lunedì 13 maggio 2013

Tre domande a Sergio Lombardo

A partire dagli anni Ottanta la sua ricerca artistica, prima con la pittura stocastica e poi con le Mappe, è fondata su un approccio scientifico. Ogni elemento, nelle sue opere, è definito con perizia matematica: le proporzioni fra i colori, la continuità e la discontinuità fra linee rette e curve, il grado di ordine e disordine, la luminosità delle tinte. La complessità delle strutture da lei elaborate persegue valori estetici irraggiungibili in modo ingenuo. Dal suo punto di vista ogni decisione formale o cromatica deve essere sottoposta a prova sperimentale e rispondere a complesse leggi di ottimizzazione? Il Surrealismo e l'Informale sono definitivamente superati?
Preliminarmente vorrei puntualizzare che l'approccio scientifico ha caratterizzato il mio lavoro fin dall'inizio. E infatti proprio il mio scetticismo sul metodo arbitrario dei "poeti" mi ha portato a creare degli "stimoli", come i Monocromi del 1958-61, per mezzo dei quali cercavo di provocare il pubblico, e in particolare i critici d'arte, a chiarire con una risposta certa ciò che fosse arte e ciò che non lo fosse. I Monocromi escludevano alla radice ogni possibilità di essere arte in senso "poetico" e quindi si proponevano come arte, anche se in negativo e per assurdo, solo in senso "scientifico".
Questo intento programmatico, che non ho mai più tradito, mi impedisce di eseguire scelte arbitrarie o di gusto, atteggiamento che ho chiamato "astinenza espressiva dell'artista". Le scelte arbitrarie, invece, cerco di stimolarle nel pubblico. La pittura stocastica, infatti, induce il pubblico a "scegliere" inconsciamente contenuti percettivi instabili da attribuire ai miei stimoli visivi senza senso.
Il Surrealismo e l'Informale hanno seguito un metodo di ricerca diametralmente opposto al mio, perché hanno accanitamente perseguito l'espressività arbitraria dell'artista. All'interno delle avanguardie storiche il Futurismo e il Surrealismo sono correnti antitetiche. La figura dell'"ingegnere" in quanto scienziato è idealizzata nell'estetica futurista, in contrasto e polemica con l'estetica surrealista che, al contrario, idealizzava il "pazzo" credendolo più "spontaneo". Sulla scorta di un mal compreso Freud, il surrealista Breton equiparava il pazzo, o anche il paziente sottoposto alla "regola fondamentale" in psicoanalisi freudiana, direttamente al poeta. Lo stesso Freud, tuttavia, negò l'equivalenza "paziente=poeta" proposta da Breton, dicendo a Dalì che nel Surrealismo, seppure vi si potesse riconoscere "l'inconscio", tuttavia non si trovava alcun indizio di "coscienza". Nella psicologia dell'arte freudiana il valore dell'analisi, similmente al valore poetico dell'artista, consiste nel rendere fruibili i contenuti dell'inconscio anche a livello di coscienza per mezzo dell'"interpretazione" o per mezzo della "sublimazione". Per l'ingegnere futurista, che costruisce aerei e macchine da corsa "più belle della Vittoria di Samotracia [...] La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo" (Filippo Tommaso Marinetti, Fondazione e Manifesto del Futurismo, Le Figaro, 1909).
La via surrealista fu portata alle estreme conseguenze attraverso l'esperienza artistica dell'americano Jackson Pollock, il quale, lanciatosi alla ricerca delle radici inconsce del poeta spontaneo, andò talmente all'indietro nella scala evolutiva da trovarsi la strada sbarrata dalla scimmia, dal bambino, dal pazzo e dall'allucinato, indubbiamente più "spontanei" di lui.
La via futurista ha portato all'esplorazione del Cosmo, ai Satelliti Artificiali, alle Navi Spaziali, all'ingegneria dei sistemi complessi, all'invenzione del Web, del Computer, del calcolo dei processi stocastici, a movimenti artistici come Pop Art, Concettualismo, Installazione, Performance, Happening, Eventualismo (Sergio Lombardo, L'irruzione della realtà nell'arte e nella psicoanalisi, Rivista di Psicologia dell'Arte, n. 8, 1997).

Durante l'inaugurazione della sua recentissima mostra presso l'Officina Solare di Termoli (CB), presentando le sue nuove composizioni automatiche di pavimenti stocastici, ha affermato: "A volte mi chiedono, probabilmente a causa della razionalità stringente del mio lavoro, se io sia un appassionato giocatore di scacchi. Rispondo sempre che, invece, amo giocare a dadi". Anche nel metodo più rigoroso permane un elemento di irrazionalità, che sfugge al controllo dell'artista, il quale deve fare i conti con l'aleatorietà degli eventi. Qual è il ruolo del caso nei processi creativi?
La psicologia della creatività divide il processo creativo in due fasi contrapposte: la fase della produzione di risposte originali in assenza di critica (che ricorda il metodo surrealista o la "regola fondamentale" di Freud) e la fase della selezione della risposta più adatta (che ricorda l'interpretazione psicoanalitica e la sublimazione). Gli evoluzionisti sostengono che la natura usa un metodo anch'esso in due fasi contrapposte: la produzione di errori casuali e la selezione del più adatto (c'è evoluzione quando un errore risulta per caso più adatto degli eventi senza errori).
Le macchine creative hanno un'Intelligenza Artificiale che genera risposte casuali attraverso i numeri random, servendosi di procedure stocastiche, per poi selezionare fra tutte le risposte ottenute quella in grado di risolvere il problema. All'interno dell'Intelligenza Artificiale si pone il seguente problema: come velocizzare la procedura e rendere più intelligente il sistema? Si può trovare una procedura di randomizzazione in cui il caso risolutivo è anche quello più frequente? Questo problema equivale alla Teoria della Complessità ed è identico al problema psicologico di chi scommette al gioco dei dadi nel momento in cui sta per fare un lancio.

Attività artistica e ricerca teorica e sperimentale pura sono i due versanti del suo operare, inscindibili e da sempre coltivati con instancabile dedizione. Quali sono stati i traguardi scientifici più rilevanti raggiunti in più di trent'anni di attività con il Centro Studi Jartrakor e attraverso la pubblicazione della Rivista di Psicologia dell'Arte?
Lei mi chiede di svelare l'assassino del romanzo giallo per evitare di leggerlo. La risposta è contenuta nell'ultima mostra in cui sono state esposte delle nuove procedure automatiche per la composizione di pavimenti stocastici.


Sergio Lombardo è nato a Roma nel 1939. Dopo gli studi classici e di giurisprudenza si è dedicato alla ricerca artistica e alla psicologia sperimentale dell'estetica. Come artista ha fatto parte dell'avanguardia storica internazionale e della Scuola Romana degli anni Sessanta. È fondatore della Teoria Eventualista, da cui è nato un movimento artistico e teorico basato su metodi sperimentali. Il suo lavoro artistico è caratterizzato da programmatica discontinuità e può essere raggruppato in periodi o cicli ben distinti: Monocromi (1958-1961); Gesti Tipici (1961-1963); Uomini Politici Colorati (1963-1964); Supercomponibili (1965-1968); Sfera con sirena (1968-1969); Progetti di Morte per Avvelenamento (1970-1971); Concerti di Arte Aleatoria (1971-1975); Specchio Tachistoscopico con Stimolazione a Sognare (1979); Pittura Stocastica (1980-2013); Pavimenti Stocastici (1995); Mappe (1996-2002).
Dal 1977 è Direttore del Centro Studi Jartrakor, che svolge attività di ricerca sperimentale sulla Psicologia dell'Arte. In questa veste collabora con le più importanti cattedre universitarie e con i musei di tutto il mondo. Dal 1979 è Direttore della Rivista di Psicologia dell'Arte. Dal 1982 è professore presso l'Accademia di Belle Arti di Roma nell'insegnamento di Teoria della Percezione e Psicologia della Forma. Dal 1985 è membro dell'Associazione Internazionale di Estetica Empirica. Nel 1995 gli è stata conferita la nomina di Accademico dell'Università Internazionale di Mosca.
Ha esposto presso il Museo Nazionale d'Arte Moderna di Tokyo (1967), il Jewish Museum di New York (1968), il Centre Georges Pompidou di Parigi (1969, 1995), i musei di Mosca, San Pietroburgo, Varsavia, Stoccolma, Johannesburg. Nel 1970 ha ottenuto una sala personale al Padiglione Centrale della Biennale di Venezia. Nel 1995 ha allestito una retrospettiva presso il Museo d'Arte Contemporanea dell'Università di Roma "La Sapienza".

Per approfondire:

mercoledì 1 maggio 2013

Appunti sul cinema sperimentale italiano

La nascita del cinema sotterraneo nel nostro paese è strettamente collegata alla diffusione del New American Cinema in Italia, e ai viaggi d'esplorazione negli Stati Uniti di alcuni tra i nostri più importanti cineasti indipendenti. I registi americani riuniti, a partire dal 1962, nella Film-Makers' Cooperative devono molto all'avanguardia europea e al cinema dadaista e surrealista, ma nello stesso tempo sono soggetti alla profonda influenza del contesto culturale in cui si trovano a vivere, che introduce nelle loro opere elementi formali di chiara derivazione postmoderna. La rivisitazione ironica del kitsch e della cultura commerciale, pubblicitaria e televisiva, o il gusto camp per lo stravagante, ad esempio, sono reazioni sintomatiche, rivelatrici del clima di evanescenza della modernità. Essi condividono uno stato d'animo che ha radici nella sfera morale più che in quella estetica: come i loro colleghi italiani si battono contro il cinema ufficiale naturalmente corrotto, tematicamente superficiale ed esteticamente obsoleto. Le prime apparizioni del New American Cinema in Italia risalgono al biennio 1964-1965, presso alcuni festival a Spoleto e a Rapallo; la prima grande retrospettiva si tiene a Pesaro nel giugno del 1967. In quell'occasione sono finalmente proiettate, per la prima volta, le opere di autori come Andy Warhol, Kenneth Anger, Stan Brakhage, Gregory Markopoulos, commentate da Jonas Mekas, il profeta dell'underground statunitense. Lo shock benefico causato dalla Mostra di Pesaro, riproposta poco dopo anche a Roma, è determinante per il decollo del cinema sperimentale italiano, non solo perché agisce come stimolo diretto su diversi artisti, incoraggiati a realizzare le loro prime pellicole, ma anche per il modello offerto dalla Film-Makers' Cooperative americana, illuminante per i nostri registi, i quali seguono l'esempio riunendosi in un'unica, compatta struttura distributiva. Così, sempre nel 1967, nasce la C.C.I. (Cooperativa del Cinema Indipendente), un gruppo informale il cui scopo è quello di mantenere i contatti tra i vari film-maker italiani: la costituzione ufficiale e la registrazione avvengono a Napoli, per iniziativa dei fratelli Vergine, ed il numero degli associati inizia immediatamente ad aumentare, grazie all'opera instancabile di Gianfranco Baruchello, il più grande animatore, oltre che uno dei maggiori esponenti, dell'associazione. Lo stesso Baruchello, meno di tre anni prima, era stato, insieme ad Alberto Grifi, l'autore del film da molti considerato il capostipite del cinema di ricerca italiano: Verifica incerta. I due artisti erano entrati in possesso di circa 150.000 metri lineari di pellicola usata, destinata al macero per il recupero industriale di cloruro di polivinile, che conteneva sequenze e inquadrature scartate nell'ambito di precedenti produzioni commerciali hollywoodiane. Baruchello e Grifi mettono in atto un'operazione creativa senza precedenti: l'impianto concettuale dal quale il film prende vita espande l'ambito funzionale del montaggio dalla semplice scansione del ritmo alla dimensione semantica. Si compie una destrutturazione della sintassi del linguaggio audiovisivo: smontando e rimontando insieme una serie di fotogrammi il film si auto-costruisce in maniera spontanea, non scaturisce da una sceneggiatura, ma dalla riorganizzazione di materiale di scarto. Verifica incerta è uno tra i primi esperimenti di found footage  in Italia; circa tre quarti d'ora di immagini e suoni rubati al cinema di consumo e mescolati tra loro in modo da disintegrare tutti i meccanismi su cui si fonda la produzione di pellicole commerciali. L'intento critico dell'operazione è manifesto: lo scopo è quello di spiazzare lo spettatore attraverso la rottura della sequenzialità, quindi del sistema di aspettative. Porte che si aprono, che si chiudono, e che si riaprono, senza che nessuno appaia, deludono le attese del pubblico, abituato, per una convenzione del linguaggio cinematografico, a vedere qualcuno affacciarsi all'uscio nel momento in cui viene inquadrata una porta che si spalanca. A metà tra il decostruzionismo e l'oltraggio dadaista, il film, per mezzo della disintegrazione del codice, effettua un rovesciamento nel rapporto tra l'opera e i suoi fruitori: mentre il prodotto culturale di consumo è modellato sulla massa, fa in modo di adattarsi perfettamente ai suoi bisogni, qui l'audience è provocata, sconvolta, spiazzata. Inutile insistere sulla lampante derivazione avanguardista di Verifica incerta, ispirata e dedicata, tra l'altro, all'artista Marcel Duchamp. L'insofferenza ed il diniego presenti nella prima produzione di rilievo del cinema sperimentale italiano restano una costante nei lavori della maggior parte dei registi underground del nostro paese, che condividono lo stesso ideale dell'arte come comunicazione della negazione della comunicazione esistente. L'assenza di struttura, l'eliminazione della convenzione narrativa, l'abolizione della storia e del protagonista, ritornano nelle pellicole di Alfredo Leonardi, personaggio di spicco nella cooperativa, non solo per la sua attività di realizzatore ma anche per le sue lucide elaborazioni teoriche (qualcuno ha voluto vedere in lui una sorta di Mekas italiano). Nei suoi film le immagini scorrono velocemente, concatenandosi attraverso associazioni visuali e non più logiche, come in Amore, amore, lungometraggio presentato a Pesaro nel 1967, collage policentrico basato sull'interazione e sul contrasto, in cui si alternano scene di immobilità e di frenetico movimento, fotogrammi in bianco e nero e a colori, riprese di conversazioni casalinghe e di scorci urbani, improvvisazioni musicali e vetrine alla moda. Il limite di molta cinematografia sotterranea italiana è quello di non riuscire ad andare oltre il rifiuto sterile delle convenzioni hollywoodiane, chiudendosi in un misantropico isolamento: pochi autori portano la sperimentazione linguistica ad un livello propositivo, senza limitarsi allo smantellamento dei sistemi simbolici, ma fondando un discorso nuovo e diverso. Tra questi l'eclettico Mario Schifano, che gira, tra il 1968 e il 1969, dopo un fruttuoso soggiorno negli Stati Uniti, a contatto con i più grandi esponenti della pop art americana, la trilogia costituita da Satellite, Umano non umano e Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani. Nel primo episodio della sua trilogia, Schifano non sfugge ancora alla contraddizione di fondo dell'utopia sperimentalistica (l'illusione di poter sopprimere completamente il senso prestabilito associato alle immagini): lo schermo si suddivide in tanti piccoli riquadri, all'interno dei quali le figure, del tutto autonome ed indifferenti l'una all'altra, risultano difficilmente decodificabili, al limite dell'incomprensibilità. Satellite, con il suo compiaciuto soggettivismo, in un malinconico sforzo regressivo, compie un'acuta riflessione sul cinema com'è e come potrebbe essere, giungendo in conclusione al rifiuto e alla sfiducia frontale nei confronti degli itinerari cinematografici già percorsi; ma nel contempo guarda con curioso ottimismo ai tragitti ancora inesplorati, per avventurarsi nei quali è necessario un ripensamento radicale dei sistemi espressivi. Con il successivo Umano non umano, Schifano mostra di aver agevolmente evitato il pericolo dell'introversione paralizzante: la sua non è una fuga verso il nulla, il rigetto scaturisce dal confronto, dall'immersione nella realtà. Al non umano della cultura occidentale, con la sua banalità, il suo grigiore quotidiano, la futilità dei suoi problemi, si contrappone l'umano della lotta, della rivolta, simbolizzato dalle immagini della resistenza vietnamita o della rivoluzione cinese. Filtrata dai media, dalla televisione, la rappresentazione dei contesti in cui si scrive la storia versando sangue risulta incerta e traballante: le guerre, le ribellioni appaiono distanti, remote ed inafferrabili per un pubblico perso nelle chiacchiere, nei riti e nei miti della mondanità borghese. La giustapposizione dei due scenari di vita, oltre ad essere una provocazione mirata a smantellare l'apparato condizionante dell'industria culturale, pone le premesse per una presa di coscienza: mostrate in tutta la loro crudezza, le riprese dei conflitti in Vietnam o in Cina, svelano la vacuità della condotta esistenziale delle masse occidentali, ipocritamente rinchiuse nel loro piccolo mondo fatto di schermi e di vane parole. La trilogia si conclude con il postsessantottesco Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani che, insolitamente per un film sperimentale, contempla la figura di un protagonista, una sorta di mediatore in grado di catalizzare un confuso insieme di impressioni e sensazioni. Lo sguardo soggettivo sul mondo non è sinonimo di introversione impotente: nello Schifano della fine degli anni Sessanta si coglie una nota di fiducia nel futuro, di speranza in una lontana ma concreta utopia. Significativo è il fatto che, in Italia come già era successo negli Stati Uniti, parecchi autori di film indipendenti, un buon numero anche all'interno della cooperativa, siano artisti visivi: sovente si incontra la definizione cinema dei pittori o cinema d'artista per indicare le opere dello stesso Schifano, ma anche di Ugo Nespolo, di Paolo Gioli e di Franco Angeli. D'altronde la pop art e il cinema underground affondano le radici nello stesso background sociale fatto di consumismo e omologazione; il loro sviluppo e la loro diffusione si intrecciano con le modificazioni antropologiche che si accompagnano alla transizione verso la postmodernità. L'arte pop è arte urbana, che nasce nelle grandi metropoli americane, frutto di una cultura dominata dall'immagine (in un'epoca in cui le principali fonti di immagini sono i mass-media) e che si limita a riciclare in maniera spesso fredda e impersonale i simboli della società di massa, trasformandoli in icone. Se da un lato la casualità e l'indifferenza nella scelta dei soggetti, sommata alla scarsa considerazione per le qualità estetiche e formali degli stessi, avvicina la pop art al dadaismo e all'avanguardia; dall'altro la sofisticata vena sarcastica, che vuole essere semplicemente dissacratoria, più che risolversi in aperta denuncia, la rende a pieno titolo espressione tipica della coscienza surmoderna. Estraniato, cinico e un po' vacuo, l'artista pop si arrende di fronte all'ingombrante pervasività dei nuovi media, sembra naufragare compiaciuto nella profusione di immagini stereotipate, eppure con le sue opere non fa altro che sottolineare la banalità degli oggetti di uso quotidiano e la spersonalizzazione della società contemporanea. L'avventura del cinema indipendente italiano continua, tra esperimenti collettivi (Tutto, tutto nello stesso istante, film realizzato tra il 1968 e il 1969 da ben dodici registi della C.C.I., per la precisione Bacigalupo, Bargellini, Baruchello, Chessa, De Bernardi, Epremian, Leonardi, Lombardi, Meader, Mencio, Turi, Vergine, allo scopo di verificare l'esistenza di una sintonia all'interno del gruppo), frenesie annientatrici (Costretto a scomparire, cortometraggio del 1968 in cui Baruchello si lascia riprendere da una telecamera fissa mentre fa scempio di un tacchino congelato di produzione americana; la colonna sonora è composta da marce militari e inni della patria) e prolissi ritratti (Anna, del 1962, di Alberto Grifi, videotape della durata di undici ore, che racconta la storia di una giovane ragazza hippy) fino all'inizio degli anni Settanta. Qualche autore continua a girare anche nei decenni successivi, magari cambiando genere o scendendo a compromessi con le esigenze di mercato, ma lo spirito autentico della cinematografia sotterranea si estingue con l'esaurirsi della carica contestataria dei movimenti controculturali degli anni Sessanta. Venuta meno questa tensione ideale, si assiste, nel corso degli anni, ad una sorta di rilassamento, che coincide con la scomparsa delle istanze avanguardiste. La postmodernità forse non ricorre ai tradizionali metodi di protesta per manifestare il suo dissenso, ma sperimenta nuovi e più disincantati atteggiamenti critici. La fase di transizione tra l'epoca moderna e la surmodernità fa combaciare la radicalizzazione di alcuni fenomeni di tipo socio-antropologico con l'inasprimento del contrasto tra l'avanguardia e la massa conforme, generando un singolare fermento creativo. Per questo motivo gli anni Sessanta corrispondono con il momento di massima vitalità della controcultura e sono contemporaneamente il preludio di un cambiamento radicale nelle strutture del pensiero non allineato.