lunedì 18 maggio 2015

Tre domande ad Alessio Ancillai

La tua prima mostra personale presso la galleria Pio Monti, dal titolo Umano Specie-Specifico (Luce e Sangue), ruota intorno alla ricerca di quali siano le caratteristiche che contraddistinguono l'essere umano come tale. In particolare, nei tuoi lavori, sembri voler rappresentare la fusione tra l'elemento fisico e quello psichico, dalla quale nasce il pensiero umano. Quanto hanno contribuito gli studi universitari in Medicina ad indirizzare i tuoi interessi verso simili tematiche?
Sono stati sicuramente importantissimi. Sin dall'adolescenza mi divertivo a disegnare, dipingere e scrivere, ma allo stesso tempo mi incuriosiva il funzionamento del corpo umano, ero affascinato da questi meccanismi complessi e perfetti, che però potevano incepparsi e così, decisi di intraprendere gli studi universitari di Medicina. La passione per la scienza umana però rimaneva in me sempre legata alle immagini, che emergevano in maniera forte stimolate proprio dagli studi che di volta in volta approcciavo: le formule di biochimica mi suggerivano forme geometriche che disegnavo sugli appunti, la fisiologia mi suggeriva poesie per una collega che mi piaceva e il legame tra corpo e mente mi affascinava, mi chiedevo da dove venivano le immagini e cosa succedeva quando si perdevano. Così cominciai a seguire, sempre in ambito universitario, convegni ed incontri sul tema e cominciai a lavorare come tutor presso una Comunità terapeutica psichiatrica dell'Asl Rm/D, dove rimasi fino a che non decisi definitivamente di dedicarmi totalmente all'arte, cioè dal 2005, quando ho capito che non mi interessava effettivamente acquisire la professione medica. Ho comunque continuato sempre a studiare il tema "essere umano", oltre che con studi strettamente scientifici, anche con letture di linguistica, storia dell'arte e filosofia, per rimanere aggiornato sugli sviluppi d'avanguardia in materia di scienza umana ed origine del pensiero umano. Così ho appreso delle scoperte ed elaborazioni che mostrano come l'origine della visione sia data dall'incontro del fotone con la rètina e che questo incontro tra la materia (la sostanza cerebrale) e la non materia (la luce) dia origine alle immagini mentali e dunque, al pensiero umano; per cui la fisiologia umana è data dalla fusione tra il fisico e lo psichico e non dalla scissione tra questi elementi. Dunque, per risponderti, certamente lo studio dei meccanismi biologici e psichici di formazione e sviluppo del pensiero umano ha stimolato la scelta del tema che ho proposto nella mostra. Poi, la rappresentazione in ambito artistico segue ovviamente vie più "libere" e di ricerca del processo creativo che rappresenti in maniera inconsapevole e personale quanto appreso e vissuto. Partendo da questa fusione "ontologica", ho cercato cosa succedeva artisticamente nell'incontro tra i due elementi (materia e non materia), che immagine ne scaturiva e come era possibile cercare il "movimento" interno dell'immagine: non mi interessa il visibile, il percepito o percepibile, ma l'invisibile dell'essere umano e delle sue immagini. Ho cercato quindi anche di dire di una luce che fosse "diversa", cioè che non illumina (come racconto nella poesia, cantata con un gioco tra noi dallo stesso gallerista, Nicola Monti) ma che appunto crea l'immagine nell'incontro con la tela, il tessuto ed il colore e quindi ho scelto una luce nuova, il LED che come si legge nel testo critico in catalogo di Angelo Capasso, "non risponde alla scelta di preporre un aggiornamento dell'arte, una nuova tecnologia; è invece il canale che dilata l'Opera oltre l'immagine, come atmosfera-aura-temperatura, in quanto colore-calore. Il LED presenta uno sfilacciamento temporaneo dell'Opera (che la fotografia iconizza e l'audio-video mantiene in movimento), dove risiede il bacino più ampio del senso"; e sicuramente una luce che non viene dall'"al di là".
La luce in mostra non è quella illuminista della ragione che "rischiara le menti" per una conoscenza della realtà materiale, né una luce trascendente che viene dall'alto, ma è il divenire alla luce, come creazione umana di immagini partendo dalla nascita, inizio del tempo umano, dallo stimolo luminoso sulla rètina e poi, dallo stimolo del vissuto.

Mike Watson, nella sua personale lettura critica dei tuoi lavori esposti da Pio Monti, sostiene che essi nascano da un particolare interesse per il lato irrazionale dell'esistenza, per i processi soggettivi che alimentano la creatività, per la natura viscerale del corpo umano. Eppure, da un punto di vista puramente formale, la precisione chirurgica nell'uso della linea, la sobrietà nella scelta del colore e il rigore nel trattamento delle superfici lasciano trasparire un'attitudine tutt'altro che espressionista. Probabilmente, la forza delle tue opere sta proprio nella capacità di sintesi e di composizione tra l'estetica minimalista e razionale (sottolineata dalla "luce") e l'anima vibrante di un'umanità concreta e carnale (evocata dal "sangue"). Avevi in mente una simile dinamica conciliativa quando hai ideato il sottotitolo per la mostra?
Mike Watson segue il mio lavoro da circa due anni e mi fa molto piacere che le nostre ricerche in diversi punti si incontrino; il passaggio che hai scelto è molto rappresentativo.
Certamente l'equilibrio e la sintesi sono quello a cui tendo; non tanto come "conciliazione" tra elementi contrapposti, ma come ricerca di cogliere l'interazione ed il dialogo tra gli elementi. Impressionismo, espressionismo, positivismo... Tutte ricerche affascinanti e fondamentali, ma si potrebbe anche pensare che le immagini artistiche nascano da un unicum corpo-mente sin dall'origine e pensare all'emergenza delle immagini come espressione della reazione del corpo umano allo stimolo esterno del rapporto o come memoria del rapporto. Quindi, quello che vorrei riuscire ad esprimere è questa unicità di corpo e mente, materia e non materia, razionale e non razionale. Il sottotitolo della mostra, Luce e Sangue, parla proprio dell'incontro tra la non materia e la materia umana, l'incontro del fotone, che non ha massa, e la sostanza cerebrale, tramite gli occhi (che fanno da tramite con la rètina, l'unica realtà direttamente collegata al cervello ed esposta all'esterno che, appunto, non si può toccare con niente, se non con lo stimolo luminoso).
Volendo aggiungere una riflessione, dico che in fase embrionale, uno dei tre foglietti germinativi detto "ectoderma" sarà quello che darà sviluppo sia al tessuto nervoso che agli organi di senso ed alla pelle: da qui si sono sviluppate ricerche su come è legato il sentire umano al corpo biologico. All'apparenza può sembrare un discorso freddo, scientifico e razionale, ma sempre di essere umano stiamo parlando. Cercando ovviamente di superare il riduzionismo biologico e l'idea positivista con la teoria degli umori, la proposta è quella di superare l'idea di dualismo platonico, cercando di passare per il "Ponte" e la "Tempesta" espressionista, senza però cadere nell'idea di caos originario, come spesso viene confuso l'irrazionale, quando non è confuso con il male o con l'animalità. Forse bisogna tendere a far incontrare il soggettivo con l'oggettivo e non per forza bisogna appositamente dipingere un volto blu o verde o essere aggressivi con le pennellate per avere una visione soggettiva della realtà e, soprattutto, bisogna andare oltre il mero comportamento e il rapporto uomo-natura e sottolineare la natura irrazionale umana non scissa dal corpo. Dunque, non mi spaventa la ricerca di un "rigore" estetico, perché non intendo il rigore come freddezza razionale o ricerca precostituita, ma come fermezza ed identità, quando è unito al "sentire" del corpo.
Ad esempio, forse proprio nella scelta dei colori e nel trattamento delle superfici, si può vedere questo rigore-non rigore. Le stratificazioni di colore le lascio colare seguendo il corpus della texture della tela, non cerco un disegno preciso, ma quello che esce fuori direi quasi per "volontà" della tela. Certamente prediligo l'andamento verso il basso delle colature, come a cercare sempre un rapporto con la realtà, perché penso che la fantasia nasca da giù, dal basso, dal rapporto con la realtà e non dall'alto, oppure da un pensiero che gira a vuoto su se stesso, astratto, altrimenti bisogna parlare di fantasticheria, che non c'entra nulla con la fantasia. La fantasticheria è scissione, proprio la scissione raccontata da questi ultimi 2500 anni di storia: io cerco la non scissione, ma non da un punto di vista di rigore razionale che "tiene" qualcosa che altrimenti sarebbe incontrollabile, piuttosto come tendenza naturale dell'essere umano. Come si muovono le mani quando cercano un colore piuttosto che un altro, oppure come le mani a volte accompagnano il pennello accarezzando la tela delicatamente come sulla pelle di una bella donna, questo non lo so. Non c'è mai un pensiero aprioristico, un calcolo o un disegno precostituito, c'è solo una vaga sensazione e un modo di essere, che si riflette nel movimento del corpo non a caso o istintuale, ma spontaneo. Nel lasciarsi andare, l'artista trova il linguaggio dell'identità che non può fare a meno del rapporto con ciò che non conosce, con il diverso da sé.
"Precisione chirurgica nell'uso della linea"... Mi piace questa definizione: la linea mi ricorda l'infinita successione di punti, è un pensiero chiaro, deciso... Una separazione da altro, ed è anche qualcosa che caratterizza l'essere umano; ho letto che l'immagine della linea è creata dall'essere umano. Il  fotone – quanto di luce – macroscopicamente si propaga linearmente. Quindi un nesso con la linea sicuramente c'è. Certamente la luce evoca la ragione, ma bisogna uscire fuori dall'idea che la luce rende solo visibili ed empiricamente dimostrabili i fatti materiali, che essi siano la vera e la sola capacità di realizzazione della realtà umana. La luce può anche simbolizzare la consapevolezza dell'esistenza di altro, non visibile e strettamente legato al corpo, che è la realtà non materiale dell'essere umano; non intesa però come "anima", ma come pensiero non razionale, per immagini, specifico dell'essere umano. Nel 2012 ho fatto uno studio per una scritta che sto realizzando in più media che dice "Abandoning reason generates fantasy". Quando Goya compose nella serie dei Los caprichos l'acquaforte El sueño de la razón produce monstruos si trovava in quella Spagna del tardo illuminismo dove appunto la luce dava alla razionalità la conoscenza di sole realtà percepibili e si divertiva a mettere in evidenza come chiunque, dotti, prelati o persone del popolo avessero comunque un lato mostruoso ed animalesco per natura: è possibile invece pensare che l'irrazionale è proprio ciò che ci distingue? Del resto gli animali non si ammalano mai di malattia psichiatrica, che non va confusa con quella neurologica e, se si parla di malattia è inequivocabile che prima doveva esserci uno stato di sanità, quindi mi viene da pensare che l'essere umano come tale, nel sonno della ragione, nell'irrazionale, non genera mostri, bensì fantasia.

Affermare che l'irrazionale sia ciò che ci distingue non è molto diverso dal sostenere (come faceva Aristotele) che la razionalità sia la prerogativa che differenzia l'uomo da ogni altro animale. Infatti l'irrazionale è la negazione del razionale, quindi senza ragione non potrebbe esistere, né essere concepito. Goya scriveva: "La fantasia priva della ragione produce impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie". Se "abbandonare la ragione genera la fantasia", è proprio la fantasia il fine ultimo? Oppure, qualora non fosse così, a che scopo l'uomo dovrebbe rincorrere le proprie fantasie?
In parte mi sembra di aver già risposto. Senza fare una disquisizione filosofica che lascerei, appunto, ai filosofi, ti dico solo che penso che il pensiero razionale, che viene dal Logos occidentale, sia sicuramente necessario, ma altrettanto sicuramente non sufficiente, soprattutto se vogliamo fare qualche passo in avanti e staccarci dal pensiero che sotto la ragione c'è l'animalità, il mostro, la malattia o il male che la ragione stessa deve controllare con una struttura atta a contenere qualcosa che altrimenti andrebbe incontro a chissà quale dissociazione. Forse è proprio la ragione astratta senza alcun rapporto con la dimensione umana più profonda che, di fronte all'irrazionale, si frantuma in mille pezzi come un vetro. Ripeto, la ragione è necessaria, per tutte quelle attività dell'essere umano che vanno verso la soddisfazione dei bisogni, verso l'utile, verso il mantenimento della specie... Un po' come fanno gli animali, ma a differenza di essi noi tendiamo a realizzare le esigenze, che vanno ben oltre la soddisfazione dei bisogni, che dovrebbero essere garantiti a chiunque. In questo senso nel progetto Morti sporche, che porto avanti parallelamente ad Umano Specie-Specifico, metto in evidenza l'assurdità che accade quando l'essere umano per soddisfare i bisogni può morire o ammalarsi sull'ambiente di lavoro cadendo nella morsa invisibile della schiavitù, facendo fuori un principio cardine dell'umanità che è quello dell'uguaglianza tra gli esseri umani, fin dalla nascita. Quindi questa storia che nel sonno si generano i mostri, mi sembra ormai non solo vecchia, ma senza alcun valore di universalità. Vorrei ricordare che Voltaire, un padre dell'illuminismo, era fortemente razzista nonché misogino. Per rispondere alla domanda, direi che la fantasia non è né un fine né un mezzo: mi piace l'idea che la fantasia sia l'inizio, sia la possibilità, l'identità dell'essere umano che, a differenza dell'animale, si oppone alla natura cercando di trasformarla. Purtroppo a volte, per calcoli troppo speculativi, la natura viene danneggiata, ma questo è un altro discorso che ovviamente va condannato. Recenti tesi sui ritrovamenti delle pitture rupestri nelle grotte di Chauvet, Altamira o di Lascaux propongono che il passaggio dal Neanderthal al Sapiens sia stato segnato proprio dal momento in cui le donne con i bambini hanno cominciato a tracciare delle linee "inutili" sulle pareti delle caverne, come se ad un certo punto l'emergenza delle immagini abbia permesso l'estinzione del Neanderthal per dare luogo ad un essere più evoluto; interessantissimo anche il fatto che questo stimolo sia venuto dalle donne e dai bambini che hanno fatto vedere ai maschi adulti che si poteva vivere non solo di ripetitiva razionale "ricerca" di cibo, ma che la ricerca poteva spostarsi verso una nuova identità come espressione di un'esigenza, certamente non razionale. Dunque, abbandonare la ragione per ricercare ed esprimere la propria identità, rincorrere le proprie fantasie nel senso di esprimere le proprie esigenze, esigenze interne di realizzare la propria identità, al di là della soddisfazione dei bisogni materiali.


Alessio Ancillai (Roma 1973) è un artista multimodale. Vive e lavora a Roma. Formato in materie medico-scientifiche, ha un'educazione artistica non convenzionale. La sua ricerca è dedicata alle caratteristiche che contraddistinguono l'essere umano come tale con due macroprogetti complementari che divide in capitoli: Umano Specie-Specifico e Morti Sporche. Nel primo, più intimo, indaga l'aspetto fisiologico con le caratteristiche che contraddistinguono l'essere umano come tale per la sua bellezza originaria e nel secondo, dedicato a temi sociali, indaga l'aspetto patologico parlando di come il disfacimento dell'interesse dell'essere umano per un altro essere umano possa portare verso il totale annullamento di esso. È rappresentato dal 2012 dalla galleria Pio Monti Arte Contemporanea di Roma nella quale attualmente è in esposizione personale con Umano Specie-Specifico (Luce e Sangue). Partecipa a progetti sociali con esposizioni collettive, anche permanenti, quali quella presso il MAAM - Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz_città meticcia e presso la Città dell'arte - Fondazione Pistoletto di Biella a cura di Giorgio de Finis. Ha esposto, tra le altre, nelle personali al Castello "Caetani" di Sermoneta, al Museo Civico "Emilio Greco" di Sabaudia, a "GarageZero" di Roma a cura di M. Piccinini, al Teatro "Eliseo" a cura di L. Palmieri, al Video Talk Exhibition presso l'"Atelier MetaTeatro" di Roma a cura di E. G. Abbiatici e nelle collettive presso il MACRO Pelanda Testaccio, l'Istituto Culturale Ceco di Milano, il Centro Culturale Vltavská di Praga con Art in box a cura di S. Horvatovicova, presso "Grismedio", Barcellona, Selecciòn 42, videoart experimental, comisariado por F. Pizzuto e presso "Interno 14" di L. Prestinenza Puglisi. È stato segnalato e finalista in numerosi contest di arte contemporanea (Premio Celeste Italia, Abstracta Film Festival, Celeste Prize International, Combat Prize, Premio Accda, Festarte, Luci sul lavoro).

Per approfondire:

giovedì 14 maggio 2015

Beuys, Koblin e il Turco meccanico

Probabilmente nessuno ha mai preso più alla lettera il detto di Beuys, secondo il quale tutti gli uomini sarebbero artisti, di Aaron Koblin. Il noto designer e programmatore americano, conosciuto soprattutto per i suoi progetti di crowdsourcing art, utilizza già da parecchi anni la piattaforma di Amazon Mechanical Turk per realizzare imponenti opere collettive, in cui affida a migliaia di lavoratori virtuali semplici compiti, come ad esempio riprodurre frammenti di immagini per mezzo di un intuitivo software di disegno. Eppure, se letteralmente tutti gli esecutori materiali coinvolti compiono un gesto che si potrebbe definire "artistico" in virtù del suo esito, non c'è da parte loro alcun coinvolgimento da un punto di vista espressivo o comunicativo, poiché tale gesto non è altro che una prestazione, in risposta a un preciso incarico e in cambio di un (seppur misero) compenso. Una massa di individui anonimi e sparsi per il mondo contribuisce inconsapevolmente a un processo creativo del quale solo l'ideatore ha la visione d'insieme. In altre parole, l'intervento umano perde ogni sua intenzionalità e si riduce a pura variabile determinata dal caso. L'abilità con cui Koblin riesce a coordinare la caotica e frenetica attività di sottopagati workers a caccia di pochi centesimi di dollari sta tutta nel rendere irrilevante l'approssimazione con cui i singoli compiti sono eseguiti, riducendo al minimo l'impatto dell'operato individuale nel concretizzarsi del lavoro collettivo. Così ogni disegno realizzato dagli utenti di Mechanical Turk corrisponde a una minuscola parte dell'immagine finale che, esattamente come accade in un dipinto divisionista o in una foto digitale composta da pixel, è perfettamente leggibile, anche se, osservata nel dettaglio, ricalca sommariamente la realtà. Qualcosa di simile avviene all'interno dei suoi video, nei quali è il singolo frame a essere ottenuto grazie al crowdworking, oppure nel progetto Bicycle Built For 2.000, in cui la melodia della canzone Daisy Bell è cantata da più di duemila voci umane differenti. Koblin sfida il caso, cercando di annullare l'imprevedibilità degli eventi moltiplicandone il numero a dismisura e scommettendo sul verificarsi dell'ipotesi più probabile, in base alla quale il suo progetto originario è portato a compimento con una discreta approssimazione. Il risultato finale corrisponderà alle aspettative in maniera inversamente proporzionale all'incidenza del singolo frammento sull'intero processo di realizzazione. Dunque il segreto per dominare il fato sta nell'ingabbiarlo in una griglia razionalmente costruita pianificando il succedersi di innumerevoli eventi, il cui esito è pronosticato attraverso un calcolo probabilistico. Il poker si basa sugli stessi principi: il giocatore esperto ha bisogno di giocare constantemente per lunghi periodi affinché la sua strategia basata sul calcolo delle probabilità si riveli proficua. Infatti l'inevitabile varianza tende a livellarsi e ad approssimarsi ai risultati attesi solo considerando un grande numero di mani giocate.
Volendo tentare una lettura critica dei più riusciti progetti di Koblin, come The Sheep Market e Ten Thousand Cents, molti hanno messo in evidenza la vena polemica rispetto a un modello di telelavoro che promuove forme di autosfruttamento e porta all'estremo la precarizzazione, ma pochissimi hanno colto le implicazioni filosofiche dei processi aleatori e disumanizzanti innescati dalla sua crowdsourcing art. In tal senso offrono spunti molto interessanti anche i Seed Drawings ideati da un altro artista americano: Clement Valla. Si tratta di grandi disegni realizzati anche in questo caso da migliaia di workers su Mechanical Turk, ai quali è chiesto di copiare uno stimolo iniziale. Dal momento che, dopo ogni riproduzione, la copia va a sostituire l'immagine di partenza e diventa nuovo stimolo, il risultato finale dipende da una serie di interazioni volutamente innescate dall'artista, che rinuncia al pieno controllo sul processo creativo.
In Italia la pratica del crowdfunding è stata minuziosamente esplorata da un gran numero di operatori culturali, trovando ampia diffusione e applicazione nei campi più disparati. Invece, nonostante le sue infinite potenzialità, il crowdsourcing non riscuote ancora troppo successo tra i creativi nostrani. Anche gli artisti che lavorano in maniera più specifica con i nuovi media sembrano poco interessati a sperimentare forme innovative di partecipazione, magari attraverso modalità più etiche e consapevoli di quelle adottate dai colleghi statunitensi. Sarebbe interessante interrogarsi sui motivi di una simile indifferenza rispetto alla questione dell'intelligenza collettiva, provando a rintracciare alcune tra le possibili cause di questa aggiornatissima manifestazione del proverbiale individualismo italiano. Da un lato il gap tecnologico rappresenta sicuramente un ostacolo significativo, ma un peso forse maggiore hanno le idiosincrasie radicate nel tessuto antropologico e sociale, storicamente impermeabile alla logica comunitaria.