconforto quando uno dei nostri più autorevoli critici non sa dare consiglio migliore ai giovani artisti che quello di "essere disposti a cambiare lavoro, stile, a trovare il modo giusto per dirlo, invece di credersi dei van Gogh". Né credo che la soluzione sia sminuire l'orizzonte italiano, perché "i riconoscimenti veri oggi si danno altrove". Mi rendo conto, con infinita e sincera modestia, nonché consapevolezza dei miei limiti, che lo scritto che generosamente ha voluto donarmi non sarà di certo stato in cima alle sue priorità e lo avrà partorito sottraendo tempo a ben più importanti e pressanti impegni. Non nutro dubbio, però, sulla natura spontanea e immediata delle risposte, che perciò considero rivelatrici di un pensiero sedimentato. Non ho quindi saputo resistere alla tentazione di esternarle il mio pensiero. Mi rendo conto di aver abusato della sua pazienza e le chiedo scusa se sono stato prolisso. Le garantisco inoltre, per quanto possa valere, che nutro per lei una profonda stima, al di là della parziale differenza di vedute.
Con sincera riconoscenza.
Vincenzo Merola

Caro Vincenzo,
questo è un vizio italiano: la colpa è sempre degli altri, soprattutto di Berlusconi. Io non ho mai amato Berlusconi, ma siccome ci sono delle nazioni che stanno peggio dell'Italia e che esprimono lavori forti questa mi sembra un'altra scusa all'italiana. Berlusconi avrà pure le sue colpe, ma quella maggiore è di chi non ha saputo, o voluto, creare alternative. Ecco cosa volevo dire con la storia di van Gogh e cioè smettiamola di piangerci addosso, o di dare la colpa agli altri e cerchiamo di vedere anche cosa è che in noi non va.
Ciao.
Giacinto Di Pietrantonio

Caro Giacinto,
in merito a questa sua affermazione, mi dichiaro perfettamente d'accordo. Tra l'altro non intendevo buttarla in politica: il berlusconismo evocato dalla Testa nel suo scritto è per me una questione marginale e sorpassata, tanto più che il malcostume di anteporre la personalità alla competenza si è insinuato anche nel modello renziano, che bada molto alle apparenze. Mi dispiacerebbe se le mie osservazioni fossero state percepite come un vano e ingiustificato atto d'accusa. Ho perfettamente inteso il senso della sua provocazione e l'invito a non "piangersi addosso". Nel mio piccolo, tutto il lavoro di scrittura e interlocuzione portato avanti sul blog è mirato a una profonda riflessione critica e autocritica, che dal mio punto di vista è costruttiva. Forse il mio principale difetto è quello di dire sempre, senza filtri, quello che penso apertamente, mosso da un'insaziabile sete di conoscenza e dalla volontà di confronto e approfondimento. Talvolta dimenticando qual è il mio posto. Avrei tanto desiderato che il nostro dialogo si spingesse al di fuori dei soliti schemi, ma probabilmente non ho saputo formulare bene le domande, dandole l'impressione di avere una visione trita e preconcetta del mondo dell'arte e spingendola così a rispondermi con un'altrettanto stereotipata rappresentazione caricaturale dell'artista frustrato in cerca di riconoscimenti. Faccio tesoro dunque del suo consiglio, lascio perdere le pagliuzze e mi concentro sulla trave nel mio occhio. Le sono riconoscente per questo ulteriore scambio, per la sua apertura e per il tempo che mi ha concesso.
Buona serata.
Vincenzo Merola

Caro Vincenzo,
ci tengo a precisare che non intendevo assolutamente dirigere a lei le mie risposte, ma era una riflessione generale sul mondo dell'arte. In tutto quello che faccio non ho niente di personale, sarebbe stupido anche se molto italiano. Tuttavia io non ho detto che non ci sono bravi artisti giovani in Italia, tant'è che do sempre molto spazio a loro, ma che bisogna che si diano più da fare per affermare il proprio lavoro, tenendo conto che il mondo oggi non inizia e finisce in Italia, come molti invece continuano a pensare.
Buona giornata.
Giacinto Di Pietrantonio


Ringrazio Giacinto Di Pietrantonio per avermi autorizzato a pubblicare questo interessante scambio di idee avvenuto tramite posta elettronica fra il 15 e il 16 settembre 2014.

lunedì 15 settembre 2014

Tre domande a Giacinto Di Pietrantonio

Quando si ha la possibilità di domandare, e a rispondere è una persona autorevole, la tentazione più grande è quella di cercare la verità. Tuttavia, ammettendo anche che chi chiede riesca a formulare correttamente i quesiti, è più facile credere a una bugia colossale che rincorrere quel fuggevole frammento di verità nascosto in ogni saggio discorso, evidente per un attimo soltanto e destinato poi a confondersi tra i dubbi prodotti dal tempo. Provi a raccontare la più grande bugia che ha mai ascoltato parlando d'arte e a suggerire la più illuminante intuizione di verità conquistata durante la sua carriera. Mescoli le carte, però: non dia indicazioni riguardo a ciò che considera giusto o sbagliato. Può darsi che per qualcuno possa valere il contrario!
Picasso diceva che l'arte è la menzogna che ci permette di conoscere la verità e Nietzsche che non esistono fatti ma solo opinioni. D'altra parte, Duchamp, dicendo che un qualsiasi oggetto è o può essere un'opera d'arte, non si comporta molto diversamente e noi decidendo di entrare in questo territorio accettiamo queste regole del gioco, un gioco in cui verità e menzogna sono continuamente mescolate. L'ho già raccontato tante volte: era il 1980, studiavo per diventare uno storico dell'arte antica, per cui ho una formazione classica, ma un giorno il mio compagno di università Luigi Mastrangelo con cui a Bologna condividevo, insieme ad altri amici, l'appartamento, tornò a casa e disse che stava preparando una mostra insieme a Rinaldo Novali e Leonardo Santoli. Mi chiese se avevo voglia di scrivere qualcosa per un piccolo depliant. In tutta incoscienza accettai, ma non mi limitai a scrivere, incuriosito, andai ad aiutarli ad allestire la mostra. La cosa mi piacque così tanto che dissi: "Ma perché non ne facciamo un'altra?". Da lì a sette/otto mesi, 1981, allestii una mostra con loro tre più Thomas Rehbein, oggi gallerista, e Rosemarie Trockel, oggi star artista, che ero andato a scovare in autostop a Colonia. E da lì ancora un'altra, ancora un'altra...

Quali sono le tre cose che ha contemplato più a lungo nella sua vita? Di queste, quante erano opere d'arte?
A questa non so proprio rispondere. Non riesco a fare una graduatoria delle cose e delle persone. Questo è forse il mio limite contemporaneo.

C'era una volta, nell'Italia di adesso, un giovane artista talentuoso, ma non di successo... Come potrebbe continuare questa fiaba? Quali creature popolano l'artworld di questo Paese "incantato" (nel senso che è fermo, bloccato, ma pur sempre magico)? Fate o streghe? Orchi o folletti custodi di tesori?
Pur con tutti i problemi che ha il nostro Paese, uno dei maggiori per i giovani artisti è che pensano di essere dei geni incompresi e che il famoso e imponderabile sistema dell'arte ce l'abbia con loro. La questione è che l'Italia è invece una nazione in cui ci sono molte più opportunità di quanto si creda, ma non è sufficiente. Il mondo dell'arte si è molto ampliato e non basta affermarsi nel proprio Paese. I riconoscimenti veri oggi si danno altrove e quindi bisogna muoversi e questo significa anche essere disposti a cambiare lavoro, stile, a trovare il modo giusto per dirlo, invece di credersi dei van Gogh, che tra l'altro era olandese.


Giacinto Di Pietrantonio, nato a Lettomanoppello (PE) nel 1954, è direttore della GAMeC (Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo) e docente presso l'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. È stato tra i fondatori, nel 2003, dell'AMACI (Associazione Musei d'Arte Contemporanea Italiani). Ha ricoperto il ruolo di vicedirettore per Flash Art Italia e collabora con numerose riviste tra cui Artribune e Domus. Ha curato mostre personali di Jan Fabre, come eventi collaterali della Biennale di Venezia, nelle edizioni del 2007, del 2009 e del 2011. Tre le molte e importanti mostre personali e collettive, si ricordano Over the Edges con Jan Hoet a Gent (Belgio) e Alighiero Boetti. Quasi tutto, alla GAMeC e alla Fondazione PROA di Buenos Aires. Ha redatto e curato monografie di Enzo Cucchi, Jan Fabre, Ettore Spalletti. È stato consulente artistico di MiArt per le edizioni 2008, 2009, 2010. È consulente del Premio Furla, membro del Comitato Scientifico del Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato e del CIAC (Centro Italiano Arte Contemporanea) di Foligno.

domenica 31 agosto 2014

Variazioni sul giardino giapponese

A Madrid, dal 29 maggio al 7 settembre 2014, il centro culturale La Casa Encendida, diretto da José Guirao, ospita la mostra Variaciones sobre el jardín japonés, che si trasferirà poi a Granada dal 19 settembre 2014 al 15 gennaio 2015, presso la Fundación Rodríguez-Acosta. Il progetto, a cura di Alicia Chillida, si presenta come una puntuale riflessione sul secolare dialogo tra l'Oriente e l'Occidente, fonte preziosa e inesauribile di spunti per l'arte contemporanea, in un'epoca decisamente incline alla commistione di linguaggi e forme espressive. Nello stesso tempo le atmosfere e i rimandi di senso messi in campo possono essere considerati un invito a indulgere nella contemplazione: in fondo visitare una mostra o passeggiare in un giardino sono in un certo senso esperienze simili, in quanto capaci di offrire momenti di appagamento estetico e di pace spirituale. Il percorso espositivo, per riprendere la metafora musicale del titolo, è studiato in modo tale che le opere siano percepite come possibili variazioni sul tema dell'"eternamente moderno", concetto che si deve al maestro Mirei Shigemori (1896-1975), uno dei più importanti garden designer giapponesi, nonché studioso e cultore di antiche tradizioni, dalla calligrafia, all'ikebana, alla cerimonia del tè. Con le parole "eternal modern" o "timeless modernity" Shigemori intendeva suggerire un perfetto bilanciamento tra stile classico e stile contemporaneo, elemento essenziale per raggiungere l'equilibrio necessario al manifestarsi della pura bellezza. Tutto l'impianto teorico della mostra di Chillida è fondato proprio sulle teorie e sul lavoro di Shigemori, che può essere ammirato in tutte le sue declinazioni e costituisce il basso continuo sul quale si innestano i contributi di artisti come Lucio Fontana, Richard Serra e Walter de Maria, quasi a voler dimostrare come la dicotomia che ha contrapposto in passato un Oriente "immutabile" a un Occidente "dinamico" sia oggi superata. Infatti la cifra del dialogo contemporaneo tra tradizione e innovazione va ben oltre ogni connotazione locale: è sufficiente pensare al modo in cui, solo per fare qualche esempio, la ricerca e i percorsi sperimentali di Yoko Ono o di John Cage (entrambi presenti in mostra) abbiano saputo coniugare la spiritualità Zen con l'attitudine antagonista, attivista e instancabilmente innovatrice delle neoavanguardie europee e americane per comprendere quanto la reciprocità culturale abbia contribuito a plasmare l'identità intellettuale di alcune delle menti più brillanti dei nostri tempi. Così la raffinata tradizione giapponese potrebbe diventare una valida chiave di lettura per guardare da un punto di vista diverso all'armonia dell'antichità classica greca e romana, mentre l'appropriazionismo e il citazionismo postmoderni potrebbero essere considerati strumenti per interpretare le mille sfaccettature del talento giapponese per l'imitazione. Come ha scritto Mitsuaki Shigemori, nipote di Mirei, nel suo testo per il catalogo della mostra: "Il mondo è ancora pieno di misteri irrisolti. Anche se mettessimo insieme le migliori intelligenze che il genere umano ha prodotto, dubito che saremmo capaci di afferrare l'arte in tutta la sua complessità. Tutto quello che possiamo fare è trascendere i limiti del tempo e i confini territoriali per vedere e sentire che le più diverse opere d'arte hanno qualcosa in comune. Prima che la razza umana si imbatta in più grandi e insormontabili ostacoli, se intendiamo raggiungere un più alto grado di consapevolezza delle nostre potenzialità nascoste, dovremmo sforzarci di rinsaldare i legami tra le persone. Non sappiamo dove termina l'universo. Ma la Terra è rotonda e pure il sistema solare è circolare. Di sicuro anche per noi tutti deve esistere un punto di connessione da qualche parte".

giovedì 31 luglio 2014

Una questione di ritaglio

Sembra quasi che Germano Celant, curatore della mostra Mimmo Rotella. Décollages e retro d'affiches presso Palazzo Reale a Milano, nel suo testo per il catalogo dell'esposizione Dal collage al décollage, suggerisca un'interpretazione della ricerca dell'artista calabrese come una sorta di percorso parallelo, ma in un certo senso speculare, rispetto a quello che ha condotto gli artisti d'avanguardia del Novecento all'invenzione del collage. I primi esperimenti di papier collé nell'ambito del Cubismo o del Futurismo, come anche le invenzioni linguistiche dadaiste e surrealiste, cercavano di costruire una totalità ideale attraverso l'accostamento di frammenti di realtà. Le composizioni di Picasso, Braque, Marinetti, Boccioni, Schwitters, Höch e tanti altri possono essere considerate agglomerati che totalizzano le loro componenti, per quanto esse siano disarticolate, al fine di rinviare a un concetto, a un ipotetico "altrove", a un "mondo possibile". Dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale e il drammatico trionfo della realtà sull'immaginazione, le avanguardie sono state irrimediabilmente sconfitte dalla storia, che ha annullato ogni slancio anticipatorio attraverso il sogno, la fantasia o la poesia. Lo stesso smarrimento che ha indotto Quasimodo a scrivere i versi di Alle fronde dei salici ha generato una profonda trasformazione nelle modalità espressive per cui l'arte è stata sospinta a connettersi direttamente con la vita, a rendersi conto della sua impotenza e a dichiararsi incapace di fornire risposte o di suggerire orizzonti divergenti dal mondo reale, che si è imposto con la forza travolgente delle immagini veicolate dai mezzi di comunicazione di massa. In questo contesto va collocata la scelta decostruttiva di Rotella, che ha trovato una strada personale, allontanandosi sia dall'ipotesi di ritorno alla rappresentazione figurale proposta dal realismo socialista, sia dall'identificazione con la concretezza gestuale ed emotiva dell'individuo suggerita dall'Action Painting americano e dall'astrazione informale europea. Nel termine décollage è evidente una forza polemica connessa con il potenziale negativo e distruttivo dello strappo, della lacerazione. Ma la tecnica di Rotella segue un'evoluzione formale che non porta alle estreme conseguenze la derealizzazione, riducendo in brandelli l'immagine mediatica già di per sé smaterializzata; invece si stacca gradualmente dalla rappresentazione per limitarsi alla presentazione, accettando i residui tagliati e prelevati dalla strada per quello che sono e immettendoli nel circuito dell'arte con un'operazione di stampo duchampiano. Alla fine degli anni Cinquanta, in molti suoi lavori, l'artista non si limitava ad appropriarsi di frammenti, ma utilizzava porzioni sempre più grandi di manifesti, fino a riportare sulla tela intere immagini in maniera neutra e impersonale: il suo fare arte diventava così registrazione del reale. La totalità iconografica strappata da Rotella alle manifestazioni mediatiche della vita potrebbe essere interpretata come il ribaltamento del tutto ideale rincorso dalle avanguardie del Novecento. Osservando le opere di Rotella dei primi anni Sessanta e confrontando i brandelli di ieri con i brandelli di oggi, viene da pensare che dovremmo imparare di nuovo a fare a pezzi, per poi ricostruire.

lunedì 30 giugno 2014

Il "modo all'italiana": dal film di consumo al cinema postmoderno

Il teorico francese Laurent Jullier identifica gli indici stilistici del cinema della surmodernità nel riciclaggio delle immagini, nelle frequenti allusioni e strizzatine d'occhio al pubblico (che viene coinvolto in una sorta di gioco metalinguistico) e nella sollecitazione di sensazioni forti per mezzo dell'adozione delle cosiddette figure dell'immersione, il cui scopo è quello di sprofondare lo spettatore in un bagno di emozioni e di suoni dotato di una forte componente onirica. Autoreferenzialità e abbandono edonistico sarebbero dunque i due poli intorno ai quali si definisce la natura del film postmoderno, il quale coniuga l'intertestualità, la rivisitazione, l'attraversamento culturale, l'ambiguità, la polisemia e la connotazione, con uno spiccato orientamento in direzione della sensazione e del piacere. L'ostinata presentazione di immagini di sintesi, la cui funzione è quella di creare una realtà virtuale improntata all'immersione, e la ricerca dell'appagamento sensoriale ad ogni costo, a discapito degli aspetti significativi, valoriali e simbolici contenuti nell'opera cinematografica, giustificano la presa di posizione di Jullier che parla, a questo proposito, di discorso di defezione o di non-discorso. Il film deve stimolare non più a livello intellettuale, ma a livello corporeo, fisico. Il trasporto verso la struttura virtuale del sistema mediatico e quindi la predilezione per il cinema fatto di effetti speciali coinvolgenti, di trovate tecnologiche in grado di stupire e affascinare lo spettatore, può essere interpretato come una risposta alla relativizzazione operata dalla cultura moderna e all'eccesso di parcellizzazione e di frantumazione proprio della società postmoderna. Nel momento in cui il B-movie accede allo statuto di film d'autore, in seguito a un potenziamento coreografico reso possibile dalle innovazioni tecniche e dalla crescente mole di investimenti economici, si sviluppa un genere nuovo di opera cinematografica commerciale, che promuove nel pubblico il piacere della spettacolarità. Il film postmoderno è subordinato e dipendente dalla tecnologia che ha contribuito a produrlo, poiché gran parte della sua efficacia dipende dalla qualità dei macchinari utilizzati per la proiezione e la riproduzione (il pieno godimento degli effetti speciali è condizionato dalla presenza di schermi grandi e a elevata risoluzione, nonché di ottimi impianti di diffusione del suono). Alcuni aspetti della surmodernità si riflettono nella produzione cinematografica: la serialità, il revival, il rifacimento, la citazione, diventano strumenti di gestione delle aspettative del pubblico. La scarsa rilevanza della trama, dei contenuti, che si cristallizzano in schemi ripetuti, è funzionale al soddisfacimento di uno spettatore sempre meno impegnato razionalmente, pronto a reagire e a entusiasmarsi di fronte alle variazioni di ritmo, di intensità e di colore delle immagini e dei suoni, attento più che altro alla patina superficiale e scenografica. La comunicazione nel cinema postmoderno ha come oggetto privilegiato la percezione e il pathos, più che la produzione di senso: il fruitore subisce il messaggio in una condizione di cinica indecisione, senza preoccuparsi di rendersi conto del suo significato, incantato dall'appariscenza patetica del fotogramma. Il cinema di Hollywood non fa altro che pescare a piene mani dai repertori collaudati dei film di successo (come si trattasse di una specie di magazzino dal quale poter attingere comodamente miti e temi utili al confezionamento di nuovi prodotti): la sua priorità è quella di promuovere i programmi di marketing che l'industria gli costruisce intorno e, nello stesso tempo, quella di pubblicizzare se stesso, attraverso allettanti e ininterrotte anticipazioni. Seguendo l'esempio della produzione seriale televisiva, al pubblico viene offerto uno spunto, un prototipo da sviluppare e da riprodurre, come avviene nelle fiction per la TV: così il film perde la sua unicità e compiutezza, la narrazione passa in secondo piano e si riduce a un canovaccio standard che consente pochissime variazioni. Tra le cause principali che hanno determinato una modificazione così profonda nella prassi creativa e nelle modalità di ricezione bisogna senza dubbio includere la proliferazione dei canali e della programmazione televisiva, che ha prodotto un universo della visione frammentato e caotico, fatto di zapping, polisemia e libera associazione delle idee. All'estetica dell'opera d'arte subentra gradualmente l'estetica del trash: il cinema postmoderno propone i frammenti, i detriti della cultura contemporanea, mescolandoli come in un frullato, come nelle opere di Robert Rauschenberg, brulicanti di oggetti e materiali disparati. Il riciclaggio, la contaminazione e l'omogeneizzazione delle immagini, presenti simultaneamente e tutte percepibili liberamente nell'immediato, distruggono le gerarchie di valori e sganciano la comunicazione da ogni valenza etica e morale. La cultura spezzata è fredda e impassibile: forse è la più adatta a rappresentare il mondo della surmodernità.
Per quanto i più autorevoli interpreti e studiosi della storia del cinema, nelle loro cronologie, definiscano postmoderna quella produzione che, a partire dagli anni Ottanta, risulta ormai irrimediabilmente legata alla dimensione spettacolare e in cui il processo di dissoluzione del soggetto e della sequenza narrativa raggiunge uno stadio avanzato, è innegabile che la cinematografia della surmodernità rappresenta un'evoluzione del film medio o di consumo, esplicitamente finalizzato all'intrattenimento, di derivazione hollywoodiana, che si sviluppa in maniera massiccia proprio durante gli anni Sessanta e che costituisce una notevole fetta delle realizzazioni di Cinecittà. Nel nostro Paese, con l'esaurirsi dell'intensa stagione del Neorealismo, non sembra ricostruirsi un movimento contraddistinto da poetiche condivise e da tensioni collettive. Unica tra le grandi cinematografie postbelliche, quella italiana non riesce a raccogliersi intorno a un denominatore comune: non viene a crearsi un nucleo di cineasti in grado di dar vita a un dibattito costruttivo e quindi a opere capaci di elevarsi al di sopra del cinema medio o miseramente commerciale. Rispetto ad altri contesti (la Francia della nouvelle vague o gli Stati Uniti del New American Cinema, ad esempio), scossi da vere e proprie ondate intellettuali, in Italia gli unici propugnatori di tendenze sono i produttori e gli unici intenti unificanti sono quelli che rincorrono il successo al botteghino. Vero è che, se è difficile rintracciare una corrente d'insieme, non sono poche le personalità di rilievo internazionale che vengono alla luce a partire dal dopoguerra: accostare le opere di registi come Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Marco Ferreri o Pier Paolo Pasolini (solo per citare alcuni nomi, l'elenco completo sarebbe molto più lungo) a mediocri film di consumo vorrebbe dire svilirle. Ma al di là delle illustri eccezioni, se si tenta un bilancio critico della cinematografia degli anni Sessanta italiani, il fenomeno che balza immediatamente agli occhi è la fioritura di filoni, generi e macrogeneri, tutti legati in qualche modo alle esigenze del mercato: dalla commedia all'italiana, al makaroni western, al film sexy, ai pepla (ovvero le pellicole di ambientazione romano-mitologica). Non comporta un grande sforzo avvicinare il cinema italiano del periodo, sottoposto a una sommaria industrializzazione, al cosiddetto cinema postmoderno: in entrambi sono evidenti la serializzazione dei prodotti e il livellamento delle loro caratteristiche culturali e ideologiche, sacrificate alle necessità spettacolari; in entrambi opera il meccanismo secondo il quale la struttura del film di gradimento popolare viene trasformata in prototipo, in ricetta rigida, attraverso un sapiente dosaggio di ingredienti narrativi e coreografici. L'urgenza consumistica lascia al regista il semplice ruolo di variabile dipendente, mentre la continuità del successo è garantita dal ripetersi degli schemi: gli sceneggiatori confezionano storie vendibili e stuzzicanti nel rispetto degli equilibri brevettati; la presenza di attori-divi, che il pubblico è in grado di riconoscere e ai quali sono assegnati ruoli standard, riduce lo sforzo interpretativo perché consente l'immediata identificazione iconica del personaggio. Al regista non resta che realizzare il disegno, adeguarsi a formule vincolanti. Il "modo all'italiana", uno tra i più interessanti macrofenomeni cinematografici dell'epoca, almeno dal punto di vista socio-antropologico, con la sua scarsa propensione alla riflessione e alla problematicità, con la sua spiccata attitudine ricreativa, con la sua cura per l'elemento scenico, con il suo conformarsi alla serialità, anticipa problematiche centrali nel cinema che è stato definito postmoderno. Per questo motivo non sorprende scoprire, ad esempio, che uno tra i più acclamati registi contemporanei, sottile interprete della surmodernità, come Quentin Tarantino, è un grande estimatore del western all'italiana e dei film di Sergio Leone: ne forniscono la prova le frequenti citazioni e la manifesta influenza esercitata, sia da un punto di vista estetico che tematico, dal filone spaghetti-western sull'autore americano. D'altronde il paradigma etico piccolo-borghese, fatto di rassegnato cinismo e di compiaciuta arte d'arrangiarsi, prevalente nel cinema italiano dei sixties, coincide per molti versi con la mentalità vacillante e la nomade identità degli autori postmoderni. La perdita del centro, la crisi negativa, la sensazione di delusione e di vuoto creata, nello specifico caso italiano, dalla dissoluzione del mito della Resistenza e dal cozzare delle speranze postbelliche con una realtà effettuale in cui le illusioni tendono a incrinarsi, si ripercuotono sull'immaginario creativo imponendo formule indurite: si ricercano certezze dove queste possono essere ricreate artificialmente. Almeno nei film, la società del dopoguerra desidera la pacificazione, vuole illudersi inseguendo inconsistenti punti di riferimento: con il proliferare di commediole sexy et similia l'industria cinematografica risponde alla diffusa richiesta di prodotti consolatori. Azzardando qualche generalizzazione, la crisi dei valori e delle certezze determinata dalla radicalizzazione della modernità produce effetti simili: lo spirito che anima il film postmoderno ha origine in un contesto sociale di esteso disincanto, che, per reazione, fa in modo che il cinema ricorra a una prassi confortante, costituita da schematizzazioni e da moduli ridondanti. Le trame esili e scontate, ricalcate sulla fiction televisiva, lo sfoggio di sbalorditivi effetti speciali, l'esasperazione kitsch e a tratti comica delle più forti emozioni umane (dalla sessualità alla violenza), le canoniche dosi di suspense che preludono a esiti prevedibili, non sono altro che un complesso di pratiche finalizzate alla creazione di un mondo virtuale in cui tutto è semplice, comprensibile, forse anche banale. Come tutte le forme di cultura di massa, anche il film di consumo è un tentativo di riduzione della complessità.

venerdì 30 maggio 2014

La storia dell'arte torna a scuola

Un tweet del 28 maggio di Dario Franceschini annuncia: "L'insegnamento della storia dell'arte tornerà nelle scuole. Impegno comune del ministro Giannini e mio". I ministri dell'Istruzione e dei Beni culturali hanno in effetti firmato un protocollo d'intesa, di durata triennale, mirato a incrementare la conoscenza del patrimonio culturale attraverso l'azione formativa delle scuole. La volontà di rinsaldare il sodalizio tra il mondo dell'istruzione e quello della cultura deriva dall'esigenza di rimettere al centro del sistema educativo italiano uno dei punti di forza del Paese, quasi un suo tratto genetico: la ricchezza, sia in termini quantitativi che qualitativi, di beni di particolare rilievo artistico e storico. La perdurante inettitudine, tutta italiana, nel gestire tale immensa risorsa è connessa in maniera fin troppo palese a una carente condivisione e circolazione dei saperi, aggravata dai tagli alla scuola pubblica ai quali abbiamo assistito nel recente passato. Un popolo che non conosce, non apprezza e non difende con orgoglio la sua cultura non sarà mai in grado di innescare positive dinamiche di valorizzazione. Per questo motivo è auspicabile che ai buoni propositi segua il concreto impegno del Governo per ottenere rapide coperture che consentano una revisione degli ordinamenti didattici, riesaminando almeno i punti più contestati della riforma Gelmini. Il progetto di reintrodurre l'insegnamento della storia dell'arte nei programmi degli istituti professionali e tecnici punta strategicamente al cuore del problema, ma non è l'unico aspetto interessante dell'intesa. In base al protocollo, Miur e Mibact faranno da ponte tra scuole e musei nella promozione di iniziative tese a favorire la comprensione della tutela del paesaggio e l'avvicinamento alla conoscenza dell'arte contemporanea, incoraggiandone lo sviluppo. L'accordo promuove inoltre iniziative per la valorizzazione e la fruizione consapevole del circuito archeologico e delle biblioteche, al fine di incoraggiare l'accesso alla cultura dei giovani. Le intenzioni sembrano delle migliori. Sul piano concreto, invece, il ministro Giannini ha annunciato un investimento di appena 500.000 euro per l'anno scolastico 2014/2015. Si spera sia solo un primo piccolo passo.

domenica 27 aprile 2014

La forza aggregante di una modernità senza tempo

Pierpaolo Forte, il presidente della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, ha utilizzato la parola "repubblicano" per definire il progetto, ambizioso e a suo modo storico, che ha condotto alla produzione di tre mostre dedicate all'opera di Ettore Spalletti da parte di tre tra i maggiori musei pubblici d'arte contemporanea italiani: il MAXXI di Roma, la GAM di Torino e il Madre di Napoli. In effetti, nel nostro contesto culturale così disabituato alla cooperazione e all'impegno comune, non è evento ordinario un simile esempio di proficua collaborazione tra realtà diverse da un punto di vista sia istituzionale che territoriale. Se a ciò si aggiunge la capacità di convogliare energie provenienti da tutte le componenti della società, pubbliche e private, in un percorso fondato sull'apporto dell'intera collettività, non si può non essere d'accordo nel ritenere che la grande mostra congiunta Un giorno così bianco, così bianco sia un segnale incoraggiante per il futuro della cultura nel nostro Paese.
Non è un caso che sia toccata in sorte a un artista come Spalletti la possibilità di provare a riattivare il discorso pubblico sull'arte contemporanea in Italia, nella consapevolezza della necessità di unire le forze per superare le debolezze del sistema. La sua natura riservata e sobria, la sua esperienza di vita appartata e lontana dai riflettori lo hanno reso il soggetto ideale per sciogliere un intricato groviglio di particolarismi. Così, come nei suoi lavori la trama cromatica della superficie appare per mezzo dell'abrasione da un impasto di colori a olio stemperati in una miscela di pigmenti e gesso, anche la pluralità slegata degli operatori culturali dispersi sul territorio italiano ha saputo armonizzarsi generando una perfetta macchina organizzativa, in omaggio alla poesia senza tempo del lavoro di Spalletti. Una poesia che è minimale e insieme fortemente identitaria, destinata a vivere oltre il tempo, perché sa parlare un linguaggio contemporaneo dal sapore antico: infatti la modernità dell'opera dell'artista abruzzese conserva in sé la memoria di forme e di equilibri classici. L'azzurro atmosferico e il rosa dell'incarnato sono i colori dominanti nella produzione di Spalletti: colori autentici e materiali, concreti e tangibili come la sua ispirazione, fondata su una manualità rituale che prevede un lento sovrapporsi di strati di pittura, poi sottoposti a un'azione erosiva. Obbedendo alle imprevedibili leggi del caso, il passaggio della carta abrasiva frantuma i pigmenti e consegna alle solide forme geometriche il loro aspetto di delicata fragilità, che non esiste ma viene fuori attraverso la polvere.
Per volontà dell'artista, le sue opere non devono essere toccate, perché un singolo contatto potrebbe far svanire quell'illusione di eternità sapientemente costruita. Ma una statuaria coscienza dell'imperfezione è forse l'unico mezzo possibile per sospendere e ribaltare l'apparentemente inarrestabile deriva verso il "vanishing point" dell'arte, descritta da Jean Baudrillard in un suo famoso scritto. Se esiste un antidoto alla minaccia del "grado Xerox della cultura", al pericolo dell'estetizzazione totale del mondo e della conseguente sparizione dell'arte, al rischio dell'indifferenza di fronte a forme sempre più sofisticate di simulazione, potrebbe anche nascondersi tra una piega dell'Adriatico e la cima più alta degli Appennini. Oppure in nessun luogo, ma negli occhi, nelle teste e nei cuori.

giovedì 27 marzo 2014

Tre domande a Graziano Folata

Molti tuoi lavori nascono da una sorta di "epifania" che ti consente di acquisire la consapevolezza necessaria per circoscrivere la forma e riconfigurarla attraverso un semplice gesto. Dal modo in cui descrivi il processo generativo da cui trae origine la tua ispirazione, sembra di capire che la tua idea di arte sia più vicina al concetto di "scoperta" che a quello di "invenzione". Poi però, in alcune opere, si percepisce una logica immaginativa più ambiziosa, che attribuisce all'immagine un senso quasi metafisico, superando il dato reale. Come interpreti il tuo ruolo? Ritieni che il compito dell'artista sia attivare uno sguardo più profondo e consapevole sulla realtà, oppure creare ex novo immagini in grado di superare i limiti della percezione?
Quali sono i limiti della percezione? Se fossi bendato e facessi un passo oltre il bordo del precipizio, concepirei quel limite soltanto una volta ritrovatomi in caduta libera. Ecco, io mi trovo continuamente in caduta libera, ma non so se sia caduta o volo, come non so riconoscere appieno dove io scopra o inventi, eppure sono mosso dall'urgenza di riempire gli sguardi di fertile meraviglia, in maniera da poter rendere plausibile ad altri un nuovo approccio all'atto artistico, anche partendo da sistemi minimi o immagini aspre nella loro prima insorgenza.

Una caratteristica costante del tuo percorso di ricerca è l'incessante sperimentazione di molteplici tecniche attraverso il ricorso a linguaggi differenti: ti esprimi agevolmente con la scultura, la fotografia, la pittura e le installazioni, dimostrando un'innata capacità, piuttosto rara a dire il vero, di padroneggiare più codici contemporaneamente. Credi che tale predisposizione sia collegata alla curiosità e all'interesse per lo studio della materia, in tutte le sue forme?
Ho sempre disegnato, incessantemente. Così mi sono accorto che dovevo essere spontaneo nel segno, sintetizzare con semplicità e piacere nel farlo: in questa maniera riuscivo ad essere molto veloce e più andavo avanti più ritrovavo una certa pienezza che riassumeva la forma e la figura in maniera decisa e personale. Con lo stesso atteggiamento ho guardato alla composizione sul vetro smerigliato della mia macchina fotografica, alla scelta dei soggetti e alle potenzialità che potevano scaturire da essi. Con il tempo anche gli elementi che sentivo significativi nella composizione di forme estetiche scultoree si sgravavano dall'artificiosità e assumevano, a mio avviso, grazia e immediatezza. Ma lavoravo sempre con un occhio al senso di ciò che facevo, senza cedere al fascino di gratuiti estetismi. Stavo temperando la mia sensibilità e quel che apprendevo era anche porre una maggiore attenzione all'osservazione dei fenomeni: quelli che ritrovavo vivendo quotidianamente, che sorgevano sottili e naturali, e pure quelli che potevano assumere valori simbolici. In effetti l'attenzione è curiosità a uno stato costantemente sollecitato: non fissare l'attitudine della sensibilità a un solo veicolo espressivo garantisce autonomia e capacità di trasformazione trasversale della materia. È mio parere che fare esercizio (o sperimentazione) del sensibile permetta di riuscire a cogliere l'invisto nelle pieghe del reale.

Il prossimo 10 aprile inaugurerà la tua nuova mostra personale: La pelle della tigre, a cura di Giovanna Manzotti, presso la Galleria Massimodeluca. In che modo le recenti esperienze all'estero, come la residenza a Belgrado, hanno inciso sulle modalità del tuo operare artistico? Si può rintracciare una linea di continuità tra i tuoi primi lavori e la produzione più recente, oppure bisogna aspettarsi grandi novità da questa mostra?
Belgrado è stata una realtà forte che mi ha corroborato nel profondo. Il mio rapporto con le cose è sempre stato molto fisico, performante (più che performativo); la Serbia mi ha fatto dono di una capacità unica nell'affrontare le problematiche ambientali e di comunicazione più ferree, con determinazione e volontà. Ho avuto la fortuna di stringere legami di amicizia sia nel mondo dell'arte balcanica, sia in quello dello sport da contatto, che ho praticato ogni giorno, imparando tecniche e stili di lotta. Ho potuto inoltre mettere a confronto il mio essere autore sensibile e leggermente disimpegnato, ma non acritico, con un senso sociale e politico dell'arte che permea la cultura serba, in un contesto in cui la maggior parte degli artisti risponde al richiamo della responsabilità civile. Sentivo di essere depositario di una certa italianità e che questa era intesa come un valore unico. Mi sentivo responsabile della storia che mi portavo dietro e che capivo di rappresentare; forse ero suggestionato da un territorio denso di contraddizioni e dalle braci fumanti, ma intanto la mia consapevolezza si era gentilmente corazzata.
Per quanto concerne la mia prossima personale, credo di esser rimasto fedele alla mia vocazione sperimentale e anche leggermente ironica (ma non frivola) nel campo dell'immagine e della forma; io d'altronde conosco la mia pratica, gli altri necessariamente un po' meno. Se ci saranno novità, il nuovo sarà sempre negli occhi di chi osserva.


Graziano Folata (Rho, 1982) vive e opera tra Milano e Venezia. Ha condotto i suoi studi all'Accademia di Belle Arti di Brera. Ha partecipato a numerose collettive e ha presentato i suoi lavori in personali e premi in cui si è distinto meritando la possibilità di studiare ulteriormente le dinamiche dell'arte contemporanea grazie a progetti di residenza d'artista e borse di studio in Italia e all'estero. Si ricordano, nel 2013, la residenza a Remont, Associazione per l'arte contemporanea indipendente a Belgrado (Serbia), e la mostra finale I baci più dolci, a cura di Miroslav Karic e Marija Rados; la personale Aquemini, Galleria A+B Contemporary Art, Brescia, con interventi critici di Federico Ferrari, Giovanna Manzotti e Marta Cereda. Si è aggiudicato la Menzione speciale arte emergente al Premio Francesco Fabbri per le arti contemporanee ed è stato selezionato per il museo MAGA di Gallarate all'interno della sezione RawZone di Art Verona.

Per approfondire:
italianarea.it

sabato 15 marzo 2014

I no delle soprintendenze e i buchi nel Vasari

Il 9 marzo scorso è apparso su La Repubblica un articolo di Giovanni Valentini dall'esplicito titolo: "Tutti i no delle soprintendenze che ostacolano i tesori d'Italia". Con tutto il rispetto e l'affetto per il bravissimo giornalista, che però non può certo vantare particolari competenze, titoli ed esperienze nel settore della gestione e della tutela del patrimonio culturale, viene da sorridere amaramente quando si individua nella "maledizione dei coccetti" una delle principali cause del degrado urbanistico e sociale della Capitale, oppure quando si accusano le soprintendenze di "incatenare il Belpaese" o di "bloccare il recupero del patrimonio artistico". Uno scivolone può capitare a tutti e, per una volta, l'acuto editorialista del giornale di Ezio Mauro è inciampato in un mal congegnato miscuglio di demagogia e superficialità, che mostra in trasparenza, sullo sfondo, tutto il repertorio delle insofferenze e delle bramosie che il ventennio berlusconiano ha insinuato nell'animo degli italiani. Così, tra le righe, compaiono tematiche tristemente note e affermazioni che, a dire il vero, potrebbero essere tranquillamente sottoscritte da un Nannipieri. Quello che più disturba è percepire un atteggiamento di sufficienza di fronte alla cultura delle regole (almeno in campo culturale), quando questa va a scontrarsi con un'esigenza di "modernizzazione" dai contorni non ben definiti. Ma è ben poco elegante anche il profluvio di dati sugli stipendi di dirigenti e funzionari del Ministero dei Beni Culturali, che parrebbe voler estendere persino a questo settore l'ormai unanime riprovazione per gli eccessivi costi della politica, ma non fa i conti con una realtà che è descritta con tutt'altra consapevolezza nella replica all'articolo di Valentini pubblicata su patrimoniosos.it e sottoscritta da un cospicuo numero di funzionari ed ex-funzionari del Mibact: "In un paese come il nostro, il Ministero dei Beni Culturali è da sempre considerato il fanalino di coda, [...] la percentuale del Pil nazionale investita in tutela e valorizzazione del patrimonio artistico è risibile rispetto a quella di altri paesi europei che non possono neppure lontanamente paragonarsi alla ricchezza del nostro, [...] gli organici del personale tecnico-scientifico del Mibact sono nettamente sottodimensionati rispetto alle esigenze di un patrimonio immenso e [...] l'età media dei funzionari è al di sopra dei cinquant'anni. Se dunque le soprintendenze non funzionano forse è perché non le si vuole far funzionare. E gli economisti, a cui è oggi tanto di moda appellarsi, ci insegnano che un'impresa va incentivata prima di tutto attraverso gli investimenti, sia di capitale finanziario sia umano".
Ciò che invece si rintraccia con difficoltà nell'articolo di Valentini è una coerente e concreta argomentazione a sostegno della sua tesi. Si cita l'esempio della decisione di Matteo Renzi, da sindaco di Firenze, di affittare Ponte Vecchio alla Ferrari, sostenendo che sia stata contestata dalla Soprintendenza. Eppure in quell'occasione la soprintendente ai beni ambientali ed architettonici Alessandra Marino ha firmato, forse anche con una certa leggerezza, l'ordinanza del Sindaco, esprimendo tra l'altro il suo parere favorevole. Scrive ancora Valentini che Renzi "avrebbe voluto far eseguire alcuni sondaggi tecnici" su un affresco di Vasari alla ricerca di un Leonardo perduto. In realtà l'attuale Presidente del Consiglio non "avrebbe" ma "ha" fatto eseguire una mezza dozzina di "sondaggi tecnici" (che, esplicitando l'eufemismo, non sono altro che buchi) sull'affresco di Palazzo Vecchio, con tanto di autorizzazione del soprintendente Cristina Acidini. A prescindere dai risultati delle operazioni, che non si vogliono qui giudicare, non sembra che gli esempi concreti portati da Valentini siano particolarmente efficaci nel dimostrare quanto i custodi dei beni culturali rappresentino un freno allo sviluppo. Pur senza cadere nell'eccesso opposto di chi denuncia un'abitudine diffusa alla "prostituzione culturale" nel nostro Paese (come è noto la verità, se sta da qualche parte, sta nel mezzo), dovrebbero essere altre le modalità per esprimere sostegno al nuovo Governo e coltivare speranze riguardo al suo operato. Mentre sembra paradossale che chi conserva un'idea diversa di come dovrebbe configurarsi l'azione politica della sinistra italiana meriti l'appellativo di "reazionario", che Massimo Mattioli in un suo pezzo per Artribune ha affibbiato a Giulia Maria Crespi, a Salvatore Settis e a coloro i quali hanno pubblicamente espresso il proprio dissenso nei confronti del programma di drastica revisione delle strutture centrali e periferiche per la gestione dei beni culturali prospettato dai renziani più convinti.
La semplificazione non è sempre la soluzione migliore per ogni problema: non lo è di certo in merito a questioni complesse come la valorizzazione e la tutela del patrimonio artistico.

giovedì 13 febbraio 2014

Tre domande a Martina Cavallarin

A partire dal 2009, l'associazione di promozione sociale scatolabianca si occupa della promozione e della valorizzazione di artisti emergenti, perseguendo un obiettivo ambizioso: l'integrazione tra arte e collettività. Parole d'ordine come partecipazione, condivisione, interdisciplinarità, connessione tra i diversi segmenti della società civile, dialogo, confronto e opportunità educative hanno da sempre caratterizzato la progettualità della dinamica piattaforma culturale da te diretta. Quali sono le novità e le iniziative previste per il 2014? 
scatolabianca nasce come una piattaforma d'arte visiva nel 2009, anno in cui i cambiamenti e le destabilizzazioni prodotte dalle attuali condizioni sociali, economiche e politiche ancora non erano evidenti. Volevamo tornare a stare insieme, a parlare, a innestare il dialogo con modalità e declinazioni differenti da quelle degli anni Settanta, svecchiando e velocizzando lo scambio pur restando dentro posizioni anche ideologiche, ma senza radicalismi. Ciò che non sapevamo, in modo cosciente intendo, è che le modalità associazionistiche sarebbero diventate una necessità e un'urgenza, almeno per noi. Così con fatica, anche economica, abbiamo affittato una sede nel centro di Milano, zona Porta Genova, scatolabianca(etc.): l'abbiamo riqualificata, accessoriata e ora la stiamo abitando. Altra parte complessa continua a essere il coniugare l'impegno scatolabianca con il proprio lavoro indipendente: io sono critica e curatrice d'arte contemporanea, Roberta Donato è una giovane PR e ufficio stampa, Gianni Moretti è un artista professionista impegnato a livello internazionale e Federico Arcuri è un Art Director di Piacenza. Con il trascorrere del tempo l'asse d'interesse si è andato sempre più spostando su temperature legate alla coscienza civica, alla crescita intellettuale, alla formazione, alla cultura che crea sistema e riqualifica territori e anime. Abbiamo cominciato a sostenere CORSI per artisti sulle stesure professionistiche di portfolio, inserimento professionistico nel sistema arte e analisi dell'opera (scatolabianca cacciatori di teste | BACKSTAGE), l'insegnamento della comunicazione e della gestione web (scatolabianca TheCOMMUNICATORS) sempre agendo con un massimo di 3/4 artisti alla volta perché crediamo allo scambio e al valore personale. Lavoriamo sul processo dell'artista (scatolabianca BLACK MATCH), organizziamo talk con critici e curatori (scatolabianca WhoCARES?). Ora abbiamo ideato scatolabianca 4X4, un ciclo espositivo durante il quale una parete di scatolabianca(etc.) sarà costantemente dedicata a un socio | artista per una condivisione di abitazione, di partecipazione, di relazione, di intenti.
Un importante obiettivo studiato e raggiunto è PROGETTO IRIS: con il Comune di Milano abbiamo presentato alla Fabbrica del Vapore una struttura rizomatica formata da studi, laboratori, conferenze, corsi, per un gesto artistico che abbracci tutti e che ora prosegue nella sede di Milano e si diramerà in altri luoghi e con altre modalità.

La conferenza a PROGETTO IRIS e quella bolognese tenutasi presso la fiera d'arte indipendente SetUp hanno dato il via al progetto scatolabianca ART MEETS LAW: un ciclo di incontri dedicato ai diritti e ai doveri nel mondo dell'arte contemporanea. L'attuale scenario economico e la fragilità di ogni prospettiva di ripresa rendono sempre più impellente la necessità di diffondere la cultura della legalità nel nostro Paese. Credi che l'artworld possa dare il buon esempio? Non ti sembra invece che, purtroppo, i rapporti di forza e le pretese di deregolamentazione siano ancora motivi dominanti nelle logiche del mercato dell'arte?
 Proponendo PROGETTO IRIS alla Fabbrica del Vapore abbiamo messo in piedi una serie di conferenze e tra queste abbiamo accolto Connecting Cultures, con un convegno sostenuto dalla dott.ssa Anna Detheridge e dall'Avv. Alessandra Donati (già esimia protagonista di un ciclo d'incontri sul diritto e i contratti d'arte alla Fiera di Torino Artissima 2013). Il percorso è poi proseguito con la conferenza bolognese tenuta a SetUp da me, dall'Avv. Lavinia Savini (professionista del settore e esperta in Patrimonio) e dall'autore Alessandro Bergonzoni. Ora il cammino prosegue con dei talk che si svolgeranno nella sede milanese scatolabianca(etc.) e che vedranno diversi relatori scambiarsi opinioni, spiegare i diritti e i doveri di artisti, galleristi, critici, curatori, collezionisti, produttori, divulgatori. Sarà possibile richiedere i format dei principali contratti che si stipulano in caso di mostre, prestiti di opere, produzione di lavori, svolgimenti di performance, vita dell'opera dopo che questa lascia lo studio dell'artista e la proprietà dell'artista stesso. scatolabianca ART MEETS LAW rappresenta per noi una necessaria e vera urgenza di presa di responsabilità: si devono fare contratti tra artisti, galleristi, critici, per esporre, produrre, diffondere immagini di opere. Tale meccanismo deve diventare normale come ricevere ed erogare lo scontrino al supermercato: non può dipendere da rapporti di forza, peculiarità caratteriali, esibizioni di potere, ruoli. Il momento dei gentlemen's agreement è finito. Se ci credo? Credo che stiamo agendo, ci stiamo esponendo, ci stiamo mettendo in gioco, non deleghiamo, non ci piangiamo addosso. Se il sistema ora è obsoleto e macchinoso sta a noi cambiarlo, senza grandi rivoluzioni, senza incendi e urla, solo con il fare guidato da un pensiero culturale e sociale rizomatico condiviso. Cerchiamo quindi di diffondere la voglia, la passione, l'energia dell'azione plurale, questo è il gesto artistico: cercare di essere migliori, non nascondersi, non accusare gli altri di non costruire ciò che dobbiamo, è evidente, costruire tutti noi in prima persona. E a scatolabianca siamo, tentiamo, facciamo. La cosa più bella? Che ora la rosa delle persone propositive e attive, molti artisti e critici, si sta allargando e se facciamo squadra ci divertiamo davvero!

Quest'anno sei stata responsabile degli eventi culturali di SetUp, la fiera giovane di Bologna ideata da Simona Gavioli e Alice Zannoni. In virtù di questa esperienza, vorresti esprimere un sintetico parere sulla seconda edizione della manifestazione?
Sono stata incaricata di occuparmi degli eventi culturali. Una programmazione che ho cominciato a strutturare a luglio 2013 e che ritengo importante in un meccanismo commerciale come una fiera, che ha bisogno della parte culturale: questo è sempre stato il pensiero preminente di Alice Zannoni, che si cura della parte più intellettuale e ricreativa, quest'anno rappresentata dal ping pong di Nino Migliori, mentre Simona Gavioli ricopre un ruolo più manageriale e organizzativo, una coppia perfetta.
Davvero densi e interessanti gli incontri sostenuti da nomi eccellenti: Mario Perniola, Adriana Polveroni, Silvia Evangelisti, Giacinto Di Pietrantonio, Lavinia Savini, Alessandro Bergonzoni, Roberto Paci Dalò, Carlo Musso, Fabiola Naldi e KCity, DueBarraDue, Frontier, roBOt festival. Ci siamo concentrati su temi culturali, legislativi, sociali e di rigenerazione urbana. SetUp si occupa dei giovani talenti, è innovativa, coraggiosa, riqualificante per la struttura urbana che abita e per le persone che coinvolge. Una macchina complessa che Simona Gavioli e Alice Zannoni hanno creato e cresciuto con coraggio, un pizzico d'incoscienza fondamentale per le grandi imprese e con una tenacia che le ha viste protagoniste di uno scardinamento di gerarchie, retaggi, condizionamenti. Ora, grazie a SetUp, Bologna rappresenta un luogo esemplare dell'arte contemporanea italiana che la equipara alle grandi capitali europee. In Italia capita raramente e in pochi settori d'eccellenza. Come potevo non essere loro vicina e non sentirmi fortunata a poterlo essere? Gavioli & Zannoni costituiscono una perfetta "dittologia sinonimica": Belle & Brave.


Martina Cavallarin (Venezia, 17/12/1966) vive e lavora tra Milano e Venezia. Critica e curatrice indipendente, si occupa di arti visive contemporanee con uno sguardo che spazia tra differenti linguaggi e necessarie contaminazioni. Il senso è esplorare possibilità, indagare sistemi relazionali, sociali ed ecocompatibili, processi in progressione, espansione dell'errore, analisi sulle imperfezioni. La sua ricerca si concentra su interventi di arte relazionale che coinvolgono il territorio urbano e la sfera umana. Nel 2014 è responsabile degli eventi culturali di SetUp, Bologna. Nel 2013 ha ideato PROGETTO IRIS – un progetto del Comune di Milano e di scatolabianca alla Fabbrica del Vapore – che continua a dirigere nel 2014 e ha diretto e curato il Blumm Prize all'Ambasciata italiana di Bruxelles. Del 2012 gli interventi alla LUISS di Roma nel Master of Art e del 2010-2011 al Politecnico di Milano, dipartimento di Design e Architettura. Dal 2009 è co-fondatrice di scatolabianca – Associazione di Promozione Sociale – della quale ha assunto presidenza e direzione. Tra il 2003 e il 2009 è stata coordinatrice scientifica e culturale di Achille Bonito Oliva all'interno di progetti editoriali ed espositivi. Nel 2008 è stata critica e curatrice alla Project Room del MART di Rovereto. Collabora con riviste tra le quali Artribune, Exibart, alfabeta2, Venezia da Vivere.

Per approfondire:
scatolabianca.net
setupcontemporaryart.com

domenica 2 febbraio 2014

Diario bolognese

Analizzando i dati relativi all'affluenza e i risultati economici di Arte Fiera 2014, sembra che la trentottesima edizione della rassegna abbia fornito segnali evidenti di una ritrovata centralità e di una vitalità probabilmente al di sopra delle non proprio ottimistiche attese. Poco meno di cinquantamila visitatori, vale a dire il 15% in più rispetto allo scorso anno, e un incremento di oltre il 20% nel numero delle gallerie presenti, ben 172, sono numeri che giustificano la riconferma dei direttori artistici Claudio Spadoni e Giorgio Verzotti e le entusiastiche dichiarazioni del presidente di BolognaFiere Duccio Campagnoli, il quale, durante la conferenza stampa di chiusura, ha parlato della manifestazione come di una "piattaforma di riferimento per tutti i galleristi e il sistema dell'arte italiana, un evento culturale per il Paese e per Bologna che deve saper proporre arte, sperimentazione e tecnologia con contenuti di profilo e originalità". Pare che anche le vendite siano andate bene: secondo quanto riportato dalla stampa il giro d'affari stimato sarebbe di circa trenta milioni. I collezionisti hanno rivolto la loro attenzione in particolare al periodo compreso tra il secondo dopoguerra e gli anni Settanta; se si considera inoltre la novità dell'apertura alla seconda metà dell'Ottocento, l'impressione è quella di una tendenza a rifugiarsi verso le proposte consolidate. D'altronde gli artisti più rappresentati sono stati, com'era prevedibile, Lucio Fontana (Artitalia - Luigi Proietti, Umberto Benappi, Blu, Studio Campaiola, Cardi, Cortesi Contemporary, Eidos Immagini Contemporanee, Frediano Farsetti, Gariboldi, Il Chiostro, Matteo Lampertico, Mazzoleni, Mediartrade, Montrasio Arte, Tega, Tonelli, Tornabuoni), Alighiero Boetti (Artevalori, Biasutti & Biasutti, Cardi, Cortesi Contemporary, De' Foscherari, Giorgio Maffei, Matteo Lampertico, Mazzoleni, Mediartrade, Giuseppe Pero, Studio Crespi, Tonelli, Tornabuoni, Studio Giangaleazzo Visconti), Giorgio De Chirico (Artitalia - Luigi Proietti, Biasutti & Biasutti, Cinquantasei, Di Paolo Arte, Frediano Farsetti, Studio Guastalla, Mazzoleni, Poleschi Arte, Studio d'arte dell'800/900, Tega, Torbandena, Tornabuoni), Alberto Burri (Artitalia - Luigi Proietti, Blu, Cardi, Frediano Farsetti, Studio Guastalla, Matteo Lampertico, Mazzoleni, Montrasio Arte, Poleschi Arte, Montecarlo - International Art - Galerie Sapone, Studio Crespi, Tega), Enrico Castellani (Studio Campaiola, Cardi, Claudio Poleschi, Maurizio Corraini, Santo Ficara, Gariboldi, Matteo Lampertico, Mazzoleni, Tega, Tonelli, Tornabuoni), Agostino Bonalumi (Artevalori, Antonio Battaglia, Blu, Cardi, Cortesi Contemporary, Deniarte, Santo Ficara, Gariboldi, Mazzoleni, Repetto, Studio Crespi), Mimmo Paladino (L'Ariete, Cardi, Claudio Poleschi, Contini, Cortesi Contemporary, Deniarte, Di Paolo Arte, Editalia, Poleschi Arte, Mimmo Scognamiglio), Michelangelo Pistoletto (Artevalori, Biasutti & Biasutti, Cardi, Claudio Poleschi, Continua, Giorgio Maffei, Studio Guastalla, Mazzoleni, Repetto), Dadamaino (Artevalori, Antonio Battaglia, Cortesi Contemporary, Dep Art, Gariboldi, Studio Guastalla, Repetto, Tornabuoni, Studio Giangaleazzo Visconti), Pier Paolo Calzolari (Artevalori, Enrico Astuni, Biasutti & Biasutti, Cardi, Claudio Poleschi, De' Foscherari, Frediano Farsetti, Repetto, Tonelli), Giulio Paolini (Artevalori, Biasutti & Biasutti, Cardi, Cortesi Contemporary, Giacomo Guidi, Repetto, Tega), Carla Accardi (Enrico Astuni, Valentina Bonomo Roma, Deniarte, Editalia, Santo Ficara, Studio Crespi, Tega) e Hans Hartung (Galleria Accademia, Artitalia - Luigi Proietti, Eidos Immagini Contemporanee, Mazzoleni, Mediartrade, Montecarlo - International Art - Galerie Sapone, Tega). Non sono poche le gallerie che hanno puntato su due artisti molto apprezzati della Nuova Scuola Romana: Marco Tirelli (Alessandro Bagnai, Antonella Cattani, Giacomo Guidi, Kro Art Contemporary, Otto Gallery) e Nunzio (Valentina Bonomo Roma, De' Foscherari, Eduardo Secci Contemporary, Santo Ficara, Galleria dello Scudo, Otto Gallery). Nella sezione "Solo show" si sono distinte le mostre monografiche dedicate a David Tremlett dallo Studio G7 e a Maria Lai dalla Nuova galleria Morone. Occhi puntati anche su Ettore Spalletti (Claudio Poleschi, Cortesi Contemporary, Eduardo Secci Contemporary, Tonelli e, ovviamente, Vistamare) al quale, nella primavera del 2014, sarà dedicata una grande mostra congiunta in tre fra le più importanti istituzioni pubbliche dedicate all'arte contemporanea in Italia: il MAXXI di Roma, la GAM di Torino e il Madre di Napoli. La fotografia ha trovato più spazio in questa edizione di Arte Fiera: protagonisti indiscussi di un'ampia e organica sezione, che ha ospitato una ventina di gallerie, sono stati i lavori di Franco Fontana e Luigi Ghirri. Se tra le opere dei giovani artisti presentati dalle sette gallerie della sezione "Nuove proposte" si rintracciava a fatica qualche lavoro interessante, per fortuna non mancavano, sparpagliati tra gli altri stand, under 40 che si sono fatti notare per la qualità della propria ricerca, tra i quali sono senza dubbio da segnalare Sergio Breviario (Marie-Laure Fleish), Emmanuele De Ruvo (Montoro 12) e Laura Pugno (Alberto Peola). Meritano un cenno la mostra Discovering Ink (a cura di Guido Mologni, sull'uso dell'inchiostro su carta nell'arte cinese), una bella selezione di lavori di Toti Scialoja (che ha trovato posto nello stand della galleria Open Art) e una ricca antologia di opere di Shozo Shimamoto (membro del movimento d'avanguardia Gutai, presente in fiera grazie allo Studio Giangaleazzo Visconti). Nota negativa, in un quadro complessivo che lascia ben sperare per il futuro, è l'assenza di alcune tra le maggiori gallerie italiane di arte contemporanea, come Massimo De Carlo, Lia Rumma, Massimo Minini e Alfonso Artiaco: fenomeno che, a dire il vero, si ripete da qualche anno, minando l'autorevolezza della manifestazione.
Come ogni fiera, anche quella di Bologna non è certo il luogo ideale per la fruizione delle opere d'arte: la maggior parte del pubblico, se non entra per comprare, partecipa per gli incontri, per i contatti, per aggiornamento o per curiosità. Tuttavia la sezione "Focus On Eastern European Countries" e la mostra ad essa collegata Il piedistallo vuoto. Fantasmi dall'Est Europa, presso il Museo Civico Archeologico fino al 16 marzo, hanno rappresentato un valore aggiunto sul piano culturale per un evento altrimenti orientato, com'è giusto che sia, verso il mercato. Tra l'altro la kermesse bolognese, la cui vocazione cosmopolita sembrava ultimamente piuttosto debole, ha guadagnato molto in termini di apertura e di credibilità internazionale grazie alla presenza di una decina di buone gallerie provenienti dall'Europa orientale, alcune delle quali emergenti. La mostra in via dell'Archiginnasio, a cura di Marco Scotini, è un'esaustiva rassegna sull'arte contemporanea dell'Est Europa, che raccoglie un centinaio di opere (tutte provenienti da grandi collezioni private italiane) di quarantacinque tra i maggiori rappresentanti della scena artistica che ha preceduto e seguito il crollo del blocco sovietico. Il titolo Il piedistallo vuoto è ispirato a un'opera dell'artista uzbeko Vyacheslav Akhunov e allude a un momento di attesa e di passaggio, in cui i fantasmi del passato sembrano ancora popolare il presente. Uno dei grandi meriti di Scotini è proprio quello di aver contribuito alla diffusione nel nostro Paese della conoscenza del lavoro di artisti di grande spessore, come lo stesso Akhunov (del quale ha curato, tra l'altro, la prima mostra personale in una galleria d'arte, presentata a Milano in anteprima mondiale da Laura Bulian, dove è possibile ammirarla fino al 22 marzo), affiancandolo a opere di artisti già noti al pubblico italiano, tra i quali Marina Abramović, Pawel Althamer, Anri Sala, Adrian Paci, Artur Zmjewski, Mircea Cantor e Nedko Solakov.
Grande successo anche per la seconda edizione di SetUp, la fiera giovane di Bologna: hanno affollato gli stretti corridoi dell'Autostazione quasi diecimila visitatori in tre giorni, che hanno acquistato circa 125 opere per un ammontare di quasi 165.000 euro. Simili dati sono estremamente confortanti per chi non pensa che l'interesse e la passione per l'arte debbano essere prerogative di élite aristocratiche dotate di grandi disponibilità economiche, ma che il futuro del collezionismo coincida con la creazione di un pubblico ampio e competente, in grado di avvicinarsi a un panorama artistico diversificato, diffuso e alla portata di tutte le tasche. Punto di forza della manifestazione, ideata da Alice Zannoni e Simona Gavioli, affiancate quest'anno da Martina Cavallarin, è stato un programma culturale ricchissimo di spunti: gli incontri presso l'area Talk e i progetti di SetUp Blab sono andati nella direzione dell'apertura al dialogo e al confronto tra artisti, critici, operatori, collezionisti e appassionati, stimolando quel coinvolgimento propositivo e vivificante che troppo spesso sembra mancare anche nei contesti culturali più attivi. Esattamente questo è lo spirito che ha animato il progetto Be Kind di Lorenzo Paci, che ha invitato dodici professionisti dell'arte (tra i quali Igor Zanti, Alberto Agazzani, Lorenzo Poggiali, Massimo Mattioli, Carolina Lio, Roberto Milani, Lia Bedogni, Alessandro Casciaro e Pascual Jordan) a prendere posto su comode sedie di design, in un'atmosfera distesa e informale, per ascoltare le proposte di chiunque si fosse prenotato online per il dibattito.
Nei giorni di Arte Fiera si è naturalmente infittito in città il calendario degli eventi artistici, a partire dalla ricca serie di mostre e iniziative culturali di Art City, organizzate grazie alla collaborazione tra il Comune di Bologna e BolognaFiere e disseminate nei luoghi d'arte della città, dal Mambo alla Pinacoteca Nazionale. Al di là del programma istituzionale, merita una segnalazione il progetto espositivo Esercizi di stile, frutto della partnership tra la galleria Massimodeluca e la galleria Maurizio Nobile e realizzato con il contributo del curatore indipendente Andrea Bruciati: una mostra diversa, che ha stupito per la perfetta integrazione dei lavori di alcuni promettenti giovani artisti nati negli anni Ottanta in un contesto antiquario come quello degli spazi di via Santo Stefano. In un'atmosfera di sospensione temporale, fluida e svincolata da coercitive definizioni stilistiche, hanno trovato perfetta collocazione opere di innegabile qualità estetica e concettuale, come l'omaggio di Nicola Ruben Montini a Maria Lai oppure l'Enea di Graziano Folata.

lunedì 27 gennaio 2014

Tre domande a Gian Maria Tosatti

In una recente conversazione con Jannis Kounellis presso il Museo Hermann Nitsch a Napoli, per il ciclo di incontri da te curato La costruzione di una cosmologia vol. 1, riflettendo sul ruolo e sull'identità dell'artista, hai evocato una presunta circolarità tra momenti storici. Sostanzialmente dalle tue parole emerge un parallelismo tra il secondo dopoguerra e l'Italia contemporanea: l'elemento che accomuna due generazioni di artisti, quella di Kounellis e la tua, è il tentativo di ricostruire i ponti rotti del dialogo sociale. Quali sono, a tuo parere, le armi da impugnare in questa "guerra non combattuta" e in che modo gli artisti possono portare la battaglia sul campo della dialettica e del confronto?
La circolarità, o meglio la ciclicità, è un movimento proprio della Storia. È come se, sempre, sulla scacchiera del tempo ci fossero tutti gli elementi. Solo il loro ordine cambia. Per cui, non si può credere che dopo la guerra arrivi un periodo di pace. C'è sempre guerra, in un'altra regione del tempo, in un'altra regione dello spirito. E c'è pace durante la guerra, quando le linee del fronte sono lontane. Così, come ho ricordato assieme a Kounellis, il nostro dopoguerra è stata, in realtà, la seconda fase di una guerra. Lo testimonia tutta la letteratura italiana post-bellica, da Silone, Fenoglio, Cassola... Era una guerra diversa, che cambiava strumenti, passava dalle armi pesanti ad armi più sottili, come il conformismo, l'immemorialità, ma era ancora guerra e guerra cruda. E dopo gli anni Cinquanta che cosa è successo, mi chiederai. Dopo di allora siamo diventati stanchi della guerra, come diceva Eduardo De Filippo in Napoli milionaria. E così abbiamo fatto finta di non vederla più. Ma così abbiamo solo abolito la guardia e la guerra ha fatto il suo corso scavalcandoci. In principio, ha provocato degli anticorpi, come ogni infezione che inizia a prendere il sopravvento. Dunque, abbiamo avuto una reazione nel '68. Ne abbiamo avuta una seconda, ma ormai debole e, appunto, malata, nel '77, e poi basta, sono arrivati gli anni '80 ed è stato un grande silenzio, in arte come in altro. Nel nostro campo c'è stata la Transavanguardia, che è una specie di "Ritorno all'ordine", ma più scarico ancora di quel che fu il primo all'epoca del fascismo, più debole, ancora più inutile. E poi c'è stata quella che Stefano Arienti, parlandone con me, ha definito "l'arte italiana che non esiste", e cioè quella degli ultimi 15 anni. Con questo non voglio dire che non ci siano stati gli artisti. Ci sono stati, come ci sono i vivi in un paesaggio di guerra, che però è per definizione un paesaggio di morte. Ecco, questa è l'eredità che la mia generazione si trova a raccogliere. E si badi bene che noi siamo i più deboli. Siamo figli di una guerra, siamo denutriti e lo siamo stati dalla nascita, e per certi versi non conosciamo altro scenario che la guerra, una guerra in cui siamo la parte che perde. Non abbiamo nemmeno la nostalgia della pace, del benessere, dell'equilibrio. Non li abbiamo mai conosciuti. Siamo i meno adatti ad opporci ad una guerra che ci è madre. Ma abbiamo la disperata necessità di mettere fine al silenzio perfetto che segue l'esplosione delle bombe. Un silenzio ermetico e insopportabile che dura da quando abbiamo orecchi. Un silenzio che non si riempie con la voce di uno, parlando, urlando... Si riempie e si surclassa solo col suono di un'orchestra. Solo una sinfonia, suonata da un'orchestra intera, può coprire quel silenzio, infrangerlo. Ecco perché ho così a cuore il tema generazionale. Ecco perché è nata La costruzione di una cosmologia. Perché se ognuno di noi continuerà a fare bene il suo lavoro, come dal canto suo lo ha fatto lo stesso Arienti o quelli che con lui hanno attraversato gli ultimi 15 anni, saremo ancora le stelle singole di un'arte italiana che non esiste, di un'arte italiana senza lettura e senza orientamento. Costruire una cosmologia significa rendere il cielo leggibile, render quelle stelle non solo punti luminosi, ma guide per la navigazione, elementi di interpretazione esoterica, riferimenti per un orientamento che vada oltre la piccola terra che abitiamo. In questo senso l'arte può diventare un elemento di trasformazione. Ma dev'essere l'arte di una generazione. Il lavoro di uno non basta. Non può bastare.
La guerra di cui parlo, comunque, è una guerra che non si combatte con lo scontro. Perché lo scontro riduce, sempre, fino ai minimi termini. E non è quel che dobbiamo fare. Sarebbe combattere dalla parte del "nemico". Non dobbiamo mai impoverire. Dobbiamo arricchire. Se le nostre case crollano nel silenzio delle bombe, noi non dobbiamo sganciare altre bombe, sparare altri missili. Dobbiamo scrivere le sinfonie per riempire il silenzio, per sfondarlo, annichilirlo. Dobbiamo arricchire, creare un suono invincibile, un'armonia irriducibile. E dobbiamo rendere ogni cittadino un musicista. Dobbiamo mettergli in mano uno strumento, ma non imponendoli, piuttosto, lasciandoceli rubare. Dobbiamo creare gli strumenti per leggere il presente, per immaginare il futuro. Dobbiamo costruirli come oggetti di uso quotidiano, che siano facili da usare, che possano essere maneggiati da tutti, che possano essere rubati da tutti. È lì che inizieremo a ribaltare le sorti di una guerra che è comunque infinita. Sarà quando vedremo le persone comuni usare gli strumenti che abbiamo costruito. Sarà quando l'uomo comune inizierà con quegli strumenti a diventare un creatore di bellezza. Ecco, allora, le sorti del conflitto saranno sovvertite. Useranno i nostri strumenti per suonare una musica che abbiamo immaginato o di più, inizieranno a trasformare quella musica in mille variazioni.
È così che gli artisti portano la battaglia, accendendo le stelle e mettendole in ordine. Creando una cosmologia. Ma la battaglia non la combattono i capitani, la combattono i soldati. Nell'Enrico V di William Shakespeare, un re stanco, a capo di un esercito stremato e in terra straniera, inferiore di numero e per armamenti, alla vigilia di una battaglia che potrebbe anche non avvenire proprio per l'insicurezza che potrebbe spingere gli inglesi a non proseguire la propria marcia verso il campo di battaglia, insomma, quel re, pronuncia il famoso discorso del giorno di San Crispino davanti ai suoi soldati. L'alba successiva si tiene la battaglia di Azincourt. Gli inglesi vincono. Ma ad aver portato la battaglia, ad averla resa possibile, sono state le parole di Enrico che Shakespeare ci riporta in poesia. Ecco, con la bellezza, la bellezza del discorso di San Crispino, Shakespeare-Enrico parla a uomini che la stanchezza ha ormai trasformato in singoli, preoccupati delle loro schiene dolenti e delle loro gambe pesanti. Il re poeta accende con le sue parole la stella che ogni soldato porta dentro di sé e la trasforma in una cosmologia, riporta i singoli John, James, George, Henry, ad essere il glorioso esercito britannico e di più, come dice lui "a band of brothers". E sono loro, non Enrico, loro, i soldati a fare le mosse giuste sul campo e a sbaragliare i francesi che partivano in rapporto di cinque contro uno. Ma senza la poesia, senza quel discorso, non ci sarebbe stata battaglia, non ci sarebbe stata vittoria.

Gianni Vattimo, nelle Gifford Lectures del 2010, proponeva una sua idea di verità come "evento dell'Essere sempre caratterizzato dal conflitto" e un conseguente programma etico di dissoluzione della realtà, finalizzato a superare la violenza insita in ogni pretesa di oggettività. Dal momento che sembri condividere l'idea di una dimensione conflittuale della contemporaneità, ti senti più vicino al pensiero conciliativo dell'ermeneutica o alla prospettiva di un nuovo realismo ontologico? Come si armonizza la visione post-apocalittica della figura dell'artista (si veda il tuo recente scritto Ritratto dell'artista dopo l'Apocalisse per Artribune), basata in un certo senso su un'estetica ancora fortemente postmodernista e su riferimenti culturali che spaziano da Quentin Tarantino a Werner Schwab, con l'ansia di riscoprire e di ricostruire un fondamento identitario che restituisca senso all'operare artistico, politico e sociale?
Mi fai una domanda molto complessa. È una domanda che vorrebbe farmi arrivare alle conclusioni mentre sono ancora al prologo. Sono felice di non saper rispondere. Se sapessi farlo, vorrebbe dire che il mio percorso personale e quello che sto facendo in seno alla mia generazione sarebbero falsi, sarebbero simulazioni a partire da una consapevolezza prestabilita e quindi non conquistata o per lo meno non da me, da noi. La prospettiva dell'ermeneutica e quella di un realismo ontologico si coniugano perfettamente nella prassi. Abitare il proprio cammino è il dispositivo che sta alla base di una dialettica complessa, ma integrale. I due tempi di cui tu parli, quello che appartiene alla figura post-apocalittica che ho descritto in una delle mie "riflessioni esoteriche per la ricostruzione di un'identità", che poi è appunto quella dell'artista dopo il postmodernismo, e quello della ricostruzione, sono consecutivi. O almeno dovrebbero esserlo. Il mio ragionamento in quel testo che citi, nasceva dalla definizione di una fotografia attuale da cui partire. Lo scenario e il soggetto. Definire entrambi è la prima cosa da fare. E continuare a farlo finché non siano realmente chiari. Poi però bisogna essere consapevoli che quello è uno scenario in movimento e quindi possiamo, per certi versi, anche interpretare i progressi e tentare di indovinare il successivo, di compiere delle proiezioni. E la mia lettura tende a vedere nel futuro immediato, un futuro che è già in atto nelle premesse, la ricostruzione di un concetto di comunità, che è la struttura basilare della società. Non si può ricominciare ad avere un'Italia culturale se non c'è una comunità culturale. Bisogna espandersi come fanno le onde di una goccia che costantemente cade in uno specchio d'acqua. Si generano cerchi concentrici in cui ognuno spinge più in là il precedente. Ma bisogna partire dal primo, dal più piccolo. Dalla comunità degli artisti. Bisogna che essa torni ad essere vitale al punto da trascinarsi dentro altre comunità prossime, come quelle degli amanti dell'arte, degli studenti: se infiammeremo quei gangli, allora essi espanderanno quella vitalità in tutto il corpo dello Stato. Così si costruisce una società della bellezza. Non facendo grandi opere di arte pubblica, ma parlando, accendendo l'interesse. E quando qualcosa accende il tuo interesse, per tornare alla tua domanda, diventa tuo, tua identità. Puoi immaginare qualcosa di più politico?

Come si colloca, all'interno dell'architettura concettuale della tua ricerca, che si dispiega spesso in ampi cicli tematici, il progetto Sette Stagioni dello Spirito, al quale stai attualmente lavorando?
Finisco per doverti dare la stessa risposta di prima. Se lo sapessi, non ci sarebbe bisogno di farlo. Sette Stagioni dello Spirito è una ricerca che mi è necessaria. Se voglio procedere verso la conoscenza dell'uomo devo crearmi delle occasioni. Così è questo progetto come lo sono gli altri conclusi o quelli ancora in corso. Volevo affrontare il tema dei limiti del bene e del male nell'uomo, un concetto talmente grande che non posso avere la pretesa di risolvere. Ma posso cercare di abitarlo. Tentare un primo attraversamento. E così è iniziato questo progetto. Per studiare l'uomo devo incontrare uomini, devo vivere le città che sono gli spazi per eccellenza creati dall'uomo. E tanto largo era l'ambito della mia ricerca, tanto grande (non per estensione, ma per identità) doveva essere la città in cui poter trovare gli elementi che cercavo e che immaginavo fossero disseminati fino agli estremi. Non era quindi una città estrema che cercavo, ma una città dallo spettro talmente ampio, da contenere gli estremi. Napoli è quella città. Mi ci ha portato Curzio Malaparte, un altro compagno post-apocalittico. E così ho iniziato dal suolo, dalla strada. Ho camminato per mesi lungo le strade che scendono al porto, salgono sulle colline, finché le finestre dei bassi non mi sono diventate familiari, finché la galassia di mondi che si aprono dietro ogni porta mi fosse nota. Adesso so chi abita dietro ogni tenda, conosco i suoni, le voci, di ogni strada. E in questo peregrinare ho iniziato a trovare i luoghi in cui creare un polo magnetico, un punto da cui poter riuscire a trovare l'armonia di intere sinfonie che sono la voce di alcune comunità. Finché non trovi quel punto, è come camminare nel mezzo di un'orchestra che suona. Tutto sembrerà distorto, imperfetto, a seconda di dove ci si mette. Ma c'è un punto in cui ogni suono giunge con la giusta intensità e il magma di accordi squilibrati rivela la sua costruzione perfetta. È il punto in cui di solito sale il direttore. Che sovente non è l'autore della musica, ma è solo qualcuno che cerca di "servire" quella musica, magari aiutando l'orchestra a gestire meglio i suoi equilibri, a bilanciare i suoi ritmi, in modo che la sinfonia riesca ad emergere limpida e a consentire a chi l'ascolta di conoscerla. Ecco, questo sono le mie sette tappe. Momenti in cui cerco di chiedere disperatamente chiarezza ad un ensemble umano, facendo il più possibile per aiutarlo a raggiugerla. Ed allora, se accade, io per primo conosco la voce di quella comunità umana e il suo segreto, io che sto in piedi sul limite della buca dell'orchestra e che ho dietro di me il golfo mistico di un'intera città, un paese, invisibile, perché al buio, ma attento sempre e comunque presente. Con quella platea io condivido la conoscenza che sono andato a cercare e che mi viene donata.
Questa meccanica appartiene a tutta la mia ricerca, ma in Sette Stagioni dello Spirito diventa estrema a sua volta. Ho smontato la struttura, tutte le protezioni. Ho rotto ogni protocollo. Sono andato per strada per davvero. E non importa che magari a sostenermi dandomi i soldi e l'incoraggiamento per costruire le opere, per comprare i materiali, siano fondazioni, musei, istituzioni. Anche a loro ho fatto saltare tutti i protocolli. Mi stanno dietro per miracolo. E di questo si tratta, perché ci sono persone che pur di seguirmi al di fuori di ogni griglia prestabilita, stanno facendo miracoli.
Dunque questo progetto è una conseguenza inevitabile di un cammino iniziato nove anni fa, quando ho cominciato a fare questo mestiere. Prima ho cercato l'artista che era in me. Poi ho cercato il mondo dell'arte con cui confrontarmi. E adesso vado in cerca del mondo vero, perché è a quello che l'arte si rivolge. E lo cerco per strada. Perché se voglio capire la vita la devo andare a cercare nei luoghi della vita.
Una volta, un altro artista, Alessandro Bulgini, in un periodo in cui tra noi non correva buon sangue, ebbe la serietà di venire a vedere una mia mostra. La prima mostra veramente importante che ho fatto. E mi disse: "Bene, adesso hai dimostrato di sapere la lezione alla perfezione. E ora che farai? Continuerai a ripeterla comodamente – perché in fondo è quello che gli altri ti chiederanno – o ti metterai in pericolo di vita di nuovo per muovere il primo passo nelle regioni in cui non c'è più una lezione già scritta, e così tu dovrai scriverla e impararla al contempo?". Ecco, quelle parole, da allora, mi sono state maestre. Questo progetto porta alle estreme conseguenze il mio essere artista. Ma sarebbe sbagliato dire che quelli precedenti non abbiano fatto lo stesso. Ogni passo successivo, però, deve sfondare l'estrema conseguenza del precedente. Essere un nuovo punto limite.
Quando sono arrivato a Napoli non avevo niente. Né un'idea, né una preparazione iniziale sul progetto stesso o sulla città. Di tutti i partner che ora ho, ce ne era solo uno, la Fondazione Morra, a cui dissi solo che sarei stato lì per due anni e avrei fatto sette opere di cui non avrei saputo nulla finché non le avessi iniziate e forse finite. Venivo a cercare qualcosa che non conoscevo, dunque non avevo niente da dichiarare prima, se non un intento e un metodo tutto da inventare.
Ecco. Questa è l'arte che ho in mente, un percorso di verità che non può conoscere maniera, gusto, estetica. È un corpo a corpo con la realtà. Come la guerra di cui abbiamo parlato. Il mio lavoro a Napoli sta cambiando degli equilibri. Modifica il modo che hanno alcune comunità di vivere il proprio ambiente, porta le istituzioni a recuperare dei patrimoni che prima erano in abbandono ed esposti al degrado. Tutti questi sono effetti collaterali, ma se guardi bene, sono la sostanza. Tutto questo, quando stai nella galleria, nel museo, nell'istituzione, è molto più difficile da fare. Ecco perché bisogna sfondare tutto, sfondare i muri di queste scatole e mischiarsi con la gente, scendere dai piedistalli, perché ormai è tanto tempo che più nessuno guarda verso l'alto. Però attenzione a non trasformarci in operatori sociali, a non mettere "la pratica prima dell'opera" o peggio, di credere che la pratica sia opera. Tutte queste trasformazioni devono essere una conseguenza del fare arte, devono essere conseguenze di un'opera che non deve mai cedere la sua purezza assoluta. Nessun percorso di "arte partecipativa" è più coinvolgente della Chambre à coucher di Van Gogh. Niente è più partecipativo del nostro tornare, quando siamo soli, con la mente, a quell'opera, quando ci sentiamo deboli, miserabili, vulnerabili. E tornando a quell'opera ci sentiamo fratelli di tutti quelli che a quell'opera tornano. La forza dell'opera è l'unica cosa che rende l'arte davvero partecipativa. Partecipativa è la verità da cui quella bellezza nasce. L'artista deve impararla e poi restituirla con l'opera. E più alta e pura (come un diamante) sarà l'opera più l'artista avrà ripagato l'investimento che una comunità ha fatto su di lui condividendo la ricchezza della propria verità.
In conclusione, Sette Stagioni dello Spirito mi sta facendo combattere sul campo la guerra di cui parlavamo prima. Ed è lì che bisogna andare, sul campo, equilibrando purezza dell'opera e verità della vita. Altrimenti siamo come capitani che se ne stanno nelle caserme a giocare a scacchi, simulando strategie perfette e inutili, o meglio, perfettamente inutili, mentre fuori qualcun altro sta mettendo a ferro e fuoco le strade, impoverendole. Usciamo in strada. È ora. Ecco come si colloca Sette Stagioni dello Spirito nell'architettura concettuale della mia ricerca. Ma anche questo l'ho imparato facendo. L'ho imparato stando fuori. Per strada. Esposto a tutti i venti. Dal prossimo progetto, imparerò che cosa viene dopo questa guerra civile. Se c'è la ricostruzione, bisognerà imparare a costruire.


Gian Maria Tosatti (Roma, 16/04/1980) è un artista visivo, fondatore e direttore dello studio Hôtel de la Lune. Dopo gli studi e un'attività di ricerca nel campo performativo, presso il Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera, Tosatti si trasferisce a Roma per intraprendere un percorso artistico nel territorio di connessione tra architettura e arti visive realizzando principalmente grandi installazioni site specific. Sono frutto di questa ricerca tutte le opere successive, installative, oltre ai due progetti: Devozioni e Landscapes, realizzati in collaborazione con la Fondazione Volume! Il primo è un ciclo di dieci grandi installazioni per spazi architettonici particolari, il secondo è un percorso di arte pubblica legato ai luoghi di conflitto urbano. Attualmente la ricerca dell'artista è legata a due nuovi progetti, Fondamenta, basato sull'identificazione degli archetipi dell'era contemporanea, e Le considerazioni sugli intenti della mia prima comunione restano lettera morta, ciclo dedicato agli enigmi che risiedono nella memoria personale e alle tracce che gli uomini lasciano alle loro spalle. All'interno del ciclo Fondamenta ha realizzato, con la collaborazione del National Park Service of the United States, il progetto I've already been here: due installazioni ambientali che occupano due edifici di proprietà del Governo americano a New York, diventate opere permanenti. Tra il 2013 e il 2015 Tosatti lavorerà al progetto Sette Stagioni dello Spirito, creando sette grandi installazioni ambientali in sette edifici della città di Napoli col supporto della Fondazione Morra e del Museo Madre.

Per approfondire:
tosatti.org