sabato 22 giugno 2013

Una dissonante polifonia identitaria

Tra crisi economica e crisi dei valori, tra pensiero debole e ideologia, tra deterritorializzazione e localismo, tra antipolitica e corruzione, l'Italia del nuovo millennio è alle prese con un interminabile processo di ristrutturazione dell'identità, che tende ad assumere caratteri peculiari, conseguentemente alla specificità della situazione nazionale. L'identità contemporanea degli italiani è dinamica, come e più di ieri: si definisce in una costante manovra di costruzione e decostruzione, evolvendosi con il rinnovarsi dei riferimenti. Nel suo volume del 1995 Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori democratici, pubblicato da Feltrinelli, Carlo Tullio-Altan utilizzava per il nostro Paese la metafora della polifonia dissonante, sostenendo la contraddittorietà dell'identità etnica italiana, la sua variabilità e imprevedibilità. La debolezza dei processi di mitopoiesi, di costruzione di immagini archetipiche e di valori simbolici, ha determinato disfunzioni che hanno profondamente segnato il nostro costume nazionale, sia sul versante istituzionale, sia su quello della moralità pubblica e privata. La carenza, sul piano dell'ethos, del senso dello Stato e di valori democratici e universalistici si evidenzia come il principale punto debole nell'elaborazione collettiva dell'etnicità italiana, a cui si aggiunge la sopravvivenza di anacronistiche forme legate al principio del genos. Tali lacune hanno determinato l'insorgere di un insieme disomogeneo di valori, spesso tra loro in contrasto, in una pluralità conflittuale: per questo motivo nel contesto italiano alcuni caratteri della postmodernità (frantumazione, incoerenza, contaminazione) sono apparsi in maniera forse ancor più evidente che altrove. Nella costruzione dell'identità collettiva l'istituzione gioca un ruolo di fondamentale importanza poiché indirizza, pena la sanzione o il mancato riconoscimento, verso determinati valori socialmente accettati. Nel contesto italiano il riferimento istituzionale è sempre stato debole, dal momento che i principi di fedeltà e di lealtà nei confronti dello Stato hanno avuto grandi difficoltà ad affermarsi. Gli italiani hanno dunque varcato la soglia della surmodernità privi non solo di verità filosofiche e metafisiche, ma anche di spirito pubblico, trovandosi doppiamente disorientati ad affrontare i disagi delle rivoluzionarie mutazioni in atto.
La scarsa propensione a perseguire il bene comune ed una più spiccata predilezione per il conseguimento dell'interesse privato si spiegano con anni di trasformismo sistematico: un simile modello politico, di ascendenza giolittiana, piuttosto che correggere la fiacca vita morale dei cittadini, ha preferito adoperare tale fattore negativo al fine di consolidare il proprio potere, attraverso la pratica clientelare. Le conseguenze dell'intrinseca debolezza dello Stato sono di vasta portata: si delinea una situazione socio-politica che ha forti ripercussioni sulla cultura e sulla produzione artistica. Senza contare che, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, altri fattori intervengono a sconvolgere il già fragile assetto del nostro Paese. Il fenomeno del '68 porta a galla il profondo disagio giovanile di fronte alla corrente pratica politica: le nuove generazioni sono consapevoli delle inedite problematiche indotte dall'impressionante processo di sviluppo economico-tecnologico e delle loro conseguenze dirompenti sugli equilibri consolidati. La loro risposta è la mobilitazione e la protesta, segnali del riaffiorare di quel filone di giacobinismo eversivo che più di una volta ha caratterizzato le vicende della storia nazionale. La reazione dissidente di sinistra e l'egoistica accettazione delle consuetudini clientelari e del sistema partitico di gestione privatistica degli interessi pubblici hanno, in ogni caso, origine comune. Proprio la carente sensibilità nei confronti della razionale conduzione della cosa pubblica, la mancanza di senso dello Stato e di rispetto per l'interesse collettivo, la confusione tra le libertà naturali (i diritti del cittadino) ed un imprecisato spirito anarchico ed individualistico hanno generato da un lato il carattere anelastico della tradizione e dall'altro la disperata fuga in avanti delle avanguardie, nel segno dell'utopia. Nel tentativo di tracciare un profilo storico comparato delle identità nazionali europee, nel testo del 1999 Gli italiani in Europa, il già citato Carlo Tullio-Altan sosteneva che proprio: "Da queste due caratteristiche concomitanti deriva la duplice tendenza sia al conflitto ideologico senza mediazioni costruttive, sia ai compromessi di basso profilo fra interessi opposti, a spese delle risorse dello stato. [...] Queste distonie del sistema Italia, che si riproducono periodicamente dall'Unità in poi, sono largamente dipendenti dai limiti organici del nostro ethos, e cioè dalla scarsa condivisione e partecipazione a quei valori di convivenza e di solidarietà che rappresentano la spina dorsale della coscienza identitaria di un popolo".
La debolezza e l'inefficienza delle strutture pubbliche hanno avuto come primaria conseguenza la svalutazione della dimensione collettiva del vivere sociale, ma nello stesso tempo, per compensazione, hanno stimolato la capacità dei singoli di affrontare i problemi della vita in un'ottica individualistica, dotandoli di grande ingegno e dell'abilità di affrontare e risolvere ogni difficoltà con destrezza e in totale autonomia. Le ragioni storiche del limite dell'ethos italiano possono essere rintracciate nella somma complessa di diversi fattori. In primo luogo va ricordato l'avvicendarsi degli insediamenti più disparati sul nostro territorio, che, in momenti successivi, ha ospitato differenti popoli, subendo più volte la loro presenza come dominatori. Il divario tra le regioni settentrionali, prossime ai paesi in cui la tradizione democratica ha avuto origine e si è sviluppata in forme più avanzate, e quelle meridionali non ha certo contribuito a limitare la differenziazione e la disomogeneità. Inoltre un peso notevole va assegnato alla compresenza di due correnti di pensiero sociale, entrambe caratterizzate da una forte connotazione fideistica e radicate in profondità nella coscienza civile degli italiani, ma spesso inconciliabili fra loro: il cattolicesimo controriformista e la tendenza socialista ed anarchica. Fino al raggiungimento dell'unificazione del Paese, l'influenza del clero sulle masse contadine e sull'aristocrazia dominante era stata indiscussa; a partire dalla metà del XIX secolo una nuova forza sociale, con i suoi problemi e le sue convinzioni, si affacciò nel panorama italiano: l'emergente classe operaia e bracciantile. Gli ideali di cui si erano fatti portatori i lavoratori delle regioni industriali erano incompatibili con il conservatorismo religioso diffuso nella parte meridionale del paese, più arretrata dal punto di vista economico ed ancora dipendente in maniera esclusiva dall'agricoltura per la sussistenza. Dal canto suo il pensiero razionalistico di stampo liberale e democratico restava una prerogativa di una ristrettissima minoranza cittadina, che, pur avendo un notevole peso elettorale, non poteva certo determinare in maniera ampia e diffusa l'accettazione ed il riconoscimento di determinati valori civili in tutti gli strati della popolazione. L'unione di queste e simili concause ha cagionato per la multiforme e variegata realtà italiana la privazione dei principi dell'ordine sociale e della collaborazione ai fini dell'interesse generale. Per questo motivo il caso italiano rappresenta una particolare eccezione tra i paesi democratici europei, avendo maturato in ritardo ed in maniera incompleta un'identità collettiva.
Attraverso questa consapevolezza è possibile acquisire utili strumenti per la piena comprensione dei fenomeni culturali contemporanei e per un'analisi più attenta della produzione artistica italiana. Ogni intellettuale e ogni artista, anche colui che più si eleva e si distingue dalla folla, è infatti singolo individuo, ma anche, in una qualche misura, inevitabilmente, cittadino.

sabato 1 giugno 2013

Solo un trucco

La verità è che La grande bellezza è al di sotto delle aspettative. Regia pretenziosa.
(Federica Polidoro, Cannes Updates: La grande bellezza, la grande attesa, la grande delusione. Sottotono l'ultimo Sorrentino, schiacciato dal giogo di Fellini, da artribune.com)

Sorrentino se la prende anche con il mondo dell'arte contemporanea, con una ridicola performance di una bambina urlante che getta secchi di vernici colorate su una tela in un garden party affollato di cadaveri agghindati a festa, e una visita del nostro Gambardella, nella sua veste di cronista mondano, ad una mostra fotografica di autoritratti allestita nell'emiciclo di Villa Giulia. Anche qui, pur nella sua lettura eccessivamente paradossale e grottesca, Sorrentino ha messo il coltello nella piaga, denunciando quel senso di stanchezza che da qualche tempo circola tra i vernissage capitolini, dove la dimensione sociale sembra aver preso il sopravvento su quella culturale.
(Ludovico Pratesi, Una grande bellezza sprecata, da exibart.com)

La grande bellezza è un film molto ambizioso, ma di straordinaria profondità: una pellicola incredibilmente autentica, sofferta e, per certi versi, coraggiosa. La tiepida (quando non fredda) accoglienza che molta critica (soprattutto italiana) ha riservato all'ultima fatica di Sorrentino dimostra quanto scomodi e accidentati siano i percorsi di senso lungo i quali il regista napoletano ha deciso di avventurarsi. Tra l'altro, il film è stato decisamente snobbato anche dalla giuria di Cannes ed è uscito a mani vuote dal Festival. Quanto agli ambienti intellettuali del nostro Paese, è lecito supporre che in molti casi abbiano bollato come "pretenzioso" il lavoro di Sorrentino perché messi di fronte ad uno specchio che non rifletteva l'immagine desiderata. Il realismo crudo, cinico e spietato del Garrone di Reality era stato in qualche modo tollerato perché colpiva il "popolo", la "massa". La grande bellezza non risparmia le élite, per questo motivo il film non riesce ad essere ben digerito neppure dal pubblico per il quale è stato girato. L'amorevole disappunto di Sorrentino (che ricorda la bella intervista di Simonetta Fiori al professor Asor Rosa, pubblicata da Laterza con il titolo Il grande silenzio nel 2009) è stato percepito come un pugno diretto al volto da quell'aristocrazia compiaciuta e invischiata nei rituali mondani, sinceramente interessata a mantenere in vita l'equazione che associa la cultura a un insignificante e innocuo passatempo. Oggi, nel momento in cui il silenzio colpevole degli intellettuali fa più rumore, è troppo facile liquidare la lucida presa di posizione di Sorrentino accusandolo di essere troppo "felliniano". Altro che felliniane evasioni! La grande bellezza è una doccia fredda di realtà, appena addolcita dal velo poetico rassicurante della citazione. Il risentimento della critica più vicina al mondo delle arti visive è in fondo comprensibile. Sorrentino ha voluto letteralmente "far sbattere la testa" all'artworld contro il muro delle sue ipocrisie. Come non sorridere amaramente ascoltando il geniale dialogo tra il protagonista e l'equivoco personaggio interpretato da Anita Kravos, per l'occasione pseudo-artista performativa? Sarebbe sufficiente questa sola scena, memorabile ed esilarante, per evidenziare e stigmatizzare le fin troppo reali e abituali pratiche di ricezione e diffusione acritica del vuoto, in assenza di contenuti. Bisognerebbe riflettere con autoironia su un ritratto così impietoso, non chiudere gli occhi o voltarsi dall'altra parte. In fondo, è tutto un trucco, solo un trucco (per usare le parole di Jep Gambardella): anche la disillusione di Sorrentino.