domenica 16 novembre 2014

Tre domande a Christian Caliandro

In un tuo recente scritto pubblicato su Artribune, intitolato "Noterelle sulla cultura (IX): framework" (nono capitolo di una serie di articoli per la rubrica "Inpratica" dedicati all'analisi della situazione intellettuale e politica dell'Italia contemporanea), hai lucidamente affermato che pretendere di mettere in atto un qualsiasi cambiamento in campo culturale o sociale senza modificare il sistema di valori di riferimento sarebbe un'illusione puerile e un'imperdonabile superficialità. A tal proposito, auspicando un radicale rinnovamento etico che interessi la mentalità, i comportamenti quotidiani e la professionalità, hai elencato una serie di principi che potrebbero orientare questo processo evolutivo: povertà, dignità, umiltà, integrità, concretezza, condivisione e partecipazione. In che modo ritieni che simili "ideali guida" possano essere declinati, passando dalla teoria alla prassi, nella pratica curatoriale e nell'approccio critico?
Sintetizzando al massimo processi ed eventi che richiederanno una storia dell'arte in grado di intrecciare efficacemente economia, politica e storia culturale per dipanare la sequenza temporale degli ultimi trenta-quarant'anni, in grado di interpretare correttamente le vicende che hanno coinvolto e coinvolgono i differenti livelli della produzione, della mediazione e della fruizione artistica nazionale, si può dire che a partire dall'inizio degli anni Novanta l'arte contemporanea italiana avvia un costante ed inesorabile ripiegamento su se stessa, che prosegue ancora oggi. Questo fenomeno ha tradotto ben prima dell'avvento della crisi – in termini piuttosto crudi e brutali – l'inefficacia sostanziale del sistema-mondo nazionale dell'arte contemporanea al di fuori dei suoi confini. Della sua percezione interna e insieme della sua proiezione esterna. La crisi ha dunque fatto detonare i numerosi fattori di criticità strutturali e contingenti, che si possono riassumere in due atteggiamenti fondamentali: autarchia e autoreferenzialità. Entrambi sono manifestazioni molto evidenti di una paura collettiva del confronto con il mondo esterno, con le sue sfide – e della rimozione di un'ottica di competizione e di confronto.
In Italia, dunque (ma il nostro Paese è per molti versi, come spesso è avvenuto, un paradigma dell'Occidente...), la concentrazione autarchica e autoreferenziale sul "sistema dell'arte" – l'illusione che l'arte potesse vivere su una specie di piano parallelo, in una sorta di bolla... – ha fatto sì che questo territorio accumulasse un ritardo grave rispetto ad altri campi culturali (la letteratura, per esempio) e che sviluppasse una forma acuta di dissociazione rispetto al presente. Un post-post-concettualismo di risulta – divenuto nel corso dell'ultimo ventennio Maniera Internazionale – rappresenta così un intero sistema di lingua e di convenzioni, un recinto formale e formativo che di fatto non ha permesso alla maggior parte degli autori di confrontarsi criticamente con la realtà che li circonda, di interpretare il mondo attraverso l'arte e la pratica creativa – proprio perché questo sistema-recinto non riconosce alcuna prospettiva al di fuori della propria.
In questo senso, perciò, gli anni che stiamo vivendo rappresentano un vero momento di passaggio, il punto di transizione per il mondo artistico nazionale, verso una propria diversa definizione – rivolta forse a una relazione più stretta con il "fuori" rispetto a sé. Occorre che l'arte contemporanea cominci (come in alcuni casi, secondo alcune modalità, sta già avvenendo) a colmare la distanza che la separa dal pubblico e dalla realtà sociale.
La crisi (che secondo l'etimologia stessa del termine indica distinzione, valutazione, discernimento) è la transizione consapevole da uno stato della realtà ad un altro, inevitabilmente diverso. La crisi è una soglia, e al tempo stesso una trasformazione: essa richiede necessariamente la riconfigurazione dei paradigmi, dei punti di riferimento che regolano la nostra percezione della realtà. Attraverso la cultura.
Credo quindi che la critica artistica e culturale – una critica rifondata integralmente nei suoi presupposti, non decorativa ma fortemente interessata al senso dell'umano: e non è che ci manchino gli esempi in questa direzione: Longhi, Arcangeli e Pasolini, per dirne soltanto tre – possa giocare un ruolo fondamentale nel favorire questo passaggio: collaborando, come spesso è avvenuto nella nostra storia, con gli artisti stessi alla ridefinizione del ruolo e della funzione dell'arte nella vita individuale e collettiva. Costruendo un discorso che sia non solo in grado di interpretare il mondo in cui viviamo, ma anche e soprattutto di suggerire come gli oggetti culturali possano tornare a trasformare la realtà. La critica non serve a validare, ratificare o giustificare decisioni prese altrove, in aree extra-culturali: la critica ha il compito di immaginare e di articolare il tempo nuovo, che ancora non esiste e che sarà necessariamente differente da quello che stiamo vivendo; di scavare questo tempo nuovo nel presente insieme alle opere di artisti visivi, scrittori, registi, designer, architetti, musicisti, innovatori, e a farlo finalmente esistere. Per fare questo, però, è necessario ricominciare a voler fare le cose in grande, le cose grandi: è necessario smettere di accontentarsi e di giustificare i compromessi come inevitabili. Saranno necessari con ogni probabilità anni di lavoro quotidiano, collettivo, probabilmente oscuro, che ci mettano nelle condizioni di dare corpo e sostanza a valori diametralmente opposti rispetto a quelli che organizzano ancora adesso, incredibilmente, l'esistenza individuale e comune, e attorno a questi valori ricostruire integralmente un immaginario.
Ecco, direi che la ricostruzione della nostra infrastruttura immateriale è un compito degno che possiamo assegnare alla nostra vita: il che non vuol dire che questa ricostruzione sia necessariamente destinata al successo: una delle questioni infatti attuali è che ci siamo disabituati al rischio, al fallimento, alla prospettiva del fallimento, come se tutto ciò che facciamo dovesse per forza "andare bene", "sfondare"; e per paura di non riuscire ci affidiamo programmaticamente all'irrilevanza, al già noto, alla rassicurazione e alla consolazione di ciò che già sappiamo. Invece, è possibilissimo fallire, ma almeno sarà stato divertente e interessante provare a realizzare qualcosa del genere, insieme.

Trasportare nel territorio dell'arte contemporanea la questione del realismo, centrale in tutta la tua riflessione teorica e oggi al centro del dibattito filosofico, vuol dire sollevare insieme un problema di metodo e uno di linguaggio. Hai sempre sostenuto che quello che ti interessa maggiormente è il metodo: il realismo è per te non uno stile, ma un tipo di approccio al mondo. Non credi però che alcuni pregiudizi formali siano ancora troppo diffusi e impediscano un confronto costruttivo tra artisti che utilizzano codici espressivi, linguaggi e media differenti? Per fare un esempio, non trovi che la tendenza a confondere il realismo con la rappresentazione mimetica o denotativa (un malinteso che ci perseguita dal secondo dopoguerra, quando Togliatti stroncava le opere del Fronte Nuovo delle Arti definendole "scarabocchi") sia difficile da sradicare?
Onestamente no, non credo che ci sia un rischio di questo tipo. Il realismo, come tu giustamente ricordi, non è uno stile formale o un linguaggio, ma un approccio nei confronti del mondo: una "disposizione d'animo". E quello che vedo è che ci sono, in Italia, artisti con formazione e gusto differenti e personali, che sono però accomunati da questo tipo di approccio e di disposizione. Gli altri, la maggior parte, sono ancora purtroppo dominati dalla paura: e si sono dunque ostinatamente rifugiati nella decorazione, nella nostalgia, nell'evasione. Quando linguaggi di quarant'anni fa, elaborati attorno a sistemi di valori che erano propri dei trentenni dell'epoca, vengono svuotati del contenuto originario e proposti come gusci (lo stesso processo del resto avviene, con modalità diverse ma neanche troppo, con alcuni termini-chiave nel linguaggio e nella pratica politica...) abbiamo un problema piuttosto serio. La paura fondamentale è quella di "non esserci", di scomparire: di essere dei fantasmi. Solo che, se ci pensiamo, la condizione spettrale è estremamente interessante, per tutta una serie di ragioni: a patto che la si assuma consapevolmente. E non è affatto lontana dal realismo, anzi. Lo spiegava molto bene Alberto Savinio, uno degli artisti, scrittori e intellettuali più sottovalutati del Novecento italiano e europeo, quasi cento anni fa in un testo importantissimo per la teoria della pittura Metafisica come "Anadiomènon. Principi di valutazione dell'arte contemporanea" (Valori Plastici, 1919, n. 4-5): "Viviamo in un mondo fantasmico con il quale entriamo gradatamente in dimestichezza. Questo benevolo plurale non mi farà più d'uopo inoltre: fummo, siamo e saremo in pochissimi a risentire la sostanza piena della vita. [...] Con l'acquistare questo senso nuovo e vasto in una realtà più vasta, metafisico, or non accenna più a un ipotetico dopo-naturale; significa bensì, in maniera imprecisabile – perché non è mai chiusa, ed imprecisa dunque, è la nostra conoscenza – tutto ciò che della realtà continua l'essere, oltre gli aspetti grossolanamente patenti della realtà medesima".
Ecco, penso che l'operazione da condurre – e in questo la critica, ripeto, può giocare un ruolo molto importante – è quella di comprendere come tematizzare il disagio che ci attanaglia e che ci attraversa tutti (non c'è nulla di più diffuso infatti, nell'Italia di questi anni, della paura di essere già dei fantasmi), che articola e innerva il nostro presente, sia centrale per riconnettere l'arte alla realtà. Occorre abbandonare la retorica, il "fare-come-se" vivessimo in una dimensione parallela, e calare – senza autocommiserazione né autoassoluzione – la pratica artistica e creativa nel tessuto della nostra esistenza collettiva e quotidiana. Non c'è nulla, al tempo stesso, di più facile e di più difficile: usciamo infatti da un trentennio costruito attorno a una sorta di condizionamento collettivo, che si è rivelato molto resistente e dannoso in particolare nel territorio artistico, per i motivi che abbiamo citato sopra. Il recinto di convenzioni linguistiche e comportamentali che ha orientato le scelte degli artisti, dei curatori, degli operatori in questi decenni si sta rivelando particolarmente pernicioso, proprio perché si fonda sulla dissociazione rispetto a quello che avviene nella realtà sociale: occorre riportare il proprio spazio esistenziale – con tutti i suoi traumi, le sue incongruenze, le sue sofferenze – dentro le opere, e far sì che esse siano finalmente vive. La letteratura italiana, in questo senso, ci è di aiuto e ci indica come fare dal momento che nell'ultimo decennio scrittori molto diversi tra loro per generazione e linguaggio hanno saputo costruire insieme un corpus di opere importanti, che riflettono sull'identità italiana supplendo in molti casi a un'assente e lacunosa storiografia ufficiale: parlo di autori come Giuseppe Genna, Antonio Scurati, Alessandro Bertante, Giorgio Vasta, Walter Siti, Marcello Fois, Helena Janeczek, Antonio Moresco, Emanuele Trevi, Nicola Lagioia e molti altri.

La condizione spettrale di cui parli è forse davvero la cifra esistenziale del nostro presente: la paura di scomparire, di essere dei fantasmi è palpabile in ogni ambito dalla vita quotidiana, dunque influenza anche la creatività contemporanea. La percezione del vuoto e il tentativo di esorcizzare l'assenza attraverso la sua stessa rappresentazione sono nodi centrali nei percorsi di ricerca di alcuni tra i più interessanti artisti delle nuove generazioni. In altri casi la dolorosa presa di coscienza dell'inefficacia del proprio agire e della precarietà del proprio sentire si traduce in un tentativo di annullamento della dimensione soggettiva, stemperata nella documentalità o soffocata attraverso la meccanica registrazione di eventi determinati dal caso. Ma allora il compito dell'artista è puramente descrittivo? Il suo ruolo è semplicemente quello di comprendere e tradurre i processi di produzione di significato all'interno di una cultura? Oppure l'arte, anche nei momenti storici in cui la sua incidenza è ridimensionata, crea comunque dei significati? Se così fosse, la sfida non potrebbe consistere, banalmente, nel ritrovare il giusto equilibrio tra realtà e ideale?
Quando le cose si corrompono e si rompono, è difficile capire dall'interno quello che succede. Perché noi abitiamo questa corruzione, questa decomposizione, questo disfacimento. In un momento come quello che stiamo attraversando, è come se dovessimo prepararci ad una ricostruzione in stile dopoguerra – dunque, un'operazione, un lavoro collettivo, un assetto comune che richiede grande energia, volontà, determinazione, ostinazione. Abbiamo però a disposizione in generale creature ed espressioni vecchie, stanche, ciniche – anche quando da un punto di vista meramente anagrafico non dovrebbe essere così.
È per questo che scattano immediatamente le retoriche fallimentari, in ogni campo (compreso ovviamente quello culturale): la retorica della "ripresa", per esempio. Della ripartenza: "Ce la possiamo fare se facciamo così e così: basta volerlo". Non è proprio così. Per scavalcare il divario tra pensiero e azione, tra finzione e realtà, tra illusione e trasformazione del mondo occorre fuoriuscire – una volta per tutte – dall'autocelebrazione e dall'autocommiserazione (due attitudini psichiche apparentemente opposte, ma che in Italia fanno il paio praticamente da sempre). Siamo entrati in un'epoca nuova, sdrucciolevole, in cui si desidera immediatamente accedere a contenuti materiali e psichici – la ripresa; il superamento della crisi; la ricostruzione del Paese; ecc. – senza praticamente farne davvero esperienza. Li si vuole fruire e consumare come spettacolo identitario, non costruire internamente. Si vuole accedere a essi, e li si vuole accettare, senza scoprirne e condividerne i presupposti mentali: è una prospettiva impossibile, con ogni evidenza, e anche molto infantile.
Compito della cultura, in una fase di transizione epocale come quella che stiamo attraversando, non può che essere – dopo aver ratificato ed analizzato la fine dell'epoca precedente – immaginare, articolare e costruire l'epoca nuova. La cultura è il telaio, la struttura fondamentale di progettazione del presente e del futuro. La consapevolezza di questa funzione profondamente trasformatrice della cultura si sta facendo strada (nonostante quasi tutte le apparenze dicano il contrario) anche nel nostro Paese. Il compito dell'artista e dell'intellettuale non è dunque "semplicemente quello di comprendere e tradurre i processi di produzione di significato all'interno di una cultura", ma è proprio quello di produrre il senso che si riverbera poi dal territorio culturale alle altre dimensioni della vita collettiva (società, politica, economia). Di inventare – in tutti i sensi del verbo – il futuro.
Invece, il sistema-mondo dell'arte contemporanea (e, più in generale, il sistema-mondo della cultura contemporanea) fino a questo momento e per un periodo piuttosto lungo è apparso sempre più strutturato secondo lo schema concettuale – e ideologico – dei futures: alla previsione del futuro, infatti, è subentrata la "predeterminazione" di un futuro programmato sulla base delle caratteristiche, dei valori, delle esigenze presenti. Futuro come programma, e non come progetto. I controllori sono in questo modo chiamati a convalidare la correttezza dell'intero processo: il futuro è divenuto una procedura. Si tratta di mera amministrazione del presente, e di un'estensione di questa amministrazione nel futuro. È chiaro dunque che – all'interno di questa procedura – arte, intelligenza, cultura, immaginazione e critica non sono che ostacoli, intralci, orpelli inservibili. Ciò che però è dichiarato inservibile (cioè: che, letteralmente, "non serve" a espletare la pratica, a oliare il meccanismo, a far andare la macchina per il verso giusto) potrebbe rivelarsi a sua volta – e non sarebbe affatto una novità – dannoso per il processo stesso. È il motivo per cui le operazioni artistiche e culturali sono state ridotte in larghissima parte a decorazioni, tinte qui e lì di esotismo e di elementi identitari e di rivendicazioni nostalgiche: perché ciò che si vuole è annullare, ridicolizzare, esorcizzare il potenziale trasformativo degli oggetti culturali; la loro capacità latente di intervenire nel tessuto della realtà e delle relazioni umane, per illuminarli e modificarli. Credo che il nostro compito sia proprio quello di ricostruire, riattivare e riqualificare questa capacità.


Christian Caliandro (1979) è storico dell'arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Dal 2010 al 2013 ha insegnato "Media e narrative urbane" presso l'Università IULM di Milano. Nel 2006 ha vinto la prima edizione del Premio MAXXI-Darc per la critica d'arte contemporanea italiana. Ha pubblicato La trasformazione delle immagini. L'inizio del postmoderno tra arte, cinema e teoria, 1977-1983 (Mondadori Electa, 2008), Italia Reloaded. Ripartire con la cultura (Il Mulino, 2011, con Pier Luigi Sacco) e Italia Revolution. Rinascere con la cultura (Bompiani, 2013). Cura su Artribune le rubriche "Inpratica" e "Cinema"; collabora inoltre regolarmente con minima&moralia e alfabeta2. Ha curato mostre personali (tra cui quelle degli artisti Michael Bevilacqua, Pesce Khete, Ward Shelley, Nina Surel, Antonio De Pascale) e collettive, tra cui The Idea of Realism // L'idea del realismo (2013, con Carl D'Alvia), Concrete Ghost // Fantasma concreto (2014), entrambe parte del progetto Cinque Mostre presso l'American Academy in Rome, e Amalassunta Collaudi. Dieci artisti e Licini presso la Galleria d'Arte Contemporanea "Osvaldo Licini" di Ascoli Piceno (2014).

3 commenti:

  1. Complimenti e grazie a Vincenzo per il prezioso lavoro di approfondimento e a Caliandro per le risposte, che trovo più propositive della sua rubrica Inpratica, che leggo sempre, ma di cui in generale non condivido il tono, che considero troppo spesso volto ad ostracizzare una situazione incancrenita che a trovare vie d'uscita costruttive.

    Posso dire di condividere più o meno tutte le riflessioni, ma secondo me andrebbero approfonditi anche questi aspetti di carattere generale:

    - La maggior parte delle condizioni, delle situazioni, delle persone, dei luoghi, dei fenomeni non ha rappresentanza, né rappresentazioni, né narrazioni, e questa mancanza troppo spesso è stata sintomo di una prossimità all'implosione sociale.

    - Bisogna porre enfasi in primo luogo sulla figura del cittadino, inteso come persona che si informa per agire attivamente nel suo contesto, secondariamente sulla figura del'"intellettuale", ovverosia chi si occupa di analizzare criticamente i fatti e inquadrarli in una visione di ampio respiro, foriera di ulteriori spunti e azioni concrete, e solo in ultima istanza sulla figura circoscritta alla specifica professionalità di artista, architetto, ingegnere, tecnico, giornalista, scienziato, ricercatore, insegnante, operatore…etc. Ognuno può fare la sua parte in un discorso più ampio, in base alla sua formazione, preparazione, condividendo saperi e culture, in sinergia e dialogo con altre figure, a prescindere dal singolo orientamento caratterizzante. In caso contrario si rischia di fare riferimento unicamente a una cerchia più o meno ristretta di simili, senza tener conto di una pluralità di realtà, conoscenze, valori, istanze, punti di vista, mentalità.

    - Occorre creare ponti ed elementi di continuità fra le varie discipline e le numerose branche dei saperi che al momento appaiono scollegate e autoreferenziali, a dispetto della multidisciplinarietà apparente.

    - E' necessario sopperire su più fronti alle carenze strutturali contingenti, secondo le declinazioni individuali, assumendo nuovi ruoli e nuove funzioni, con la consapevolezza che ci si trova esposti a ridimensionamenti e riposizionamenti continui.

    Ovviamente non ho risposte e soluzioni, anzi, continuo ad arrovellarmi e a pormi domande…Mi chiedo se opero nella direzione giusta, se faccio abbastanza - naturalmente no - e via dicendo, ma quanto meno persevero e ci provo.

    Cosa ne pensate?

    Grazie per lo spazio e gli spunti di riflessione, spero e vi auguro di leggere tanti altri commenti oltre al mio ;-)

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  2. Cara Giulia,
    grazie a te per l'attenzione e per aver arricchito il post con le tue riflessioni. Concordo pienamente sulla necessità di lavorare in maniera multidisciplinare, non solo mettendo a frutto le singole competenze nei diversi settori che ognuno di noi ha, ma anche imparando a confrontarsi in maniera produttiva con gli altri. Come si sostiene anche nel dialogo con Christian, la partecipazione e la condivisione sono due valori importantissimi. Trovo anche calzante la tua considerazione in merito alla mancanza di rappresentanza e all'assenza di narrazioni che penalizza un'ampia fascia del tessuto sociale del nostro Paese. Qui il discorso sarebbe lungo, ma il tema dell'inclusione in ambito culturale è di grande rilevanza. In fondo, però, penso che il migliore contributo in tal senso possa provenire da un atteggiamento simile al nostro e al tuo: continuare a porsi domande, arrovellarsi, provare e perseverare, nella speranza che la direzione scelta sia quella giusta.

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  3. Intervista molto significativa, con tanti spunti di riflessione. Mi ha colpito questo punto, perchè mi ricorda come molti tentativi di riflessione critica odierni in ambito curatoriale non siano altro che una spettacolarizzazione superficiale della realtà o della "società dello spettacolo": "Siamo entrati in un'epoca nuova, sdrucciolevole, in cui si desidera immediatamente accedere a contenuti materiali e psichici – la ripresa; il superamento della crisi; la ricostruzione del Paese; ecc. – senza praticamente farne davvero esperienza. Li si vuole fruire e consumare come spettacolo identitario, non costruire internamente". Si vuole consumare la memoria attraverso un lavoro logorante di stampo antropologico -vedi Gioni all'ultima Biennale- oppure attraverso infinite ricapitolazioni. Con Shit and Die di Cattelan poi si è arrivati ad una sorta di curatela "liquida" che non fa che sommare i residui del Novecento per presentarli, ormai consumati e visivamente disattivati, agli occhi del pubblico.

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