mercoledì 23 gennaio 2013

Tre domande a Michele Dantini

In Geopolitiche dell'arte. Arte e critica d'arte italiana nel contesto internazionale dalle neoavanguardie ad oggi (Milano, Marinotti Edizioni, 2012) l'indagine sull'arte contemporanea è condotta con uno sguardo attento a fenomeni e processi spesso trascurati, come i rapporti tra centro e periferia, le retoriche identitarie, la comprensione e la ricostruzione dei contesti sociali, il riconoscimento dei più specifici tratti antropologici. Quale valore aggiunto può derivare da un approccio che mescola etnografia e cultural studies nel settore della critica e della storia dell'arte?
La domanda è: com'è possibile restituire correttamente alla storia dell'arte dimensioni comunitarie, trasformare una routine filologica in una coinvolgente, veridica storia collettiva? A mio parere una narrazione contemporaneistica riesce quando incoraggia la maturazione di una competenza autobiografica nel destinatario, dunque mobilita in lui consapevolezze storiche e sociali sopite. E ancora: qual è la posizione più perspicace, per l'interprete, riguardo alla gran messe di testimonianze che gli artisti, i curatori, le reti amicali lasciano degli eventi?
La storia culturale italiana è caratterizzata da interruzioni profonde, improvvisi mutamenti di dizionario e cesure sanguinose. La diversità culturale che talvolta rivendichiamo è forse da rintracciare proprio nell'estrema commistione di paradigmi, lingue e culture, nella frammentarietà e dispersione di voci o documenti; nei caratteri come di palinsesto di un'eredità culturale che appare doversi riscrivere generazione dopo generazione per effetto di eventi storici di formidabile intensità e portata, e che ha equivalenti nelle tradizioni diasporiche piuttosto che in quelle degli stati nazionali occidentali.
La necessità di considerare criticamente autobiografie, manifesti, interviste e dichiarazioni autografe si consolida con il trascorrere del tempo, quando le testimonianze su un particolare artista, una particolare epoca si accumulano diventando disparate e innumerevoli. E si fa acuta per i decenni più recenti, quando artisti, curatori, galleristi, sono particolarmente interessati a costruire e diffondere "mito" individuale, di movimento, generazionale. La scelta di adottare una prospettiva storiografica critica, partecipe e distaccata insieme, discende dal proposito di sospendere l'adesione al "mito". L'indagine in chiave di cultural studies privilegia aspetti trascurati della produzione artistica, distanti dal piano promozionale: tecniche e stili di riconoscimento professionale, codici sociali e culturali di appartenenza, retoriche e luoghi comuni figurativi, politiche autoriali.

In uno dei suoi saggi (Una storia di sedie e cortei) la vicenda di Michelagelo Pistoletto diventa esemplificativa dello scenario complesso che si è venuto a creare, a partire dagli anni Sessanta, in seguito alla profonda frattura tra le logiche economiche internazionali e le identità culturali e artistiche locali. L'artista racconta, in un'intervista rilasciata a Celant, di avere scelto, alla fine del 1964, di rimanere a lavorare in Italia, nonostante l'esplicito invito del suo gallerista Leo Castelli a trasferirsi negli Stati Uniti. L'episodio è stato probabilmente amplificato da Pistoletto, per sottolineare la sua volontà di sfuggire al dominio culturale americano e di reagire ai vincoli e alle limitazioni imposte dal mercato. Questa versione autobiografica, oggi normativa, ha in qualche modo influenzato la lettura del percorso di ricerca poverista dell'artista piemontese, dagli Oggetti in meno in poi. Con acume filologico, nel suo libro, segue il filo rosso che unisce i quadri specchianti, i polittici bianchi di Rauschenberg e quel Quadro da pranzo che si può considerare capitolo iniziale degli Oggetti in meno, dimostrando la scarsa cautela storiografica di chi descrive la serie come equivalente artistico di un discorso operaista. L'intreccio di contenuti politici e di scelte di marketing rende dunque "populista" e opportunistica la mobilitazione sociale di Pistoletto? In che misura simili riserve possono estendersi al gruppo di Celant e consigliare quindi una lettura "cauta" dell'impegno antisistemico del movimento poverista? È possibile che l'immagine dell'arte italiana all'estero sia stata in qualche modo fraintesa e trasfigurata attraverso una sottile mistificazione che ha livellato le sfumature tra identità artistiche differenti, negli anni Settanta e ancora in seguito?
Alla sua prima domanda rispondo: in parte sì. Ne consegue dunque che non possiamo attenerci ancora oggi a logore versioni ufficiali che trattano l'Arte povera come un movimento "antisistema", come lei lo chiama. Le retoriche politiciste adottate da Celant per un breve giro di anni hanno senso nel contesto preinsurrezionale dell'Italia del tempo. Mi riferisco in particolare al biennio 1967-1969. Le tesi sulla "guerrilla" sono fantasiose, se considerate in termini strettamente filologici. Perché però dovremmo considerarle solo così? Certo non crediamo che Paolini abbia mai inteso incutere "terrore" o che Pistoletto sia un artista intrinsecamente politico. Resta che gli Appunti per una guerrilla (1967) ebbero grande fortuna, risultarono calzanti al momento (ricordiamo che Che Guevara era stato appena ucciso e commemorato solennemente in tutte le librerie Feltrinelli) e contribuirono al duraturo successo di un disparato rassemblement di artisti bravi o bravissimi. Quanto al "fraintendimento" dell'arte italiana: è prevedibile che la storiografia angloamericana privilegi determinati orizzonti interpretativi più congeniali o accessibili e ne tralasci altri. Certo esiste una distorsione prospettica, talvolta sottilmente pedagogica: l'Arte povera oggi è interpretata come contestazione del passato fascista della nazione o equivalente figurativo del pensiero operaista. Sarà proprio così? Personalmente faccio fatica a scoprire dimensioni antagonistiche in Marisa Merz, Calzolari o Boetti.

La fragilità del senso di appartenenza alla comunità nazionale è sempre stata una tara tipicamente italiana, dalla discesa dei Longobardi ad oggi, passando per l'occupazione araba e poi normanna, per l'età dei Comuni, delle Signorie e degli Stati regionali, per il dominio angioino, aragonese e austriaco, per il Risorgimento, la dittatura fascista e la "Seconda Repubblica". In che modo questa cornice storiografica ha condizionato il discorso critico e la produzione artistica?
Restringo l'ambito cronologico della risposta. Lo studio delle retoriche identitarie è passato più inosservato nell'ambito della storia dell'arte contemporanea italiana forse perché queste emergono in alcuni momenti, tendono invece a sottrarsi allo sguardo in altri. Eppure arte, storia e critica d'arte partecipano dello sforzo educativo e civile cui tende ciascuna pratica culturale dal Romanticismo in poi, con più forza nei decenni postrisorgimentali, nel primo Novecento e tra le due guerre. Si tratta di educare gli italiani, di abilitarli a diventare cittadini, di trasformare tratti antropologici avvertiti come deteriori. Il progetto pedagogico non si dissolve d'un tratto: persiste ancora negli anni Sessanta e Settanta, sia pure in forma sporadica o meglio spettrale. Talune (vestigia di) retoriche identitarie circolano ancora oggi, ma disgiunte da una qualsiasi progettualità storica. Una mia tesi formulata in Geopolitiche è: nei decenni postbellici non si esce dal dibattito sulla cultura nazionale, sul "carattere" o la "missione" (l'identità) italiani neppure quando si dedicano studi ai maestri delle avanguardie storiche o ai laboratori della modernità transnazionale. Esemplifichiamo con Argan: è per più versi evidente, nella celebre monografia da lui dedicata al Bauhaus, che "Gropius" sta per "Mario Pagano". Altri, come il Brandi dei secondi anni Quaranta e Cinquanta, scrivono "Dewey" e intendono in buona parte "Giovanni Gentile". Si cerca di sottrarre alla condanna e all'oblio una parte almeno della cultura italiana del Ventennio. Il progetto politico di Lionello Venturi, al rientro dall'esilio americano, è quello di bandire le retoriche identitarie dal discorso storico-artistico. Nel suo caso le retoriche autorizzate della critica d'arte saranno dunque internazionalistiche, ma la motivazione che sospinge lo storico e il critico, il sottotesto antifascista o defascistizzante, è ancora interamente nazionale. Questo per la critica. Come il dilemma identitario orienti la produzione artistica è il tema portante di Geopolitiche: i saggi dedicati a Manzoni, Pistoletto, Schifano, Kounellis, Paolini, De Dominicis e Cattelan costituiscono alcuni momenti tra i più storiograficamente rilevanti dell'intera ricerca.


Saggista, storico e critico d'arte, blogger, Michele Dantini insegna all'università del Piemonte orientale ed è visiting professor presso università nazionali e internazionali. Laureatosi e perfezionatosi presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, The Courtauld Institute (Londra), Eberhard Karls Universität (Tubinga), dirige il Master MAED al Castello di Rivoli Museo di arte contemporanea. È interessato a temi di critica istituzionale, alle pratiche neoconcettuali di indagine e viaggio, al rapporto tra immagine e parola. Tra le pubblicazioni più recenti: Geopolitiche dell'arte. Arte e critica d'arte italiana nel contesto internazionale dalle neoavanguardie ad oggi (Milano, 2012); Arte contemporanea, ecologia e sfera pubblica (Roma, 2012); Humanities e innovazione sociale (Milano, 2012); Horses and other herbivores (Bezalel Academy of Art and Design, Jerusalem 2010). Suoi progetti sono stati esposti presso: Fondazione Merz, Torino; CCCS Strozzina, Firenze; Centro di arte contemporanea Luigi Pecci, Prato; Centre de la Photographie, Ginevra; MAO, Torino; Maxxi, Roma. Collabora a Alfabeta2, Doppiozero, Il giornale dell'arte, ROARS, il manifesto.

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