lunedì 7 dicembre 2015

Tre domande a Michele Giangrande

I tuoi "rivestimenti" di oggetti comuni con silicone, piume, elastici o cerotti vengono accostati spesso ai ready made duchampiani. Tenendo però conto dell'accuratezza dei processi iterativi puramente meccanici che caratterizzano molti dei tuoi lavori, sembra più appropriato un confronto con gli esperimenti di ripetizione di Alighiero Boetti (che, ad esempio, ricalcava pazientemente la quadrettatura dei fogli con una matita), oppure con i trafori di Stefano Arienti. Nella tua ricerca prevale il gioco ironico della riproduzione, che sdrammatizza ogni pretesa di affermazione personale, oppure l'arte sottile della variazione, che sottolinea l'unicità dell'individuo nelle minime imperfezioni?
Ho sempre lavorato su un'idea di "architettura del visivo" che tiene conto del concetto di collocazione ambientale come filosofia dello spazio. La ricerca di una nuova oggettualità che si crea da altre forme; l'oggetto si reinventa in una spazialità che reinterpreta i nuovi contenuti formali. C'è un'allegoria del visivo in quanto si unisce un materiale ad un concetto, attraverso simbologie e accostamenti analogici; c'è un intervento estetico creativo, un codice visivo molto forte che si avvale di simboli, in cui l'oggetto si sottopone ad una interpretazione libera.
Opero un tentativo di manipolazione sulla realtà, un voler creare nuovi codici interpretativi di lettura che sfaccettano l'unicità dell'oggetto nei diversi rapporti estetici con l'opera d'arte; questa si ricrea in ogni singola relazione visiva, diventa un prodotto ontologico-sociale che si rinnova all'infinito. La creatività come strumento assoluto di espressione in cui l'oggetto è solo un mezzo per innescare il progetto creativo.
Questa mia "visione", unita ad un processo di recupero della manualità, intesa non solo come disciplina operativa, ma anche come occasione di scoperta e di verifica delle potenzialità espressive di materiali d'uso comune, mi portò nel 2002, ancora studente all'Accademia, a realizzare una sedia di legno interamente ricoperta di cerotti. Questa scultura si rivelò ben presto la prima di una lunga serie di opere caratterizzate soprattutto dalle qualità tattili e visive dei supporti scelti, privilegiando, per così dire, il gioco dei pattern e delle texture.
Non è dunque una riflessione sulla forma, in quanto struttura capace di rimandare alla funzione degli oggetti, il trait d'union della ricerca che ne scaturì, quanto piuttosto l'attenzione per materiali e superfici che favoriscono il dischiudersi di nuove possibilità interpretative attraverso inaspettati slittamenti semantici.
In questo modo, i giocattoli, gli strumenti musicali, le armi e gli altri utensili acquistavano una nuova epidermide, una sorta di seconda pelle che ne alterava non solo l'apparenza, ma anche e soprattutto il significato. Effettivamente, una volta rivestiti da una griglia ordinata di cerotti oppure da una fitta rete di punti di silicone o ancora da un'intricata maglia d'elastici piuttosto che da vere piume, gli oggetti scelti acquisivano una nuova identità, frutto di un mutato rapporto tra l'originaria funzione d'uso e il nuovo rivestimento dermico.
Insomma, diversamente dai ready made di duchampiana memoria e/o dall'objet-trouvé di matrice surrealista, sono oggetti modificati nella sostanza, poiché non solo prelevati dalla realtà quotidiana, ma trasformati radicalmente per mezzo di una manipolazione disciplinata e paziente, che da un lato conserva il simulacro degli oggetti e dall'altro ne altera l'aspetto attraverso un "aristotelico" modus operandi, conseguenza diretta ed inevitabile di un personale senso di horror vacui osservabile anche in lavori recenti (Writing series, 2015).
Le mie operazioni sono quindi il risultato dell'assemblaggio di oggetti d'uso riconsiderati, ma anche la materica testimonianza di un cortocircuito interpretativo. Ogni oggetto perde la propria funzione e attraverso esso è possibile realizzare l'opera d'arte, ma non la rappresenta.
Insomma, come diceva Marcel Duchamp: "Non c'è soluzione perché non c'è problema".

Nella serie Scrawl sono invece gli scarabocchi dell'artista, i suoi segni rapidi e vitali, a trasformarsi in oggetto e materia, in marmo o tappeto, con l'aiuto di sofisticate tecnologie. In questo caso il procedimento è in un certo senso inverso: nei tuoi primi lavori l'intervento dell'artista donava una nuova identità a un oggetto di uso comune, in Scrawl series il gesto artistico diventa pura sostanza attraverso lavorazioni industriali. C'è un gioco ironico di rovesciamento sui concetti di produzione e riproduzione?
La mia arte ha semplicemente il mio stesso carattere. L'ironia forse può servire ad esorcizzare il malessere che ci circonda e che spesso ci divora. D'altronde, come disse Orazio: "Che cosa vieta di dire la verità ridendo?".
Poi ci sono le nuove tecnologie. Beh, se ci siamo evoluti dai primati lo dobbiamo solo alla nostra capacità di ideare sempre qualcosa di nuovo. Per migliorare la vita, ma anche lo spirito. Avere paura dei cambiamenti è contro la natura dell'uomo.
Fin quando è stato possibile, abbiamo inventato tecnologie capaci di soddisfare le nostre esigenze e quando questi strumenti non ci sono bastati, abbiamo fatto ricorso a due placebo: la religione e l'arte. Con entrambi ci siamo inventati mondi fittizi nei quali ogni nostra debolezza è ribaltata in forza: siamo mortali e abbiamo creato l'ultraterreno; siamo brutti e abbiamo concepito i Prigioni di Michelangelo e le Madonne di Raffaello; siamo deboli e abbiamo ideato, oltre al Viagra, la Quinta sinfonia di Beethoven. L'arte ha da sempre sfruttato ciò che la circondava. Non avremmo avuto Le ninfee di Monet senza i colori ad olio in tubetto.
Personalmente non mi sono mai posto il problema del "fatto a mano" e soprattutto del "fatto a mano da me". Sarebbe un limite inaccettabile al giorno d'oggi. Nemmeno il pubblico ormai sente più questa esigenza, semmai l'avesse avuta.
Io, come tanti altri artisti, mi servo semplicemente delle competenze ed esperienze altrui di cui non dispongo. Quando le mie idee superano i limiti delle mie mani, cerco delle mani capaci di superare i limiti delle mie idee. In questo modo sono libero di pensare.
Dunque può capitare che, dopo una lunga ed attenta fase progettuale, il lavoro passi, sotto la mia strettissima supervisione, ad insostituibili professionisti, prima che instancabili artigiani, di ogni settore: falegname, fabbro, neonista, ceramista, marmista, ecc.
Voltaire diceva: "Chi non vive lo spirito del suo tempo, del suo tempo si becca solo i mali".

Come è nata l'idea per l'installazione Gears, che hai realizzato per la terza Ural Industrial Biennial of Contemporary Art a Ekaterinburg in Russia? Quali difficoltà hai incontrato nel progettare un intervento per una superficie di 4.000 mq?
L'installazione Gears (Ingranaggi) nasce nel 2011, anno in cui è ricorso il 150° anniversario dell'Unità d'Italia, come opera inedita per una grande mostra retrospettiva a cura di Artwo tenutasi a Roma, che raccoglieva una trentina di opere (2001/2011) in un'area industriale convertita a spazio espositivo: le Officine Farneto. L'idea degli ingranaggi scaturisce fondamentalmente da un'ossessione: la ruota, il simbolo dell'inventiva umana, e l'affine figura geometrica del cerchio. Il cerchio rappresenta la perfezione, la compiutezza, l'unione.
Sono un appassionato di geometria e di storia antica, in special modo precristiana. Da anni compio una ricerca che trae ispirazione dall'arcaico, dal primitivo, dalla rilettura del passato, partendo dalle mie origini, compiendo un percorso a ritroso nelle tradizioni popolari e nella stessa storia dell'umanità, per giungere alle prime espressioni artistiche e coglierne così la scintilla basilare.
La forma circolare degli ingranaggi (o di altre opere come Mandala del 2008, un cerchio formato dalla successione di coloratissime cravatte anni '70, o il più recente Lost in the magic white wild circle del 2014, dove il cerchio è generato da segni che la natura produce, in questo caso su dei sassi) e le loro dimensioni monumentali, rendono umilmente omaggio a quelle che spesso ho definito reverenzialmente "le migliori installazioni d'arte contemporanea di sempre". Mi riferisco ai siti megalitici, espressione della spiritualità neolitica, simboli della circolarità del tempo e dell'idea di rinascita dopo la morte, come il cosiddetto Cerchio di Bodgar (2.500 a.C. circa) che si trova sulle Isole Orcadi, nella Scozia settentrionale o il più popolare Stonehenge (3.000 a.C.) situato ad Amesbury nello Wiltshire, Inghilterra. O ancora ai tumuli funerari di Newgrange (diametro 80 m), di Knowth (diametro 95 m) e di Dowth (diametro 85 m) presenti a Brú na Bóinne, uno dei più importanti siti archeologici di origine preistorica al mondo, situato a 40 km da Dublino e risalente a più di 5.000 anni fa.
La nuova collaborazione con Savina Gallery (San Pietroburgo, Mosca), frutto della rete di contatti della Fondazione Museo Pino Pascali, ha reso possibile presentare i miei ingranaggi, a settembre del 2015, come Special Project alla terza Ural Industrial Biennial of Contemporary Art di Ekaterinburg. L'operazione è riuscita, con enorme successo, grazie al supporto ed alla partnership tra Liza Savina (gallerista e curatrice del progetto), Mars Center for Contemporary Art di Mosca (partner del progetto), Sparta Agency (partner del progetto), Sasha Iordanov (braccio destro della galleria), Alisa Prudnikova (commissario della Biennale), Kseniya Bogdanovish (coordinatrice del team della Biennale), Angela Varvara (musa ispiratrice e compagna di vita), responsabili della Ural Chemistry Mechanical Engineering Factory, ed un folto gruppo di instancabili operai dell'industria ospitante senza i quali non sarebbe stato pensabile, almeno per me, realizzare questa titanica impresa.
"Lieve è l'oprar se in molti è condiviso" (Omero).


Michele Giangrande è nato a Bari nel 1979. Ha compiuto studi artistici (Accademia di Belle Arti). È stato docente di Decorazione all'Accademia di Belle Arti di Catanzaro. Nel 2015 la sua ricerca è stata oggetto di un documentario di 26 minuti dal titolo Odissea dandy - Michele Giangrande e il suo atelier, promosso dall'Apulia Film Commission in collaborazione con la Fondazione Museo Pino Pascali e arTVision - A live art channel e prodotto dalla Esprit Film, presentato a diversi festival di settore e inserito nel palinsesto del canale televisivo Sky Arte per l'autunno 2015. Le sue opere sono presenti in musei, collezioni pubbliche e private in Italia e all'estero. Ha esposto in numerose mostre personali, collettive e di gruppo. Attualmente le sue gallerie di riferimento sono: Artnesia, Londra; Galleriapiù, Bologna; Savina Gallery, San Pietroburgo/Mosca. Collabora inoltre con: Artwo, Roma; Basita Italian Design, Roma; Competenze Distintive, Milano.

Per approfondire: